Io cerco quanto posso di soccorrere questi poveri
L’amore concreto di S. Alfonso per i poveri
Alfonso de Liguori non è sfuggito alla attenzione di Benedetto Croce che di lui parla in Uomini e cose della vecchia Italia (1927), Conversazioni critiche (1946), Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1949), I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo XVIII (1947), Poesia popolare e poesia d’arte (1946), Varietà di storia letteraria e civile (1949), Aneddoti di varia letteratura (1942), Quaderni di critica (1949), Bibliografia Vichiana (1948), Terze pagine sparse (1955).
Il giudizio del noto storico e critico pub essere compendiato nell’espressione: “… molto simpatico santo napoletano Alfonso dei Liguori: … un napoletano di buon senso” (cfr Spicilegium Historicum, CSSR, IX (1971) p. 405).
Se a questa testimonianza si aggiungessero quelle dei lazzaroni, della gente d’infima condizione di Napoli e dei contadini del Regno di Napoli che nel ‘700 lo hanno visto vicino ad essi e ai loro problemi potremmo avere una visione più completa della figura di quest’uomo tutto radicato nella terra meridionale. Ed anche le idee di solidarietà, di sviluppo, di progresso e di promozione umana potrebbero trovare nel comportamento di un Santo un orientamento efficace e stimolante.
All’inizio del ‘700 nel quadro di una “Europa delle capitali”, la città di Napoli “veniva descritta come la più splendida delle capitali nel più bello dei regni” (Storia di Napoli, VIII, 1971, p. 14). Vista però con più attenzione e con spirito critico “Napoli appare un caso particolarmente interessante e significativo per i suoi estremi squilibri all’interno della città e nel suo rapporto con le provincie, per la sua funzione insieme privilegiata e accentratrice che essa svolgeva rispetto alle terre del Regno” (id., p. 3).
In una sua relazione sullo stato politico, economico e civile del Regno di Napoli, P. M. Doria mette in risalto le enormi differenze tra la capitale (Napoli) e la provincia denunciando “nella città l’abbondanza per mezzo della destruzzione del Regno stesso”. Descrivendo la situazione della gente che vive nelle campagne egli scrive:
“II povero contadino del Regno è quello sopra il quale cade tutto il peso della tirannide, per modo che egli è ridotto ormai come le bestie, cioè a non gustar mai di quei cibi che portano sopra le spalle perché è da sapersi che la miseria di questi è gionta a tale misura che solamente nelle gravissime ed estreme malattie si nutriscono di pane di grano e in tutti gli altri tempi non mangiano che pane di grano d’India ed erbe condite con olio e sale, senza che della carne e di tutti gli altri cibi non ne hanno nemmeno idea” (id., p. 18).
Impressionante è anche il numero delle leggi speciali e dei privilegi esistenti nella capitale che ad altro non servivano che a fomentare discriminazioni, nello svolgimento della giustizia, tra i diritti dei cittadini e dei campagnuoli.
I fenomeni che emersero in questa situazione furono il lusso delle classi nobili e la miseria dei ceti popolari, la sperequazione nei salari e nei prezzi, la disoccupazione, un galoppante esodo dalle campagne verso la capitale.
L’opera di S. Alfonso per “tutto” l’uomo.
In questo contesto s’inserisce l’opera di Alfonso de Liguori. Nella sua attività di avvocato ha saputo dare, come laico cristiano, una testimonianza convinta della funzione della legge e della dignità della persona umana. Secondo le sue convinzioni la legge non può creare privilegi e non è soggetta a compromessi. Essa è la salvaguardia della libertà interiore della persona umana. Perciò propose a se stesso: “non bisogna accettare cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscienza e per il decoro;… l’Avvocato deve implorare da Dio l’aiuto della difesa perché Iddio è il primo difensore della giustizia…”. L’addio ai Tribunali è la reazione più energica ed il rifiuto più risoluto di un certo modo di amministrare la giustizia.
Nei suoi anni sacerdotali a Napoli, Alfonso de Liguori pur rimanendo in città, “fèce sacrificio a Dio della sua famiglia” per promuovere la gente d’infima condizione ad una vita più umana e più civile. Il passaggio da uno stile di vita prestigioso ad uno stile di condivisione e di partecipazione con gli emarginati è uno dei tratti più espressivi del cammino umano e spirituale del Santo. Nonostante tutto questo, Alfonso de Liguori, secondo il suo primo biografo, nel 1732 “fece sacrificio a Dio della sua città”, per trasferirsi nelle campagne del Regno. Con la gente della terra vi rimase per tutta la vita meritando il titolo di missionario rurale.
