Il cammino del vescovo Alfonso Maria de Liguori: 1762-1775.
52. S. Alfonso e Sant’Agata dei Goti -1.
Contributo storico del prof. Andrea De Rosa
Breve profilo biografico di S. Alfonso
(i titoletti sono redazionali)
Alfonso Maria de’ Liguori nacque a Marianella, Napoli, il 27 settembre 1696, alle 7 del mattino, da antica famiglia gentilizia, figlio di don Giuseppe e della nobildonna Anna Cavalieri.
Ancora in culla, ricevette la visita di S. Francesco da Geronimo, il quale gli predisse che sarebbe morto dopo i 90 anni e che sarebbe diventato Vescovo.
Ricevette un’educazione di prim’ordine e, a dodici anni, fu ammesso all’Università di Napoli.
A sedici anni si laureò (21 gennaio 1713) in diritto civile e canonico (in utroque jure), con lode e unanime ammirazione
Svolse con successo la professione di avvocato, fino a che, nel luglio 1723, inopinatamente perse un processo che lo vedeva difensore del duca di Gravina contro il granduca di Toscana; ne rimase profondamente scosso, tanto da abbandonare la carriera forense (“Mondo, ti ho conosciuto… Addio Tribunali!” esclamò).
Intraprese,quindi, la via del sacerdozio e fu ordinato il 21 dicembre 1726.
Dal 1728 al1732, inNapoli fu l’animatore delle “ Cappelle Serotine” nei quartieri più malfamati (Mercato e Lavinaio), che diventarono luogo di conversione per il popolino, formato essenzialmente da lazzaroni e gente molto umile.
Il 9 novembre1732 aScala (Salerno), con altri tre sacerdoti e un laico, fondòla Congregazionedel SS. Salvatore, poi definita del SS. Redentore.
Instancabile missionario, S. Alfonso diede prova della sua vastissima cultura (aveva già composto le “ Massime Eterne”) verso il 1728; pubblicò le visite al SS. Sacramento e, nel1748, in10 volumi il famosissimo “Trattato di teologia morale“, che valse, poi, a dargli fama europea quale Maestro di morale.
Fu autore di 111 opere che hanno avuto traduzione in 77 lingue ( più di Shakespeare ), tra cui, oltre quelle ricordate e quelle che in seguito menzioneremo, spiccano: “Le glorie di Maria”, “Il gran mezzo della preghiera”, “L’apparecchio alla morte”.
Fu anche pittore dilettante (passione ereditata dal padre) ed abile disegnatore, discepolo di Francesco Solimena ed amico di Paolo de Maio e di Francesco De Mura.
A buon diritto, ha conquistato un posto di rilievo nella storia della musica del Settecento: bravissimo nel clavicembalo, fu allievo di Gaetano Greco, maestro, tra gli altri, di Domenico Scarlatti e Giovanbattista Pergolesi.
Compose “Quanno nascette Ninno” e, nel 1755, la celeberrima “Tu scendi dalle Stelle” (tradotta in tutto il mondo, canzone senza della quale – come ebbe a dire Giuseppe Verdi – “ Natale non sarebbe Natale”) e un famoso “ Duetto tra l’anima e Gesù Cristo” (il manoscritto è al British Museum di Londra).
S. Alfonso fu beatificato nel settembre 1816; divenne Santo il 26 maggio 1839; venne dichiarato Dottore della Chiesa Universale il 23 marzo 1871.
E’ stato proclamato Patrono dei confessori e dei teologi moralisti il 26 aprile 1950.
S. Alfonso a Sant’Agata dei Goti – Parte I
Una sede episcopale vacante
Il 12 ottobre 1761 s’era resa vacante la sede vescovile per la morte di Mons. Flaminio Danza.
Terminati i funerali di Mons. Danza, si celebrò in Cattedrale un triduo, con l’esposizione del Santissimo: la predica fu affidata a fra Tommaso Maria Caputo, Lettore di Teologia nel Seminario, il quale dimostrò il “ grave danno che risulta in una Diocesi per la mancanza del proprio Pastore; e di quanta utilità sia per il Cittadino l’avere un Vescovo dotto e zelante”.
