Teologia e pastorale della carità in S. Alfonso Maria de Liguori
1. S. Alfonso de Liguori nel Settecento illuminato
Padre Antonio Maria Tannoia iniziando la vita del suo fondatore così scrive: Accade tavolta, ed è disgrazia degli eroi, che benché ricchi essi sieno di gesta gloriose, perché incontrati si veggono in scrittori, o infacondi di natura, o perché non curanti, rilevate non si veggono le loro azioni: così è anche disgrazia degli scrittori, che benché impegnati essi siano a voler metter in prospetto le gesta di un soggetto, degno in se per esser immortalato colla penna, anche, perché l’ammasso delle di lui memorie non fu curato… questo eroe de’ nostri tempi, esemplare, come è noto, degli uomini apostolici, specchio de’ vescovi, e de’ prelati, non comparirà sulle carte quello ch’è, e che da tutti si spera[1].
Della difficoltà di cui il biografo parla, se ne potrebbe scrivere molto, in lungo e in largo. La persona di S.Alfonso è in gran parte indescrivibile, come lo sono i mistici, come coloro che fanno l’esperienza dell’ineffabile mistero dell’Amore-Carità[2].
S.Alfonso de Liguori è stato certamente il più grande santo della chiesa del settecento, uno dei più grandi missionari che si abbiano
nella storia d’Italia[3], attento al grido degli uomini e agli appelli del Cristo, santamente “rivoluzionario” nella morale e nella pietà cristiana[4]: S.Alfonso, è una figura gigantesca non solo nella storia della chiesa, ma della stessa umanità, tanto che ci fu chi – e non si trattava di persona a Lui vicina per scelte ideali – vide in lui “l’educatore dell’anima cattolica dell’Occidente”, colui che
“nel cattolicesimo moderno ha fatto quello che per l’antico fece Agostino[5]“. Al secolo XVIII dobbiamo prestare attenzione per capire l’opera e la pratica di un Santo dallo zelo missionario, dalla carità pastorale[6]. E’ stato il santo del Secolo dei Lumi, ha raggiunto la gloria di essere, nell’empio secolo XVIII, la figura più grande e più imponente[7].
Un secolo quello di Alfonso gravido di vari avvenimenti politico-culturale-religioso. Un secolo che va dagli ultimi anni del viceregno spagnolo al viceregno austriaco per abbracciare tutto il periodo del regno autonomo da Carlo III di Borbone e Ferdinando IV: un periodo di successioni dinastiche, di profondi mutamenti politici e culturali, di grandi fermenti, di grandi polemiche religiose che influenzarono profondamente la mentalità, il costume, i generi di vita; più o meno coincidenti con la fine delle dominazioni straniere e con l’inizio del regno autonomo con una propria dinastia e con un proprio governo, che, oltre tutto, significavano anche un rinnovamento ed una rinascita negli spiriti più aperti e pensosi delle sorti del Paese[8].
L’organizzazione ecclesiastica, poi, risentiva appieno del sistema feudale allora vigente, sia sul piano del sistema diocesano che su quello delle altre strutture ecclesiastiche, dalle parrocchie agli Ordini religiosi. Le diocesi, del regno di Napoli, erano 131, di gran lunga sproporzionate rispetto al territorio, ove si pensi che in tutta la Spagna erano appena 54: diocesi piccole, povere, formate spesso da un solo paese, sorte nel corso dei secoli più per richiesta dei feudatari per dare lustro al loro feudo che per rispondere ad effettive esigenze di giurisdizione ecclesiastica. Delle 131 diocesi del regno, 17 erano di presentazione regia: il che significava che il diritto di presentazione del vescovo spettava al Re, che ovviamente, in sedi di grande prestigio, amava collocare persone più ligie alla monarchia che al papato.
La parrocchia, come struttura quotidiana del sacro, era nel regno quasi completamente sommersa da una fitta rete di monasteri e di conventi, di oratori e di chiese particolari, di confraternite e di luoghi pii, in gran parte di origine e fondazione laicale. Una tipica struttura meridionale, omogenea e funzionale alla società rurale, era la chiesa ricettizia, una parrocchia atipica a carattere locale e con clero esclusivamente del luogo[9]. Il clero delle province era di gran lunga diverso da quello della capitale per
formazione, per cultura e per condotta morale: era un clero fortemente influenzato dalla politica tanucciana che ne voleva fare quasi un clero nazionale più legato – attraverso una serie di nuove disposizioni legislative – al Re che non al Papa.
