Hanno scritto di S. Alfonso /2
Oreste Gregorio su S. Alfonso
Sant’Alfonso scrittore europeo
Nel pomeriggio del 17 novembre 1963 il papa Paolo VI, proclamando Beato don Vincenzo Romano, parroco dei corallai di Torre del Greco, ricordò che la vita apostolica di lui fu caratterizzata dalla presenza di una “figura di primo ordine, Alfonso de Liguori che gli fu contemporaneo per oltre 30 anni e creò in quella regione con i suoi insegnamenti di scrittore ed esempi di vescovo un movimento di pensiero e di azione”.
II movimento alfonsiano, che suscitò salutari resipiscenze, non rimase circoscritto ai paesi del Vesuvio o della Campania: esso si estese rapidamente non solo al Regno di Napoli, ma a tutte le nazioni settecentesche della nostra Penisola, anzi penetrò nel circolo della più progredita cultura dell’Europa con risonanze discrete in taluni ambienti ecclesiastici dell’America meridionale e persino dell’Asia.
Con uno sguardo panoramico retrospettivo, basato sopra indagini recenti, credo che S. Alfonso sia stato realmente un personaggio di statura europea. “Si trovò di fronte, come riconobbe il sen. Ruffini, ad uno dei mutamenti, dei rovesciamenti, dei ricorsi storici più impressionanti che la evoluzione della spiritualità religiosa presenti nell’evo moderno”. Non assistette passivo né si lasciò travolgere da quei moti né si mantenne estraneo alle correnti intellettuali, che fermentavano sotto ogni orizzonte. Pur dimorando a Pagani nel ferace Agro Nocerino o in questa piccola e remota diocesi del Taburno fu strategicamente operante su tutte le frontiere della teologia, che costituiva ai suoi tempi il sostrato della cultura. Ben equipaggiato entrò nella mischia delle agitate controversie, lottando in genere da solo tra assalti concentrici, piombatigli addosso da parte dei rigoristi e lassisti, deisti e razionalisti, materialisti e gallicani. Gli eruditi, non esclusi canonici e abati, s’inchinavano come una selva di canne al vento che spirava dal campo di Febronio, Giannone, Voltaire e Rousseau, ed egli ancorato alla ortodossia tridentina smascherava gli errori seducenti, dominando teorie pratiche diversissime con opuscoli che andavano a ruba con disdetta dei settori illuministi, come risulta da una lettera di Cagliari inserita negli “Annali ecclesiastici” del 1792.
Nonostante gli scarsi mezzi di comunicazione, compiuta con una diligenza sgangherata nota al Goethe, era abbastanza aggiornato circa le produzioni librarie uscite in Italia e al di là delle Alpi, particolarmente in Francia e nell’Olanda. Gli amici di Napoli, Caserta e Venezia gli fornivano le indicazioni opportune, che completavano le “Gazzette fiorentine” e gli smilzi settimanali mensili coevi. Sottolineo che mai apparve un ottuso reazionario davanti alle affettive conquiste scientifiche; tracciò e difese al contrario posizioni avanzate con vigore di pioniere, più distintamente nella teologia morale e nella mariologia scomodando spesso i revisori regi e vescovili. Al centro di acide polemiche sostenne il dialogo con fermezza cosciente, intrisa di equilibrio latino, che Fernando Galiani sulle sponde della Senna scambiò per fanatismo, come si esprimeva nella sua corrispondenza parigina.
Sotto questo aspetto quasi inesplorato S. Alfonso insieme con san Benedetto e san Tommaso d’Aquino deve considerarsi per i suoi molteplici contributi uno dei più efficaci costruttori spirituali di Europa.
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Nel 1723 il Liguori, abbandonato non senza amarezza il foro partenopeo e ordinato sacerdote nel 1726, mise in un angolo le scartoffie per dedicarsi alla evangelizzazione minuta della plebe. Appena trentunenne, tra lo stupore di colleghi scaltri e parenti schifiltosi, sfondò il mondo chiuso dei lazzaroni scamiciati e dei venditori ambulanti, che schiamazzavano nei vicoli periferici della capitale del reame, col progetto di istruirli e farne dei cristiani autentici. Puntò sui laici come sopra un ponte, allora non calcolato, impegnandoli con audacia in una iniziativa pastorale, senza guardare a destra o a sinistra, e tanto meno alle spalle. Le teorie scolastiche, succube del clima feudale, ritenevano l’apostolato un ente della gerarchia… Il tentativo riuscì fecondo. Nascevano intanto sulle strade le originali “Cappelle Serotine”, che Benedetto Croce ha esaltato in una pagina fervida di “Uomini e cose della vecchia Italia”.