Il 9 marzo del 1762 pervenne a Nocera (Pagani) una staffetta con due lettere, una di Monsignor Neurone, Uditore Pontificio, l’altra di Monsignor Locatelli, nunzio apostolico presso il Regno di Napoli, che comunicavano ad Alfonso la scelta fatta da Sua Santità, Clemente XIII, quale Vescovo di S. Agata.
Il Papa l’aveva scelto tra circa sessanta pretendenti, come personalità che per cultura, spirito di apostolato, ascendente mettesse d’accordo tutti e risultasse incontestabile.
“Non altrimenti che il Papa, vedevasi agitata per un degno Vescovola Cittàe Diocesi di Sant’Agata. Troppo patente n’era il bisogno”.
Si ricorderà che 15 anni prima, nel 1747, Alfonso, accampando a sostegno il bisogno della Sua Congregazione, convinse il re Carlo di Borbone che si rassegnò a non proporlo come vescovo di Palermo.
Scrisse una lettera di rinuncia, mise in mezzo le sue precarie condizioni di salute,la Congregazione, il voto di non accettare dignità. Si ammalò al solo pensiero di dover accettare la carica vescovile; ad altri sarebbe venuta la febbre per non essere stati eletti.
Roma confermò la propria decisione: “Non fu tardi a sapersi in Sant’Agata l’elezione di Alfonso. Tale notizia quanto rallegrò i buoni, altrettanto rattristò gli scomunicati. Troppo noto era il Suo zelo. Sentendosi la sua rinuncia, maggiormente dai buoni, si avanzarono le preghiere a Dio, affinché il tutto disponesse in conformità della sua gloria ed il sollievo di una Diocesi, troppo bisognosa di spirituale sussidio”.
Alfonso vescovo
La nomina di Alfonso, era richiesta dalla necessità e dalla utilità di quella Diocesi.
Esaminato alla presenza di Clemente XIII, per essere ordinato Vescovo disse: “Beatissimo Padre, giacché vi siete degnato di farmi Vescovo, pregate iddio che non mi perda l’ anima” (11 giugno 1672).
Sant’Agata era una Diocesi molto ambita: “insigni in ogni tempo sono stati i Vescovi di Sant’Agata, e fu sempre appetita la cattedrale da persone ragguardevoli o per la nascita, o per la letteratura”.
E i motivi erano tre: la mensa episcopale e i benefici ecclesiastici notevoli, la cui consistenza, in Campania, era seconda soltanto a Capua;la Cattedralepossedeva lo stesso organico delle Basiliche patriarcali (50 tra dignitari, canonici, cappellani e chierici); la vicinanza a Benevento, facente parte dello Stato Pontificio e a Napoli, capitale del Regno.
Contava trentamila abitanti, non pochi per allora (circa un settimo della città di Napoli, che era di duecentoquattordicimila abitanti): tanti come Caserta, come egli ebbe a dire a Mons. Albertini di Caserta, e senz’altro, superiore alla media.
Entrò trionfalmente in Diocesi domenica 11 luglio 1762, fermandosi, com’ era consuetudine, ai famosi ponti vanvitelliani di Valle di Maddaloni, che segnavano il confine tra questa Diocesi e quella contigua di Caserta. Alfonso pianse, vedendo la strada “invasa” di popolo, in attesa della sua benedizione.
Passò per Bagnoli, arrivò in città, sempre tra spari di mortai e acclamazioni della gente:la Cattedraleera tanto affollata di gente, che i più dovettero trattenersi nelle vie adiacenti.
Alfonso rivolse ai fedeli un’omelia di circa un’ora, in cui espresse i propri sentimenti e le sue convinzioni all’ingresso in Diocesi: non si era portato qui per vivere comodamente e “ prendersi piacere”, ma per facilitare a tutti la propria salvezza.
Non era arrivato in Diocesi per comandare, ma per “farsi tutto a tutti”; e, da Pastore, se il “suo intento era quello di scansare i lupi, anch’esse pecore dovevano ascoltare la sua voce”.
Tutti ebbero la sensazione che in Sant’Agata vi fosse un Santo per Vescovo e come tale l’acclamarono. Nonostante l’età avanzata, si rivelò subito instancabile ed animato da soprannaturale fervore.