Nel Sud, inoltre, i decreti tridentini avevano incontrato una serie di resistenze di vario genere, da quelle culturali delle popolazioni e del clero, legati ad antiche consuetudini e rituali devozionali, a quelle provenienti dal baronaggio e dalla monarchia, spesso impigliati in una permanente conflittualità tra stato e Chiesa. I riflessi di tutti questi elementi sulla vita religiosa erano enormi, come risulta ampiamente dalle relazioni ad limina e dalle visite pastorali dei vescovi, per cui la vita religiosa aveva espressioni che sapevano di sincretismo magico-religioso, di superstizioni, di profonda ignoranza dei princìpi della fede, a causa anche di una sovrabbondanza di preti e di frati alimentata nella società del tempo dalla forte attrattiva di un sistema beneficiario, basato sulla larga disponibilità di beni ecclesiastici. Basti pensare che nel primo trentennio del ‘700, che coincise con l’episcopato di Francesco Pignatelli (1703-1734) e con dominazione austriaca (1707-1734), la popolazione di Napoli passò dai 214.000 ai 270.000 abitanti, raggiunse i 300.000 verso la metà del secolo e i 442.000 sul finire (1798)[10].
La popolazione ecclesiastico-religiosa era senz’altro eccedente e manifestamente alta in confronto a quella civile. Nel 1786, il Galanti rilevò 3.143 preti (in tutto) più 3.644 frati e 6.416 monache. Dai manoscritti della visita pastorale fatta in ogni parrocchia dal cardinal Giuseppe Spinelli (1735-1754), il totale dei preti si aggirava attorno ai 2.000 e quello dei frati e monache agli 8.000[11].
La Chiesa del Sud, perciò, nonostante i tentativi di ripresa con la riapertura dei seminari e con la convocazione dei sinodi,
costituiva ancora alla metà del ‘700 una realtà sotto-cristianizzata o superficialmente cristianizzata, con sacche di paganesimo e di cristianesimo molto formale, in gran parte derivata dalla mancata o superficiale applicazione dei decreti tridentini, dallo scarso e carente ruolo della parrocchia e dei seminari[12].
In questo contesto si inserisce la figura di S.Alfonso “dottore delle cime più alte oltre le quali è il cielo[13]“. Figlio di quel secolo, culla di nuove dottrine ed indirizzi filosofici-giuridici, dove controversie culturali e religiose trovavano terreno buono. La formazione culturale e forense[14] di Alfonso risentì dei fermenti che allora pervadevano la società partenopea; egli respirò la stessa aria e si trovò a vivere nello stesso clima culturale in cui si trovavano inseriti Giannone e Vico[15]; frequentò il Circolo dei Caravita al Largo Donnaregina e incontrò i personaggi più in vista della cultura, dell’aristocrazia, della politica napoletana. Egli fece propri gli stimoli della filosofia dei lumi che allora cominciava a serpeggiare negli ambienti più distinti di Napoli; anche egli partecipò delle aspettative e delle ansie di quella scuola riformatrice napoletana che doveva dare il meglio di sé nel periodo carolino e tanucciano con Genovesi, Filangieri, Galiani e tanti altri nobili ingegni, traendone alcune caratteristiche che saranno
altrettante componenti essenziali della sua personalità[16]: il valore e l’utilità dei “lumi”, della cultura estesa a tutti al di fuori di
particolari ceti; la connotazione antropologica come riscoperta dell’uomo[17]; la mentalità operativa, fondata sulla scoperta delle terre immense della rozzezza e dell’ignoranza, dell’abbrutimento e del disordine dell’umanità abbandonata a se stessa, estranea ad ogni filosofia civile.
