6. S. Alfonso fondatore
La scoperta degli abbandonati a S. Maria dei Monti
Durante il periodo del volontariato di S. Alfonso e delle Cappelle serotine il giovane sacerdote aveva una attività intensa dal primo mattino a sera tarda con un dispendio enorme di energie. Sommando le ore di preghiera, le molte penitenze, i digiuni, le limitazioni nel cibo, flagellazioni a sangue e altre afflizioni corporali, allora in uso, viene da chiedersi come facesse a reggere. Infatti la madre notava che deperiva e lo supplicava di moderarsi e prendersi un po’ di riposo. Alfonso le sorrideva ma non cambiava, finché non si prese un esaurimento.
I suoi amici e compagni di apostolato pensarono di portarlo a respirare aria buona in campagna, sulla costiera amalfitana, e riposare. Presero un’imbarcazione e, costa costa, se ne andarono ad Amalfi, dove vennero consigliati di andare sui monti, a circa mille metri sopra Scala, da cui si godeva anche una vista straordinaria.
Scala è stata una città celebre nel passato, quando Amalfi era Repubblica marinara, e ha avuto un grande splendore. Adesso conta circa tremila abitanti. Allora, con tutte le dipendenze, raggiungeva i quarantamila.
Lassù, in montagna, c’era un romitorio, S. Maria dei Monti, con tanti pastori. Il Vicario diocesano di Scala suggerì di andare lassù, dove i pastori erano tanti e abbandonati, con cinque o sei stanze per dormire (giusto quante ne occorrevano per loro che erano quattro o cinque) e una chiesetta: «Vi riposerete, respirerete aria buona e farete un po’ di bene a quella gente», disse.
E così Alfonso, che aveva 34 anni, e i suoi amici, a metà maggio del 1730, salirono lassù. Appena si sparse la voce del loro arrivo, i pastori si presentarono e chiesero di essere catechizzati. Ad Alfonso non parve vero. Si riposava, prendeva l’aria buona, e non doveva stare in ozio: poteva continuare il suo mestiere di «catechista provetto».
Si mise dunque a catechizzare quei pastori con i suoi compagni e a ricevere con tutta carità le loro confessioni.
Fu una scoperta sconvolgente: questa gente («pastori e caprai e altra gente che se ne stava per quelle campagne») era ancora più abbandonata e bisognosa dei suoi lazzari napoletani. «Raccontava ei medesimo che buona parte di quei contadini vivevano all’intutto dimentichi di Dio e, quello che è più, perché lontani dai paesi, ignoranti ancora delle cose più necessarie. Anzi tanti e tanti non si potevano abilitare alla confessione se prima non si istruivano e dirozzavansi nei primi rudimenti della fede» (Tannoia).
L’incontro con Suor Maria Celeste Crostarosa
A giugno Alfonso scese a Scala per predicare nella cattedrale. Il Vescovo approfittò dell’occasione per fargli esaminare suor Celeste Crostarosa che si diceva avesse delle rivelazioni. Suor Celeste apparteneva al monastero della Visitazione di Scala. S. Alfonso giudicò che suor Celeste era credibile; non era una esaltata o una visionaria; in lei agiva veramente lo Spirito Santo.La Crostarosa, una grande mistica, è la fondatrice delle nostre sorelle redentoriste. Durante i colloqui la suora volle convincere Alfonso a fondare una congregazione missionaria. Alfonso ne fu profondamente turbato, ma riluttava, prima di tutto perché non si sentiva pronto e preparato e poi perché voleva essere convinto della cosa per conto suo.
L’esperienza montana aveva messo qualcosa di nuovo nel suo cuore. Dice questo storico, il Tannoia spesso citato: «Non partì di certo col cuore da S. Maria de Monti (così si chiamava quella località perché la chiesetta del romitorio era dedicata alla Madonna con quel titolo), né si lasciò addietro i suoi diletti pastori e caprai. Considerando il loro bisogno ne piangeva e pregava Iddio a voler prescegliere, tra i figli di Abramo, chi fosse per interessarsi per loro».
Depose il Padre Caione, un altro serio testimone, di aver udito egli stesso da S. Alfonso che tornò a Napoli «con la nuova risoluzione di istituire una Congregazione di missionari tutta dedita alla coltura della gente più abbandonata della campagna».
Nel settembre del 1730 Alfonso torna a Scala per predicare anche alle monache. Ha ancora colloqui con suor Maria Celeste Crostarosa con la quale inizia la corrispondenza. È ancora a Scala nel settembre del 1731.
Suor Celeste, che nel frattempo aveva dato al monastero nuove regole e nuovo nome ‑ del Santissimo Salvatore ‑ insistette con Alfonso perché fondasse la congregazione dei missionari con regole che richiamassero le sue. Alfonso se ne tornò a Napoli. Non lo angustiava il pensiero delle difficoltà da incontrare per la fondazione di un nuovo Istituto, date le leggi molto severe e contrarie, ma quello molto più angoscioso per la sua coscienza: se doveva essere proprio lui a farlo.