Il fuoco sacro divampava tra cenciaioli, cocchieri, muratori, sensali: S. Alfonso l’alimentava insonne con librettini da due soldi, opponendosi alla concezione di un cristianesimo angelistico e disincarnato. Le primizie del Dottore zelantissimo furono le Massime Eterne restate famose nella storia della pietà e le “Canzoncine devote” in vernacolo, che rivestite di melodia rallegravano l’atmosfera ingenua di quelle riunioni comunitarie, regolate da un maestrucolo di scuola e da un soldato in congedo.
A questi primi saggi tennero dietro altri scritti di propaganda religiosa come argine alle frivolezze dell’Arcadia. II missionario ispirava lo scrittore: nel 1734 una Coronella di Gesù Bambino; nel 1737 una Coronella dei dolori di Maria; nel 1743 le Considerazioni sopra le virtù e i pregi di santa Teresa di Gesù; nel 1744, su richiesta del Card. arcivescovo Spinelli, un riassunto della Dottrina cristiana; nel 1745 Riflessioni utili ai vescovi, che inviò in omaggio agli Ecc. mi Ordinari vicini e lontani. Nel medesimo anno un gentiluomo, che frequentava il collegio di Ciorani, indusse S. Alfonso a stampare le Visite al SS. Sacramento, che circolavano manoscritte tra i suoi novizi. II risveglio eucaristico europeo dell’Ottocento è dovuto a questo libretto, che ha conosciuto con 2100 edizioni una fortuna paragonabile a quella della “Imitazione di Cristo”. Gioiello della più schietta religiosità napoletana è diventato il codice familiare della devozione mondiale, che c’invidia il Bremond.
Il 1748 è giustamente celebrato negli annali della morale evangelica per le Adnotationes al Busembaum curate da S. Alfonso che gli “Avvisi di Napoli” si affrettarono a segnalare agli studiosi delle principali città di Europa. Esse impressero alle animate discussioni teologiche un nuovo indirizzo in mezzo al ginepraio casuistico detestato dall’abate Genovesi. Maturò negli anni seguenti la svolta decisiva sancita dall’autorità pontificia.
Durante il giubileo del 1750, in cui si estinse a Modena lo storico Muratori, il santo pubblicò “Le Glorie di Maria”: il più bel libro, attesta il mariologo Roschini, che sia stato scritto in italiano sulla Madonna. Ha avuto 800 edizioni.
II Liguori era severo con i letterati “en titre”, che elaborano in stile elegante le loro speculazioni, seduti a tavolino, magari tra cataste di volumi costosi, per accaparrarsi un posticino nella repubblica delle lettere. Egli si preoccupava principalmente delle attese e aspirazioni delle anime più insidiate e meno dotate. Affrontava le fatiche non allegre della documentazione con intenzione dottrinale e finalità pastorale. Benché fiero della natia Napoli, ove si ripercoteva ogni più importante avvenimento politico, filosofico, religioso, e artistico, tuttavia non si restringeva campanilisticamente tra gli Appennini e l’acqua salata dell’Adriatico e del Tirreno. Spaziava con inarrestabile zelo sul globo, sospirando: “Se potessi fare delle missioni per tutto il mondo, anche le farei”. Molti suoi libri scaturirono da questo atteggiamento paolino, che a volte sollecitavano i conoscenti e sapevano sfruttare non di rado gli stampatori più avveduti come il regnicolo Stasi e il veneto Remondini. Per tali vie vennero a luce l’Apparecchio alla morte (1758), IL Gran mezzo della preghiera (1759), la Selva di materie predicabili (1760), la Monaca santa (1760-61). L’opera letteraria diveniva una missione permanente con echi neppure supposti. La promozione all’episcopato nel 1762 non compromise l’attività scientifica di S. Alfonso; in certa maniera l’accrebbe. Con il consueto buon senso e sano realismo cominciò con andare incontro alle esigenze di suoi seminaristi e delle suore dettando regolamenti disciplinari ricopiati altrove. Per i preti del Sannio, ignari dell’idioma ciceroniano, compose il “Confessore diretto” in italiano. Ai predicatori che tuonavano sui pulpiti col “quinci e quindi” che irritavano il Baretti, offri nel 1771 i “Sermoni compendiati”, letti dal Card. Newman alla vigilia della conversione e annotati con soddisfazione.