Un vescovo missionario
Indisse immediatamente una Missione Popolare, che Lui stesso predicò.
I frutti non tardarono a vedersi: peccatori che si convertirono, ladri che consegnarono ai confessori la refurtiva, concubini che ritornarono a morigeratezza di vita.
Fedele al giuramento che aveva pronunziato di non perdere un minuto di tempo, percorse tuttala Diocesi, in lungo e in largo, procedendo a visite Pastorali, che, per lui, erano occasioni di incontro con i fedeli, con gli umili, gli abbandonati: un modo diverso per esercitare il ministero.
Fu e rimase, anche da Vescovo, predicatore eccezionale: “predicando entrò in Diocesi e predicando pose piede fuori di quella”; instancabile, non voleva far mancare a nessuno il pane eucaristico, né la parola di Dio e desiderava che tutti l’ascoltassero.
Riteneva che facile e nient’affatto pomposa dovesse essere la predica, perché le parole dovevano andare diritto al cuore della gente, la quale, se non ne comprende il significato, si sarebbe annoiata e avrebbe tentato di evitarla per il futuro.
A Sant’Agata predicò tutte le domeniche sera in Cattedrale; durante le altre festività, si portava nelle varie parrocchie.
Ogni venerdì del mese di marzo predicava nella Chiesa dei Padri Conventuali e, una volta, intonando la sua canzone “Gesù mio con dure funi”, lo fece con voce tanto flebile da muovere al pianto tutti i presenti.
Visitò Durazzano (e i suoi casali), Arienzo e S. Maria a Vico, Valle di Maddaloni, Bagnoli, Dugenta, Forchia, Arpaia e Frasso; non soddisfatto del bene che Egli stesso vi aveva recato, chiamò per le missioni gruppi di apostoli di altri ordini e congregazioni (tra cui Domenicani e Gesuiti), evitando i suoi Redentoristi, che sarebbero apparsi come la longa manus del Vescovo.
Dalla missione, Sant’Agata ne uscì santificata: il discorso conclusivo della missione nella Cattedrale suscitò le lacrime non soltanto del popolo, ma anche dei canonici.
L’attenzione al seminario
Immediata cura fu rivolta al seminario, che Egli definiva la pupilla dei suoi occhi, gioiello della Sua Diocesi; il giorno dopo l’ingresso in città, volle rendersi conto della situazione in cui versava: era fatiscente nella struttura e negli uomini.
Non distinguendosi allora tra Seminario maggiore e minore, studiandovi gli aspiranti al sacerdozio fino all’ordinazione, al Santo Vescovo importava soprattutto una valida impostazione metodologica e didattica dell’insegnamento: “Vescovo rurale realista, insiste sul latino, a costo di ridurre il greco “ (Rey Mermet, “ Il Santo del secolo dei lumi”).
Regolamentò il sonno, le ricreazioni, lo studio, un giorno di vacanza settimanale; inoltre, per definirne a pieno la vita, e per il giovamento spirituale richiamandosi a una sua precedente opera del 1756 “ Regolamento per i Seminari”, scrisse le “ Regole per il Seminario di Sant’Agata de’ Goti”, lasciate manoscritte fino al 1959.
Allo stesso modo, si impegnò nella ristrutturazione e nell’ammodernamento dell’edificio, tanto che costruì il nuovo (quello attualmente esistente, ospitando nel suo palazzo ben settanta seminaristi, provvisoriamente adattato dagli architetti Cimafonte), con ambienti luminosi ed ampi; promosse l’innovazione e l’approfondimento culturale, istituendo delle accademie di belle lettere e di eloquenza, di tesi di teologia e di filosofia. Richiamati dalla Sua fama, vi accorsero anche molti seminaristi da fuori Diocesi.
La costruzione del seminario gli costò 500 luigi d’oro, indebitandosi al punto da non poter restituire il denaro ricevuto in prestito dal fratello Ercole.
(continua).
Andrea De Rosa
Quando non diversamente indicato, le citazioni sono tratte da A. TANNOIA “Vita di S. Alfonso M. de Liguori “