Nel secolo XVIII, secolo di viaggi, di rendiconti letterari dal paese delle Indie, dal mondo dei musulmani e dei mongoli, anche S.Alfonso compie il suo viaggio, ma lo compie fra la miseria dei sobborghi cittadini e delle povere terre del Mezzogiorno e della Sicilia, e ne scopre l’inedito, il mai-visto, l’ignoto, e in mezzo a questo mondo sconosciuto, (trova) la grande sete di Dio e il bisogno di una fede guidata da un Amore-carità misericordiosa. L’urtò sulla sua coscienza di questa “scoperta” fu violento: lo piegò in una riflessione dolorosa, ma salutare, gli fece scoprire improvvisamente, una nuova via di Damasco, la strada che avrebbe percorso[18].
S.Alfonso, allora, nasce e cresce, all’ombra dell’illuminismo. Nei confronti di questa corrente di pensiero il Nostro santo si pone in un atteggiamento di “mediazione”. Negli Acta doctoratus, S.Alfonso è definito antilluminista per eccellenza, in un momento in cui la Chiesa si era posta in stato di vittimismo nei confronti del mondo moderno. Non era stato questo l’atteggiamento di S.Alfonso[19].
Il lessico di Alfonso risente del linguaggio illuminista. Il vocabolario su Dio e dei suoi attributi mette in risalto la forte incidenza della cultura illuminista: la ratio e la auctoritas, la coscientia e il peccatum, la veritas e l’ecclesia, la moralis e l’ethica, la lex e il miraculum, il corpus e l’anima. Gli illuministi facevano la distinzione tra l’idea e gli attributi. La polemica degli illuministi era sulle nozioni di Dio, sulla coscienza di poter esprimere Dio da parte scolastica, e sulla consapevolezza dell’inesprimibilità di Dio da parte degli altri. Sotto certi aspetti S.Alfonso trovò su Dio l’assetto delle nozioni. C’è da chiedersi se egli fu succube delle nozioni o se anch’egli in certi momenti abbia sentito il bisogno del silenzio intorno a Dio. Leggendo direttamente le sue opere si ha l’impressione che egli all’occorrenza riferisca le nozioni ufficiali della Chiesa, ma per quanto gli attiene esprime anche ricerca sull’essenziale. S.Alfonso aveva molta simpatia anche per autori non cattolici come il Clerk, un prelato anglicano che contro
l’illuminismo e in parte il deismo ha voluto affermare gli attributi di Dio[20].
S.Alfonso era un uomo molto pratico, un uomo che ha saputo comunicare, sia agli intellettuali che ai poveri ignoranti, il grande mistero dell’Amore di Dio che in Cristo diventa Amore Redentivo. Squisita era in lui la capacità di sintesi, e difatti spesso incontriamo in lui frasi come queste: “restringiamo in breve“, “per concludere tutto in breve“, “rispondiamo in breve“. Fame e sete di chiarezza: “in questa materia – scrive in una lettera indirizzata al tipografo Remondini – ci vuole gran chiarezza. Io ho letto su ciò molti libri, ma tutti oscurissimi… perciò voglio fare quest’opera, acciò che con la chiarezza possa levare di errore i poveri ingannati… L’impegno mio è di scrivere le cose con tale chiarezza che le capiscano tutti[21]“.
Quanto alla ratio, è soprattutto capacità di eseguire la legge. In realtà in Alfonso la ratio è il problema dell’essenza dell’uomo e in questo si pone contro gli illuministi per i quali la ratio è una ordinatio della vita verso un fine, cioè l’ordinazione dei frammenti dell’attività vitale. Quando si pongono i problemi della ragione in Alfonso sorge immediatamente la questione del sentimento e
della passione[22]. Per S.Alfonso il sentimento è strumento di elevazione oppure ragione di operare[23]. Ma il concetto di passione è negativo[24].
La grande primavera che si apriva alla pedagogia e alla psicologia illuminista era proprio sul concetto di passione, non più fondata
sulla negatività della natura umana, mentre per Alfonso la passione è conseguenza dei peccati e quindi una sorta di avviso sulla deficienza interiore. La passione è un’escrescenza da estirpare[25].
Quando si parla di ratio e di auctoritas sorge la questione sulla libertà che S.Alfonso pone. Naturalmente entra in polemica con Helvétius[26], lo fa per affermare che l’uomo è nato nella libertà e può agire solo sul fondamento di essa[27].