In questo periodo fiorirono le migliori opere spirituali del santo, come la Via della salute, le Riflessioni sulla Passione di G. Cristo, le Riflessioni devote e la Pratica di amar Gesù Cristo, che è un capolavoro steso nella prosa più squisita del Settecento ascetico. A proposito di questo libro, sfogliato dal volteriano Prospero Balbo, padre dello storico Cesare, i competenti rilevano che dopo i lavori di san Bernardo, san Bonaventura, sant’Alberto Magno e san Francesco di Sales la letteratura cristiana occidentale ha aggiunto ai suoi scritti classici la “Pratica” di S. Alfonso, riprodotta almeno 600 volte.
Per chiarire alcuni tratti della sua Theologia moralis e schiudere il cammino tra feroci avversari, intervenne inesauribile con dissertazioni e limpide apologie, le quali inchiodavano il ferratissimo domenicano Patuzzi, che a corto di argomenti scagliava ingiurie veementi al prelato di S. Agata.
Nel 1777, già ottuagenario e molto malato, diede fuori la Fedeltà dei vassalli: era il testamento dell’infaticabile scrittore. Mezzo secolo prima aveva esordito con porre le Massime eterne fra le mani degli scugnizzi; al termine della longeva esistenza si rivolgeva alla coscienza dei regnanti di Europa non per adularli come Pietro Metastasio, poeta cesareo, ma per dimostrare loro in poche pagine che fanno “a calci offesa di Dio e rispetto al sovrano; se non si teme Iddio, né anche si teme il sovrano”.
Restauratore dello spirito ecclesiastico, infiacchito dai cicisbei e minuetti, rinnovatore del pensiero evangelico nelle discipline morali e nell’ascesi S. Alfonso ardiva richiamare i capi di stato, allora esclusivamente monarchi come quelli di Spagna, Portogallo, Francia, Napoli, Sardegna, Austria, ecc. a riflettere sui cardini sociali per respingere ogni collusione con le teorie agnostiche pullulanti da per tutto nel terreno fertile del regalismo. Riepilogando in concetti epigrafici la dottrina valida della tradizione affermava con inequivocabile evidenza che il pilastro del buon ordine civico è e sarà sempre la parte dei governanti la tutela dell’ordine morale secondo la legge divina.
Nella stesura di questo trattatello politico‑religioso, un discepolo pessimisticamente rilevò che era meglio badare ai missionari per non sprecare energie preziose. Egli scattò con impeto: “Che missioni e missioni! Uno di questi che colgo, vale per cento e mille missioni. Quello che un sovrano tocco da Dio può fare di bene, non possono fare mille missioni!”.
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Dal 1728 al 1778, per cinquant’anni di fila, mai depose la sua penna di oca, mentre si occupava in pari tempo del governo della diocesi e dirigeva l’istituto redentorista, che aveva fondato sulle montagne amalfitane nel 1732. Scrisse al tavolino o dettò dal letto 111 opere, distribuite in ascetiche, dommatiche e morali, alle quali bisogna aggiungere una grammatichetta italiana, un compendio di aritmetica, un Duetto musicale e un copioso epistolario. È un complesso di parecchie migliaia di pagine, irte di citazioni: nella sola “Theologia moralis” ne sono state numerate 70 mila.
Sono andati perduti alcuni manoscritti inediti, come la Dissertazione contro il “Trimerone ecclesiastico ‑ politico” di Salvatore Spiriti, la Risposta ad Eustachio le Noble su L’Esprit de Gerson, la Confutazione delle teorie di Giangiacomo Rousseau, ecc.
Il deismo francese, il febronianismo tedesco, l’illuminismo austriaco, il giansenismo nordico ebbero ripercussioni vivissime in S. Alfonso, provocandone pronta e coraggiosa reazione con prospettive missionarie. A lui interessava istruire per salvare.
Oggi, con statistiche concrete sotto gli occhi, non si stenta ad ammettere che negli ultimi 200 anni S. Alfonso abbia ricevuto, dopo la Bibbia, in Europa il più considerevole risultato editoriale: 20 mila ristampe in oltre 60 lingue: 5000 nel testo originale e 15000 nelle traduzioni. L’autore in vita ebbe la gioia senza dubbio sorprendente di vedere 500 edizioni dei propri scritti, di cui un centinaio in tedesco, francese e spagnolo: le opere alfonsiane non sono romanzi scintillanti né commedie spassose: ma libri impegnativi che mirano a convertire i lettori e non a divertirli.
Non mancarono i fattori che ne favorirono la diffusione, ostacolata apertamente o con arti subdole dal giansenismo ramificato ovunque, che vista la mala parata si arrabattò a mobilitare i suoi grossi calibri nelle aule universitarie. Non è possibile neanche un’analisi frammentaria in questo ristretto saggio.