I dubbi e le difficoltà
Intanto a Napoli si sparse la voce che don Alfonso s’era perso dietro le fantasie di una monaca visionaria e che voleva andare via da Napoli, là in campagna, a fondare un nuovo Istituto. Dall’ammirazione per questo grande uomo, questo brillante avvocato diventato prete, amico dei poveri della città, acclamato predicatore in tutte le chiese, specialmente dove c’erano le Quarantore, si passò al dileggio e allo scherno pubblico.
Ma Alfonso non si perdeva d’animo. Aveva sottoposto il suo caso di coscienza al padre spirituale. Non gliene importava niente delle chiacchiere, contava solo la risposta del padre spirituale. Alfonso era un uomo di grande carattere. Il padre spirituale volle che anche un altro sacerdote, un celebre domenicano molto stimato e santo, giudicasse tutta questa faccenda. E alla fine conclusero che era volontà di Dio.
Tra coloro che più erano turbati dalle voci che circolavano per Napoli c’era suo papà, Don Giuseppe. Caduto il sogno di vedere il figlio magistrato, accarezzava quello di vederlo nelle alte sfere ecclesiastiche. Ma adesso, tutte queste voci e il progetto di andarsene da Napoli, lo angustiavano profondamente. Un giorno, racconta sempre il Tannoia, si recò in camera di Alfonso e per tre ore lo tenne stretto tra le braccia, ripetendo tra le lacrime: «Figlio mio, perché mi lasci? Non merito né mi aspettavo da te tale dolore. Figlio mio, perché mi lasci?». Confesserà un giorno S. Alfonso «che in vita sua sperimentato non aveva tentazione più cruda né conflitto più amaro».
La decisione e la fondazione
Ebbene, nonostante tutto, quando gli esperti consultati conclusero che non si trattava di un capriccio, di fantasie né di una monaca esaltata, ma che era veramente volontà di Dio, Alfonso prese la sua decisione: «Non mi regolo con visioni, ma col Vangelo» e con cinque compagni, un laico e quattro ecclesiastici, se ne andò a Scala. Il Tannoia con frasi lapidarie dice: «Accertato Alfonso della volontà di Dio, si animò e prese coraggio e, facendo a Gesù Cristo un sacrificio totale della città di Napoli, si offerse menar i suoi giorni dentro proquoi [cioè le stalle, i recinti degli animali] e tuguri e morire in quelli attorneato dai villani [cioè dalla gente dei campi] e dai pastori».
Se ne va a Scala con i suoi compagni non in carrozza o a cavallo, come esigeva il suo rango di nobile, ma a dorso di somaro, come i poveri. E lì, dopo un ritiro, il 9 novembre 1732, fonda la Congregazionedel Santissimo Salvatore.
Come mai l’Istituto fu chiamato così? Perché quel giorno ricorre la dedicazione della Basilica del Santissimo Salvatore, più comunemente conosciuta come S. Giovanni in Laterano, che è la Cattedraledi Roma. Quando nel 1749 le regole furono approvate dal Papa, il nome fu cambiato in SS. Redentore, perché l’altro si applicava ai Chierici Lateranensi. Il nome corrispondeva benissimo allo scopo che Alfonso si proponeva: comunicare ai poveri, agli abbandonati, a quelli ai quali la pastorale ordinaria non pensava, l’abbondanza della Redenzione. Il motto scelto fu e resta programmatico per ogni redentorista:. Copiosa apud eum Redemptio: presso il Signore sovrabbondante èla Redenzione.
Il piccolo gruppo si radunò in assemblea costituente per stilare le regole. Ad un certo punto non si trovarono più d’accordo: chi voleva una cosa, chi un’altra e chi voleva la scuola. Certo nelle campagne non c’erano le scuole e quello era un servizio agli abbandonati, ma S. Alfonso su questo punto fu intransigente: se facciamo la scuola, addio missioni, addio annuncio della misericordia di Dio e della sua universale volontà di salvezza e di santificazione. E rimase solo. Non per molto, però. Presto lo raggiunsero altri suoi amici e compagni di apostolato e di volontariato della prima ora e costituirono il fondamento solido sul quale crebbe l’Istituto.
La casa e la missione redentorista
Ora vorrei fermare l’attenzione su due peculiarità di Alfonso fondatore: la casa religiosa redentorista e le missioni redentoriste.
La casa religiosa ideata da S. Alfonso deve corrispondere alla finalità dell’evangelizzazione dei poveri. L’ubicazione non sarà nelle città, né nei paesi, ma nei piccoli centri, al margine dell’abitato per favorire la vita di raccoglimento e di studio. Verrà scelta una località centrale, alla quale possa convergere agevolmente la gente delle zone vicine. Terminato il periodo delle missioni che durava sei mesi, i religiosi restavano in casa a continuarle in modo permanente nelle loro chiese, dove si svolgevano tutti gli esercizi delle missioni: meditazione, rosario, visita al Santissimo e alla Madonna, novene, confessioni e una nutrita catechesi.