Nella Storia dell’eresie intitolata Trionfo della Chiesa[28] (1772), partito dalle eresie di Ario e di Sabellio, confuta, con dottrina e vigore, Lutero e Calvino, Michele baio e Giansenio[29], il Molinos e il P.Berruyier, si trova a duellare, e incita a duellare, con potenti intelletti stranieri, specialmente francesi, contro Voltaire, Rousseau, Elvezio, Febronio, contro la “tartarea secta philosophorum“, e non si dà mai vinto, adoperando come armi di battaglia sia l’italiano sia, e anzitutto, il latino: il latino, perché egli, convinto della non spenta vitalità e della universalità del latino, non voleva “che il suo zelo fosse ristretto entro la sfera dei soli luoghi, ove si trovava, ma bramava giungere con i suoi scritti nei luoghi più lontani della terra[30]: supplir voleva con la penna a ciò che colla voce conseguir non poteva[31].
Per quanto poi attiene il concetto di coscientia il riferimento va subito al peccatum. Su questo piano S.Alfonso costituisce uno dei maggiori antagonisti dell’illuminismo. Evidentemente la nozione di coscienza, da Wolf a kant, ossia nel periodo in Cui Alfonso operava e scriveva, si arricchiva di grandi riflessioni ed era visto come il patrimonio etico della natura e della cultura, dell’uomo, espressione massima della libertà, senza riferimento al peccato. In S.Alfonso la coscienza è la possibilità di scegliere tra il bene e il male. L’importanza particolare che Alfonso riconosce alla coscienza emerge dallo stesso autore “monito” con il quale apre la sua Theologia Moralis: Adverte, lector benvole, quod primum hunc tractatum de coscientiam, quo aditus ad universam moralem
theologiam aperitur, speciali studio a me elucubratum pro faciliori alumnorum meorum instructione apponere volui[32]. In
continuità con la tradizione scolastica e casistica il principe dei moralisti, definisce la coscienza con queste parole: Est
iudicium seu dictatum praticum rationis, quo iudicamus quid hic et nunc agendum ut bonum aut vitandum ut malum[33].
Per gli illuministi la coscienza è l’uomo che deve vivere la solitudine dalle opinioni e dalla cultura e cogliere in sé le persuasioni per arrivare alle scelte. Questa era la linea che da Michelangelo porta a Kant. Ma S.Alfonso deve istruire chi deve formulare consigli o deve giudicare delle azioni, in riferimento a un sacramentum: sono nozioni pratiche.
Per quanto riguarda il concetto di veritas Alfonso la intende come vita e, come tale, proiettata in avanti, e come la vita, non può escludere né la storia né il compromesso: tutto il suo “sistema” della grazia – esplicitato in modo chiaro nel Del Gran Mezzo della Preghiera (1758) – è impregnato da questa esigenza vitale che rifiuta la prigionia delle verità astratte.
Un altro approccio è tra lex e miraculum. Il concetto di legge nella cultura sua contemporanea, e soprattutto illuminista, era che la legge in sé esprimeva il governo divino, la lex era il miraculum miraculorum, era effettivamente una sorta di razionalità del cosmo e una possibilità per la ragione di cogliere un indizio di massima bellezza, Dio che si esprimeva nel governo del mondo. S.Alfonso insiste molto sul miracolo e arriva[34].
Anche il rapporto tra corpus e anima sul lessico alfonsiano investe tutte le questioni sulla felicità, sul progresso e sul mondo. Se in Alfonso c’è dicotomia tra corpus e anima, è evidente che ci troviamo di fronte ad una pedagogia inaccettabile dall’illuminismo.
Alfonso non era un illuminista, certamente, però, non era estraneo alla cultura illuminista, anzi è desiderosissimo di sapere cosa si
sta creando e pensando, ma è freddo e avverso a questa cultura.
[1] A.TANNOIA, I,1.
[2] R.DE MAIO, S.Alfonso e la
cultura religiosa dell’Illuminismo, in P.GIANNANTONIO (a cura di), Alfonso M. De Liguori e la società civile
del suo tempo. Atti del convegno internazionale per il Bicentenario della
morte del santo (1787-1988), Firenze 1990, 99.
[3] G.DE LUCA, Sant’Alfonso il mio maestro di vita spirituale, op.cit., 63.
[4] T.REY-MERMET, 24.