La bontà intrinseca delle composizioni, schive di giuridicismo esasperato, e la fisionomia schiettamente pastorale giovarono al successo in modo determinante. Nell’arruffio delle idee bramavasi una voce sincera: tra i surrogati si cercava l’alimento genuino in ordine alla salvezza eterna. Il popolo possiede ottimo palato; sa distinguere il pane di grano da quello miscelato, per cui si buttò famelico sugli scritti alfonsiani propagati dai discepoli e conoscenti. Sorsero spontanei centri d’irradiazione: uno dei più attivi fu quello di Capua, che rievoco nella cornice del millenario, formato dall’arcivescovo Gennaro Pignatelli (1771‑1785), dal vicario generale Brancaccio (m. 1799), vescovo poi di Ostuni, dal canonico penitenziere Pozzuoli(m. 1799), indi vescovo di S. Agata dei Goti, dal canonico Jannotta, dalla famiglia Farao, da don Luigi Sagliano, dal piissimo p. Pagnani del quale è stato avviato il processo di beatificazione e da suor M. Angiola del divino Amore, tra le cui amicizie brillavano il Ministro G. Brancone e la regina Maria Amalia, moglie di Carlo III di Borbone. Simili cenacoli agivano a Caserta, Benevento, Salerno, Frosinone, Camerino nelle Marche, Rieti, Lucca, ecc.
Ritengo che sul fenomeno esercitò notevoli affetti la stampa, che prese a discutere le opinioni di S. Alfonso con lauti consensi o con acerbi dissensi. Mi sia concessa una fulminea rassegna di scrittori che l’appoggiarono: 1. Jorio, 2. O. Pavone, 3. F. Pepe, 4. Zaccaria poligrafo e bibliotecario estense, 5. Marcecalea, 6. Fogliani arcivescovo di Modena, 7. Mercuri, arcivescovo di Morreale, 8. De Vita vescovo di Rieti, 9. Calefati, 10. P. Roberto camaldolese, 11. Federico da S. Antonio, 12. Sparano, 13. Ambrosini, 14. Mattia del Piano poeta caro a Salvatore Di Giacomo, 15. Leggio, vescovo di Umbriatico, 16. Saverio Mattei traduttore dei Salmi dall’ebraico in versi italiani, 17. Pellisier eremita valdostano, 18. Gusta, 19. Dell’Armi, 20. D’Agostino, 21. Benedetto XIV, 22. Luigi Locatelli, prevosto della Collegiata di S. Maria maggiore di Bologna, che nella “Età della Chiesa” (Venezia 1779) scrisse: “Conchiuderò gli scrittori di questo ultimo secolo XVIII col nome sempre glorioso di Mons. Alfonso de Liguori vescovo di S. Agata dei Goti. Questo degno prelato ha dato in luce moltissimi volumi di opere tutte sacre e tutte spettanti al ministero ecclesiastico. In ognuna di queste si vede da quanto zelo e virtù sia egli fornito per la gloria di Dio e per il bene dei suoi prossimi. Auguro e ben di cuore prego il Signore lungamente conservarlo per vantaggio spirituale della cattolica sua Chiesa”.
Simili elogi eccitavano la curiosità di scorrere i libri di un autore vivo tanto lodato. Forse non l’acuivano meno le impugnazioni rabbiose, fatte oltreché da Patuzzi, Genovesi, Galiani, dall’ab. Magli, Leoluca Rolli, Serrao vescovo di Potenza, don Pasquale Diodati parroco di Bucciano, Manchi, Bertelli, Filangieri arcivescovo di Napoli, Prospero dell’Aquila, autore del Dizionario teologico portatile, Ruffo, l’enigmatico Cyrianus Chryseus, Aristasio alias don Gennaro Andolgi napoletano, ecc.
Gli studiosi esteri s’interessarono di S. Alfonso, in genere, con deferenza, facendo accoglienze liete ai libri di lui. Pochi nomi: Goldaghen, Hyper, Neubauer, Danner, Hillinger, Obladen (tedeschi), Nonnotte, Doré (francesi) Hennequin, De Hubens (belgi), Waluszew (polacco), Arques, Iturriaga, Losada Recena, Gaspar de Segovia (spagnoli). Dei contrari basta ricordare le “Nouvelles Ecclésiastiques” di Utrecht (1766).
Non mi sembra esagerato dire che sulla fine del ‘700 S. Alfonso era divenuto come un best‑seller in Europa. Il Lazzarista p. Roberti notificava al P. Tannoia, primo biografo del santo: “Credo, non vi sia stato autore alcun ascetico che abbia avuto tanta fama, né di simili libri verun libraio avuto un tanto spaccio. Ritrovandomi in una pubblica libreria di Macerata, mi disse il libraio che cavava più quattrini colle sole opere di Mons. Liguori che da tutti gli altri libri che aveva”.
