P. Raffaele Villanacci (1851-1936) – Italia.
Chi non ha conosciuto don Raffaele Villanacci? Era a Pagani, all’ombra di S. Alfonso, da circa un ventennio. Ravvolto da una vecchia tonaca, con in capo un vecchio cappello, con le scarpe ugualmente vecchie camminava, appoggiato ad un povero bastoncello, per tutte le strade dell’Agro Nocerino.
Camminava con spirituale letizia tanto tra i nuvoli di polvere sollevati dal vento quanto tra la melma attaccaticcia dei viottoli campestri, portato sulle ali di una carità eroica. Né febbraio con le sue piogge fitte, né luglio coi calori soffocanti nella pianura del Sarno, ostacolarono mai i passi generosi di questo vecchio, tipo autentico di generazioni scomparse da un pezzo. Avido di recare ai sofferenti i sorrisi di Dio, lavorava ancora a 85 anni, benché sordastro e miope.
La morte non poteva sorprenderlo che sulla breccia… Ma egli vi si era preparato assiduamente colla preghiera, la penitenza e l’apostolato.
Era nato a Pastene, nel beneventano, il 7 dicembre 1851. Avviatosi per tempo al sacerdozio, celebrò la sua prima messa il 13 marzo 1875. Alle sue giovanili premure presto furono affidate le anime bisognose di guida. P. Parrella, negli « Eroi del villaggio » (Napoli, 1928), ha tracciato il miglior profilo di don Raffaele parroco. Fu parroco a Montorsi, e poi a Rocchetta, un pugno di case posto tra S. Marco e Torrioni.
Il 19 ottobre 1905 fu ammesso alla professione religiosa tra i Padri Redentoristi. Contava 53 anni, e ne dimostrava appena quaranta per lo slancio vivido nel ministero sacerdotale.
Poco dopo fu inviato al nostro collegio di Napoli a saziare la sua fame insaziabile di ricondurre le anime sviate sulla strada maestra della vita cristiana.
Raggiunse quindi la Calabria, e girò infaticabile le coste joniche e le borgate affondate nelle foreste della Sila.
Nel 1916 era sulla collina pittoresca di Lettere, confessore dei novizi. Da Lettere passò a Pagani, ove doveva vivere il periodo più epico della sua storia missionaria. E vi restò ininterrottamente fino al suo tramonto tranquillo.
Qui continuò l’arduo apostolato intrapreso in gioventù con l’unico miraggio della gloria divina. Dimentico di sé, non pensò che a consolare dolori, lenire affanni e a sollevare miserie, con una carità spirituale e temporale incomparabili.
Tutti accorrevano a lui bramosi, se non altro, di un accento pieno di fede e di speranza, obliando il suo viso butterato dal vaiuolo, le sue scarpe logore e le vesti consunte. Le magnanimi virtù esercitavano un fascino potente ed avvincevano gli spiriti più riottosi. Accoglieva con nobiltà di animo anche chi aveva ardito lanciargli atroci ingiurie.
Il compassionevole amico dei malati, l’edificante compagno dei sacerdoti esercizianti era inoltre il più gaio confratello delle nostre ricreazioni. Era felice di rallegrare in Domino particolarmente i nostri giovani educandi, novizi e chierici. Pendevano taciti dal suo labbro per sentire ingenui racconti detti in un linguaggio semplice, spontaneo, sempre attraente.
Scrupoloso nella osservanza regolare, stava sempre in coro, in biblioteca od in cella. Se usciva fuori, nol faceva per divertimento: rispondeva ad appelli di anime immerse in dolori fisici o morali. Non ha detto mai no, né mai ha avanzato un pretesto anche legittimo per risparmiarsi. Si privava del sonno e lasciava il piatto incominciato per accorrere ove c’era un gemito. Spesso lo si vedeva con le tasche della tonaca rigonfie… Era la sua frugale mensa che portava a persone languenti di inedia.
Un pomeriggio arrivò tardi alla portineria reduce da una delle sue solite visite caritatevoli. Era già suonato il segno della siesta: tirò tuttavia la corda del campanello. Poco dopo comparve sulla soglia il portinaio corrucciato: fece una buona ramanzina al ritardatario, condannando il povero vecchio stanco ed affamato a rimanere fuori in attesa della fine della siesta. Don Raffaele, senza scomporsi, si sedé francescanamente sui gradini ed aspettò rassegnato, a guisa di un mendicante, la buona grazia del rigido portiere il quale, per essere esatti, fu poi punito dai superiori.
Ecco un tratto, tra cento, che caratterizza il caro scomparso. Era veramente un uomo morto all’amor proprio. Cercava di attirare sopra di sé il disprezzo: industriavasi, senza pose ed affettazioni, ad apparire spregevole. È così che bisogna interpretare il suo modo trasandato. Amava essere considerato un inetto; era invece un infaticabile operaio, pieno di cuore e di intelligenza. Alla sera della vita, era giulivo di non aver occupato nell’Istituto alcun officio onorevole…
Il cielo, senza dubbio, ha premiato ad usura una vita così operosa e ricca di virtù non ordinarie, non rare volte incomprese dagli uomini.
Nel pomeriggio dell’8 dicembre 1936, alle ore 15,30, dopo placida agonia si spense la preziosa esistenza di don Raffaele. Trascorse gli ultimi giorni della malattia nella invocazione confidente dei nomi di Gesù e di Maria. Quando spirò tra le braccia dei confratelli, aveva in mano la immagine della Madonna, augusta protettrice dei Redentoristi.
Il popolo di Pagani, che lo venerava e amava, volle tributargli funerali sontuosi. E la sua salma attraversò le vie di Pagani sotto una pioggia di fiori. I poverelli – suoi amici – piangevano, ma si consolavano, ripetendo: È morto il santo!…
P. Oreste Gregorio
S. ALFONSO, anno 1937, pag. 29.
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Profilo tratto da
Nella luce di Dio, Redentoristi di ieri.
del P. Francesco Minervino, Pompei 1985
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