[5] GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica “Spiritus Domini“, (1 agosto 1987), in AAS 79 (1987),
1365-1375; per la traduzione in italiano cfr. L’Osservatore Romano, 2 agosto
(1987), II.
[6] PIO XII, Lettera autografa
per la nuova edizione delle opere di S.Alfonso M. de Liguori, in SH, I (1953),
247.
[7] T.REY-MERMET, 23.
[8] A.CESTARO, S.Alfonso e il suo
tempo, in P.GIANNANTONIO (a cura
di), Alfonso M. De Liguori e la società
civile del suo tempo, op.cit., 34.
[9] A.CESTARO, S.Alfonso e il suo
tempo, op.cit., 36-37.
[10] Solo Napoli, nel settecento può considerarsi una grande città. Basti
pensare che Roma in questo periodo non arriva a 150.000 abitanti; la stessa
Milano alla fine del 1790 contava circa 130.000 abitanti; Torino, infine, non
arriva a 100.000 abitanti. Cfr. M.VAUSSARD, La
vita quotidiana in Italia nel settecento, Milano 1990, 19-30.
[11] A.DE SPIRITO, La Parrocchia
nella società napoletana del settecento, in SH, 25 (1977), 76-77.
[12] Cfr. A.CESTARO, S.Alfonso e il
suo tempo, op.cit., 37; A.DE SPIRITO, La
Parrocchia nella società napoletana del settecento, op.cit., 90-110; Si
veda in proposito l’ottimo lavoro svolto da G.Orlandi nel primo volume della
storia della congregazione dei Redentoristi: Cfr. G.ORLANDI, Il regno di Napoli nel settecento, in
F.CHIOVARO (a cura di), Storia della
Congregazione del Santissimo Redentore: Le origini (1732-1793), Roma 1993,
55-117.
[13] G.DE LUCA, Sant’Alfonso il mio
maestro di vita spirituale, op.cit., 132.
[14] S.Alfonso fu iniziato da giovinetto allo studio del diritto, dal padre
Don Giuseppe. Nella vita del Tannoia si legge: Fu tale l’applicazione di Alfonso, e tali i suoi progressi nella
giurisprudenza, che, non avendo ancora anni sedici, dava conto, e possedeva
appieno una tal facoltà. Rilevasi dai registri de’ signori Caraccioli
d’Avellino, a’ quali spetta decorare in questo Regno i giovanetti della laurea
dottorale, che fu egli aggregato con applauso commune tra dottori; ma con
dispensa di anni tre di età, mesi otto, e giorni ventuno, essendo di anni
sedici, e mesi tre di età, mesi otto, e giorni ventuno, essendo di anni sedici,
e mesi tre, e giorni venticinque, e propriamente nel ventunesimo, si vide
Alfonso Liguori, con ammirazione comune, salire nei tribunali di Napoli; ed
assistere, anzioso di approfittarsi, alle tante decisioni di quelle ruote così
rispettabili.
A.M. TANNOIA, I, 11; cfr.
T.REY-MERMET, 115-116.
[15] Gian Battista Vico, soprannominato il maestro tisicuzzo dagli studenti, fu il fondatore della moderna
storiografia. S.Alfonso lo “affrontò” all’età di dodici anni
sostenendo con lui l’esame per l’ammissione al baccellierato in filosofia. Cfr.
T.RERY-MERMET, 84-88.
[16] Il cardinal Alfonso Capecelatro scrivendo la vita di S.Alfonso in due
volume così scrive: Se io non fossi
convinto che la nostra età superbisce d’inconsiderati e falsi giudizi, mi
riuscirebbe al tutto inesplicabile il pensare che il nome del De Liguori, anche
guardato nel suo aspetto civile, non sia stato messo insieme con i nomi dei
grandi Italiani onde fu ricco il secolo XVIII. Non intenderei affatto perché
Alfonso De Liguori non debba, per esempio, stare a lato del Vico, del Muratori
e del Filangieri, i quali, per diversi modi, furono insigni benefattori
dell’umanità. Certo, il De Liguori ebbe ingegno meno acuto del Vico; non
conobbe la storia civile e i suoi monumenti così addentro come il Muratori; e
nella scienza della legislazione non può compararsi col Filangieri. Cfr.