Inoltre le case dovevano essere abbastanza grandi per poter accogliere preti e laici della campagna e quanta altra gente, anche analfabeta, volesse accorrere per gli esercizi spirituali. Non solo i ricchi delle città dovevano godere di questa santa opportunità. S. Alfonso l’offre, e gratuitamente, alla gente che non avrebbe mai potuto accedervi: Copiosa apud eum Redemptio. Inoltre le case dovevano essere centri di aggiornamento e di formazione permanente del clero zonale invitato a prendere parte alle accademie, o «casi», nelle quali venivano trattati di volta in volta argomenti di dogmatica, morale, sacra scrittura, liturgia, spiritualità, diritto canonico.
Per quanto riguarda le missioni, al tempo di S. Alfonso vi erano vari metodi di missione. Uno molto celebre era quello del noto gesuita Paolo Segneri. Per la missione si sceglieva un paese centrale (fu detta perciò anche missione centrale) dove stavano i missionari. La missione veniva predicata solo nei mesi estivi, col bel tempo, che permetteva gli incontri all’aperto. La gente che voleva partecipare alla missione doveva accorrervi dalle varie località, spesso distanti.
A S. Alfonso, che ha scritto parecchio sull’argomento la missione centrale non piaceva, perché veniva predicata nei mesi caldi, quando la gente è occupata nei lavori delle raccolte, perché doveva fare molta strada e con la calura per raggiungere il luogo centrale, e quindi vi si potevano recare non tutti e non tutti i giorni. Inoltre i sacerdoti che predicavano, specialmente i confessori, erano in maggioranza del clero locale, e questo non favoriva buone e libere confessioni.
Nel metodo alfonsiano le missioni vengono predicate nei mesi invernali, quando la gente è più libera dei lavori dei campi, e con un’azione a tappeto, passando da un paese all’altro vicino (oltre tutto con il vantaggio della risonanza). Il gruppo missionario è composto tutto da Redentoristi e in numero adeguato alla popolazione, perciò non si chiede mai l’aiuto del clero locale per le confessioni. La durata varia a seconda dei luoghi: nelle piccole località va dai dieci ai dodici giorni; nei centri maggiori da tre a più settimane. La missione è gratuita e anche la permanenza dei missionari non deve gravare sulla collettività. Perciò i Redentoristi prendono in affitto una casa dove si sistemano come fosse un convento e vi svolgono gli orari di preghiera e gli atti comuni come nelle loro case. Alla cucina e alle altre necessità materiali provvedono dei fratelli coadiutori che saranno presenti anche in chiesa a dare una mano e un contributo al buon ordine.
Tutte le prediche sono organizzate intorno ai motivi della conversione: la risposta agli appelli dell’amore divino. Pertanto non devono incutere il terrore, ma spingere a convertirsi alla divina misericordia. I sentimenti fondamentali ai quali deve essere guidato l’uditorio, in vista di una conversione duratura, sono la contrizione e l’amore per Gesù Cristo. Tutta la dottrina teologica alfonsiana sulla grazia, la necessità della preghiera, la mediazione della Madonna, l’uniformità alla volontà di Dio modellata su Gesù Cristo, è sintetizzata nel «Foglietto in cui brevemente si tratta di cinque punti» da trattare sempre nelle missioni:
Amore a Gesù Crocifisso – Devozione alla beata Vergine – Necessità della preghiera per la salvezza – Fuga dalle occasioni del peccato – Il gran danno di celare i peccati in confessione.
Molta importanza veniva data al canto. Si insegnavano al popolo i canti di missione, che anche il missionario e lo stesso S. Alfonso cantavano in pulpito per creare l’atmosfera, le canzoncine alla Madonna, della Passione ecc. (quasi sempre di S. Alfonso). Non si badava solo alla conversione individuale ‑ che si facesse una buona confessione ‑, ma a quella dell’intera parrocchia. Per questo assumono un posto speciale le istruzioni ai ceti particolari: clero, religiosi, nobiluomini, categorie artigianali, carcerati, militari.
Terminata la missione, alcuni missionari si fermano ancora qualche giorno per introdurre la vita divota. Consisteva in questo: ravvivavano le confraternite, specialmente quella del Santissimo Sacramento, insegnavano l’orazione mentale, guidando la meditazione da fare poi ogni mattina; il modo pratico di partecipare alla messa, il modo pratico del rosario meditato da recitare ogni giorno e della visita al SS.mo Sacramento e alla Madonna ogni sera. La vita divota, se ben praticata, conduceva ad una conversione continua e quindi era un efficace mezzo di perseveranza.
Ma la missione non finiva qui. Dopo tre, sei mesi c’era la Rinnovazione di spirito, altra caratteristica innovativa ed esclusiva del metodo alfonsiano. Alcuni missionari che avevano predicato la missione ritornavano sul posto, in modo da offrire l’opportunità di raccogliere quanto era maturato più lentamente (finezza psicologica) nella coscienza. Quindi attenzione anche ai ritardatari. Questa era la sensibilità tutta cristiana ch’era cresciuta e s’era sviluppata nelle varie attività di Alfonso a favore dei più poveri, dei più bisognosi.
da Roma 11 luglio 1996
P Vincenzo Ricci
S. Alfonso Fondatore dei Redentoristi
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