Nella ricerca è più significativa l’attestazione di san Clemente Hofbauer (m. 1820), insigne prorogatore transalpino dei missionari redentoristi: “Tanta aestimatio venerabilis Ligorii in Germania praesertim viget, ut praecipue aliqua opuscula pietatis sub ementito Ligorii nomine passim in lucem edere auserint, convicti de certissima et subitanea venditione quorumvis operum nomine Liguorii insignitorum”.
Mons. Gultier, confessore della regina Maria Carolina consorte di Ferdinando IV re di Napoli, confidava allo stesso santo: “È tale lo spaccio dei vostri libri in Alemagna che anche i librai protestanti li hanno tradotti e ristampati, non per proprio profitto ma per farne guadagno…”.
Con i libri, che aprivano brecce nella muraglia massiccia di preconcetti, penetravano naturalmente e ponevano salde radici le idee. Il santo, in cui l’amore delle anime tenne costantemente il luogo del genio “animarum zelo succensus”, si industriò d’introdurre nella teologia più astrusa le più dolci ispirazioni della pietà. Fu il segreto rivelatosi miracoloso. Senza legarsi ad alcuna scuola, servì la verità con spirito indipendente. L’Europa deve essere grata a questo scrittore per aver trovato l’accordo in dispute amare che si trascinavano innanzi da secoli. Egli ha meriti eccezionali per il trionfo di verità entrate oggi nel dominio comune, come il primato, l’infallibilità pontificia, la Comunione frequente, l’Immacolata Concezione della Madonna, l’Assunzione corporea e la Mediatrice di grazia. Gli scritti eucaristici e mariani prepararono la vittoria della sua morale che è profondamente umana, come rivela Daniel Rops nella “Era delle grandi incrinature”.
Conclusione
Il protestante Adolfo Harnack, studiando gli influssi letterari della seconda metà del ‘700 disse: “Voltaire e il Liguori, che furono contemporanei, sono stati gli uomini più influenti nella direzione delle anime delle nazioni latine”. (cfr. Dogmengeschichhte, Freiburg 1893, 677). C’è del vero in questo parallelo: si sottintende ch’essi marciarono in direzioni opposte. Voltaire fu il demone del male, S. Alfonso fu un seminatore di bene: quegli esercitò il suo peso sui colti salotti scristianizzandoli, questi agì sulle moltitudini santificandole.
Don Giuseppe De Luca, il fondatore dell’Archivio italiano per la storia della pietà, un conoscitore indiscusso di S. Alfonso osserva: “Tre libri di lui nella storia del sentire cristiano e del pensare cattolico hanno una importanza formidabile. La sua Morale, le sue Visite al SS. Sacramento, le sue Glorie di Maria sono stati tre libri italiani tra i più letti e i più obbediti non soltanto in Europa ma nel mondo”.
Signori, non si tratta di una bella intuizione, buona al più per un panegirico alato, ma della sintesi di una biografia intellettuale, intarsiata di strabocchevoli testimonianze che ne documentano passo passo l’itinerario. Chi è addentro del problema e ha vagliato le prove ineccepibili con serena critica constata senza difficoltà che sotto i colpi della dottrina teologico ‑ ascetica del santo vescovo di S. Agata dei Goti caddero ad uno ad uno parecchi fortilizi degli errori disseminati lungo il secolo XVIII, per cui la pietà ottocentesca europea acquistò universalmente un sapore alfonsiano.
Oreste Gregorio
- Oreste Gregorio – Sacerdote redentorista, scrittore e storico, nato a Castelfranci (AV) il 7 febbraio 1903 e morto a Roma il 22 febbraio 1976. Storico dell’Istituto del SS. Redentore, ha scritto opuscoli vari e articoli fondamentali su Spicilegium Historicum e su altre riviste per la conoscenza di S. Alfonso e del suo tempo; è stato collaboratore per anni del periodico S. Alfonso e della rivista S. Gerardo; i suoi articoli sono raccolti in quattro volumi. Tra i suoi libri ricordiamo: Canzoniere Alfonsiano, e Mons. Tommaso Falcoja. – E’ morto nel 1976.
(da Atti del Convegno nazionale di Studi Storici promosso dalla Società di Storia Patria di Terra di lavoro 26‑31 ottobre 1966, De Luca Editore, Roma 1967)
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Riportato in
Ermelindo Masone e Alfonso Amarante
S.Alfonso de Liguori e la sua opera
Testimonianze bibliografiche
Valsele Tipografica 1987, pp.211-218.