A.CAPECELATRO, I, 8.
[17] Cfr. A.CESTARO, S.Alfonso e il
suo tempo, op.cit., 35.
[18] G.DE ROSA, S.Alfonso e il secolo
dei lumi, in “Rassegna di
Teologia“, 28 (1987), 14-15.
[19] R.DE MAIO, S.Alfonso e la
cultura religiosa dell’Illuminismo, op.cit., 100.
[20] Ibidem, 101-102.
[21] A.LUCIANI, S.Alfonso cent’anni
fa era proclamato Dottore della Chiesa. Lettera al Presbiterio di Venezia
per il Giovedì Santo del 1972, Venezia 1972, 27-28.
[22] Il problema del sentimento e della passione erano nello specifico
dell’illuminismo. Gli illuministi intendevano per sentimento la possibilità
cognitiva e la possibilità di fondare la vita l’utile, sul pratico e sul
sublime.
[23] In Alfonso risulta forte l’interesse per il sentimento; tanto è vero
che il De Maio per individuare la personalità del santo, la sua
intellettualità, la sua spiritualità, la sua vicenda essenziale, propone lo
studio nel mito della sua sentimentalità.
Cfr. R.DE MAIO, La cultura religiosa
dell’illuminismo, op.cit., 100-102.
[24] Scrivendo un libro per le religiose dal titolo “La Vera sposa di
Gesù Cristo”, S.Alfonso esprime il suo concetto sulla passione in questi
termini: La prima regola è di conoscere
in noi qual sia la passione che più ci domina e più spesso ci fa cadere in
difetti, ed indi procurare di superarla. Dice S.Gregorio che di quella
medesim’arte di cui si vale il demonio per vincere noi, dobbiamo valerci noi
per vincere lui. Egli si affatica ad accendere sempre più in noi quella
passione alla quale ciascuno è più inclinato; e noi principalmente dobbiamo
attendere ad abbattere questa passione. Chi vince la passione predominante
facilmente vincerà tutte le altre… Se hai gittata a terra una passione,
calpestala, e passa a combattere coll’altra che resiste. La seconda regola si è
che la persona procuri di resistere alle passioni e d’abbatterle prima che
prendano forza; altrimenti se alcuna di loro s’invigorisce col mal abito
appresso molto difficile sarà il superarla… S.ALFONSO, La Vera Sposa di Gesù Cristo, cioè la monaca
santa per mezzo delle virtù proprie d’una religiosa,, in Opere Complete, IV, 66-68.
[25] R.DE MAIO, La cultura religiosa
dell’illuminismo, op.cit., 103.
[26] Illuminista coevo al Nostro, i suoi libri vennero messi all’indice da
papa Clemente XIII (1758-1769). Alfonso
non leggeva i libri che la Chiesa metteva all’indice. Per Helvétius abbiamo una
eccezione. Il santo chiese ed ottenne un permesso particolare a Clemente XIII
per poterlo leggere. Infatti su Helvétius egli ha una proprietà di conoscenza
che non troviamo quando combatte Spinoza o Voltaire, che conosce attraverso
Nonotte.
S.ALFONSO, Verità della Fede,
in Opere Complete, VIII, 772-786.
Cfr. R.DE MAIO, La cultura religiosa
dell’illuminismo, op.cit., 101.
[27] Confutando con robustezza il pensiero di Helvetius scrive: Inoltre dice in altro luogo, espressamente
parlando contro la verità: Se si desse libertà all’anima, si darebbe effetto
senza cagione e volontà senza motivo. Egli dunque vuol dire che la volontà
segue quel che le rappresenta l’intelletto; e da ciò ne ricava l’empia
conseguenza, che l’uomo non ha libertà nel suo operare. Ma erra, perché l’uomo
è stato dotato da Dio di ragione e di libertà: perché è dotato di ragione, la
sua volontà seguita ciò che gli propone la ragione, o sia retta o sia erronea,
di bene vero o apparente: ma perché poi la volontà è libera, ella seguita la
ragione, non necessariamente, ma liberamente, e solo perché vuole seguirla:
tanto è vero, che spesso la volontà lascia di seguire quel che le propone la
retta ragione, e s’appiglia al peggio, come scrisse Ovidio: Video meliora,
proboque, deteriora sequor etc. E così gli uomini peccano, e si fan rei
dell’inferno, perché si abusano della loro libertà, volendo seguire quel che
alla retta ragione si oppone. S.ALFONSO, Verità della Fede, op.cit., 780.