La prima regola dell’Istituto missionario da lui fondato prescriveva: “I fratelli di questa Congregazione… attenderanno in aiutare la gente sparsa per la campagna e Paesetti rurali, più privi e destituiti di spirituali soccorsi… A tal fine le loro case debbono stabilirsi per quanto si potrà, fuori dei Paesi, perché attendano… alla coltura della gente più abbandonata”. Non è necessario molto sforzo per comprendere l’impegno di quest’ uomo ad agire nello spirito evangelico dell’incarnazione e del “farsi prossimo”. Ai problemi concreti che a volte attanagliavano il cuore umano il Santo non è rimasto insensibile.
- Contro il problema della fame ha reagito non con le parole ma con la vita. Durante la carestia del 1764 il Santo così scrisse al Duca di MaddaIoni: “qui stiamo con grande timore perché la scarsezza del pane è giunta a tal segno che si sta in pericolo da giorno a .giorno di veder rivoltata la gente; mentre vanno co’ denari in mano e non trovano a comprare né grano né pane… io cerco quanto posso di soccorrere questi poveri. Ho mandato già a vendere la carrozza e le mule che tenevo e penso inoltre di farmi un altro debito ma vedo che non posso arrivare come vorrei… Io non fo difficoltà, in questi tempi così calamitosi di lasciare di pagare i debiti, anzi penso di farmi un altro debito per soccorrere la povera gente” (Lettere, vol. I. pp. 515‑518).
- Dinanzi ad un atto di violenza il Santo soffriva immensamente: “Dio sa qual orrore mi dà il litigare: al sentire solamente di lite, tremo” (id., p. 596). Egli, pur ammettendo che la disperazione possa essere la causa scatenante di questi gesti criminosi, evangelizzava le coscienze ricordando che quando tutti “sono ubbidienti ai divini comandamenti cessano le insolenze, i furti, le frodi, gli adulteri, gli omicidi, e così fiorisce… la pace tra le famiglie” (La fedeltà de’ vassalli Marietti, 1846, p. 505).
- Un altro problema affrontato con lealtà è quello delle raccomandazioni. In una sua lettera al clero di S. Agata dei Goti il Vescovo de Liguori scrisse: “Sia a tutti di avviso, che nel tempo del nostro governo ognuno si astenga dal procurarsi raccomandazioni presso di noi…; perché il merito di ciascheduno sarà presso di noi la raccomandazione che solamente gli gioverà. Sappiano pertanto tutti coloro i quali si procureranno raccomandazioni che, per lo stesso capo si renderanno indegni del benefizio (Lettere, vol. III, p. 552)… Nei benefici semplici, ove non si fa concorso, debbono preferirsi i più degni” (id., p. 658).
- Il Santo nella sua vita ha cercato l’aiuto di persone amiche, soprattutto per l’approvazione del suo Istituto, perché era un’opera di Dio per il bene spirituale del popolo. Nel suo ministero episcopale ha scritto lettere di raccomandazioni per il conferimento di canonicato e per la sistemazione di sacerdoti poveri, sempre però se lo meritavano e ne erano degni.
Una volta chiese all’amministratore regio la scarcerazione di un povero, arrestato per mera impostura, “giacché si muore di fame, vivendo di pura elemosina, né possiede cosa veruna” (Lettere, vol. II, p. 110).
Il mondo della cultura
La sua collocazione nel mondo della cultura è stata sempre sottolineata da più parti ed a ragione. Il Santo ha letto e scritto molto ed è stato un diffusore impegnato della buona stampa. Una lettera indirizzata ad una comunità di suore inizia con queste parole: “che catenelle che cilizi! Vi mando una buona provvista di libri, che, meglio delle catenelle, possono aiutarvi a farvi sante!” (id., vol. p. 8).
Ciò che più colpisce è l’attenzione che egli mette nella pubblicazione delle sue opere. La stampa dei libri era minuziosamente curata da lui personalmente: “Gli originali miei, egli scriveva, sono pieni di postille e di cassature; perché non mi contento mai, neppure di me stesso” (id., vol. III, p. 220). Si preoccupava che le pubblicazioni fossero ben corrette da revisori attenti e impresse su buona carta, “perché la buona carta fa risplendere la stampa e fa meglio gradire quel che dice l’autore. Quando la carta è cattiva, paiono cattivi anche i caratteri, e paiono mezzo spropositi anche quel che scrive l’autore” (id., vol. III, 208).
Nell’epistolario alfonsiano troviamo più di duecentocinquanta lettere indirizzate al suo editore preferito Remondini e ad altri tipografie stampatori.
Non aveva alcuna paura delle polemiche né di sentenze contrarie e diverse dalle sue. Egli era sinceramente convinto che “solamente Dio e la Chiesasono infallibili” (id., vol. III, p. 205) e che sempre “Dio difende la verità” (id., p. 213).
(L’Osservatore Romano, 1 agosto 1989)
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Riportato in
Sulle orme di S. Alfonso
di Antonio Napoletano
Valsele Tipografica, Napoli 1989, pp. 115-118
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