[28] L’opera fu edita per la prima volta in tre volumi a Napoli nel 1772.
S.Alfonso la dedicò niente meno che al Marchese Berardo Tanucci, primo ministro
del regno e noto illuminista con queste pungenti parole: Non ho saputo a che meglio dedicarla, ei dice, che a V.E., la quale
stando sempre a lato del nostro Augustissimo Principe, ha mai sempre col
medesimo zelato per gl’interessi della nostra Santa Religione, contro i
miscredenti, e contro gl’errori da’ medesimi in tanti loro libri vomitanti.
A.M.TANNOIA, III, 270-271.
[29] S.Alfonso fu un validissimo avversario dei giansenisti, insieme al
clero italiano ha contribuito moltissimo a distruggere l’eresia giansenista,
soprattutto con la diffusione delle sue opere. Si deve a Brunone Lanteri, verso
la metà del XIX sec., l’impulso a raccogliere le opere complete di S.Alfonso,
con la collaborazione dell’editore Giacinto Marietti, il quale meritò dal papa
PIO IX la medaglia d’oro con una lettera di elogio, datata 12 luglio 1847 e
riportata dal Marietti nel Vol. VII, delle opere complete dedicate a S.Alfonso:
Al Diletto Figlio Giacinto
Marietti,
in mezzo ad un così gran
numero di cattivi libri, che in questo nostro secolo vengono ogni giorno alla
luce, tu appari ai nostri occhi certamente degno della più grande lode, o
diletto figlio, del quale sono ben evidenti l’impegno e l’attività editoriale,
sia nel dare alla luce per la prima volta, sia nello stampare di nuovo libri
utili ed opportuni per difendere la religione, e soprattutto, per ravvivare
negli animi sentimenti di pietà. Nel dare alla luce questi libri tu fosti del
parere che meritatamente dovesse tutti gli altri Sant’Alfonso Maria de Liguori, nel quale furono degni di
ammirazione la benevolenza verso il prossimo e lo zelo inestimabile per la
salute delle anime. Lodiamo senz’altro il fatto che tu hai cominciato a
pubblicare una nuova edizione delle opere di questo autore tra i più importanti,
e, come è giusto, ti rendiamo molte grazie, o figlio diletto, per i volumi che
ci hai mandato in dono.
Frattanto, come pegno del
nostro amore paterno verso di te, ti giunga l’Apostolica Benedizione, che Noi
impartiamo con i cordiali sensi di profondo affetto a Te e a tuo figlio Pietro.
Cfr. M.COLAVITA, S.Alfonso contro
il giansenismo, in “S.Alfonso“,
9 (1995), 10-14; G.CACCIATORE, S.Alfonso e il giansenismo, Firenze
1944.
[30] R.AVALLONE, Alfonso Maria De
Liguori latinista, in P.GIANNANTONIO (a cura di), Alfonso M. De Liguori e la società civile del suo tempo, op.cit.,
510
[31] A.M.TANNOIA, II, 215.
[32] S.ALFONSO, Theologia Moralis,
in Opere Complete, V, lib.I, tract.
I, 1.
[33] Ibidem, 1; In proposito si
veda lo studio di P.Majorano. S.MAJORANO, La
Coscienza, Cinisello Balsamo 1994; D.CAPONE, La teologia della coscienza morale nel Concilio e dopo il Concilio,
in “Studia Moralia” 24
(1986), 221-249; B.HAERENG, Liberi e
fedeli in Cristo, I, Cinisello Balsamo 19873, 268-356;
L.VEREECKE, La coscienza nel pensiero di
S.Alfonso De Liguori, L.ALVAREZ VERDEZ-S.MAJORANO (a cura di), in Morale e Redenzione 1 (1983), 167-183;
B.PETRÀ, La coscienza nello Spirito. Per
una comprensione cristiana della coscienza morale, Milano 1993.
[34] R.DE MAIO, La cultura religiosa
dell’illuminismo, op.cit., 104.