4. S. Alfonso avvocato e la svolta della sua vita:
addio tribunali!
Un avvocato giovane e brillante
A sedici anni e qualche mese, con la dispensa del viceré, perché ci si poteva laureare a vent’anni compiuti, Alfonso si laureò con il massimo dei voti in Utroque ]ure, cioè in diritto canonico e in diritto civile.
L’esame solenne di dottorato, con la partecipazione di parenti, di amici e del pubblico, fu preceduto da un altro più riservato e previo sulle due materie: se non si passava non si era ammessi al dottorato.
Nella solenne tornata accademica tenne la lezione sugli argomenti che gli erano stati assegnati alla vigilia e cioè: il trasferimento dei chierici e le donazioni pie, per il diritto canonico; i contratti e la priorità della giustizia e dell’equità sulla lettera della legge, per il diritto civile.
Alfonso fece la sua chiara esposizione in latino, concludendo a favore della giustizia e dell’equità sulla legge. Una tesi fondamentale nel pensiero e nella futura attività scientifica di Alfonso concernente la coscienza. Seguirono applausi e complimenti, gli infilarono l’anello dottorale, gli imposero la toga nella quale annegava (ricorderà con arguzia: «Mi fecero una casacca lunga, che mi andava fin sotto li piedi»), gli imposero il tocco e gli consegnarono un enorme diploma.
Dottore in Utroque a sedici anni. Ma quel ragazzo quasi imberbe non poteva esercitare. Bisognava fare due anni di apprendistato. In attesa di raggiungere anche l’età richiesta, Alfonso eliminò quasi del tutto i divertimenti e si dedicò ad un’intensa formazione culturale e giuridica e alla pratica religiosa. Napoli a quei tempi era una grande capitale e un vivace centro culturale dove circolavano idee moderne d’oltralpe. Non era l’università la fucina del nuovo, del progresso, dell’apertura, bensì i circoli privati e le accademie. Nel campo giuridico Napoli era maestra per tutti. Le sentenze dei suoi tribunali erano attese e fatte proprie dalla giurisprudenza europea.
Per il suo apprendistato e per approfondire la formazione giuridica Alfonso scelse il circolo del celebre Caravita, suo professore di diritto feudale. Là incontrava i grandi nomi della cultura napoletana, tra i quali il Vico, il Giannone, il Grimaldi. Vi si tenevano, oltre a quelle giuridiche, discussioni di storia, di filosofia e di politica. Frequentava anche altre accademie dove si spaziava nei più vari campi del sapere: diritto, letteratura, filosofia, scienze, storia, sacra scrittura e teologia.
Inoltre non tralasciava la frequentazione dei tribunali, dove la materia non era accademica, ma calata nella realtà quotidiana. Scrive il Tannoia: «Benché giovinetto, si vide Alfonso Liguori, con ammirazione comune salire nei Tribunali di Napoli ed assistere, ansioso di approfittarsi, alle tante decisioni di quelle Ruote così rispettabili».
Mentre approfondiva le conoscenze giuridiche e culturali e faceva pratica, Alfonso si preparava ad affrontare la sua futura attività, che già prevedeva irta di pericoli per la sua vita morale, intensificando la vita spirituale: preghiera, meditazione, rosario, devozioni personali, la messa ogni mattina prima di recarsi in tribunale, comunione frequente, visita quotidiana al Santissimo, adorazione prolungata dove si celebravano le Quarantore, esercizi spirituali e il volontariato, specialmente presso gli Incurabili.
Quando si sentì pronto, a vent’anni si mise ad esercitare in proprio e con successo: non perdeva una causa. «Ben presto ‑ nota il Tannoia ‑ gli vennero affidate, con istupore di tutta Napoli, anche le cause più gravi». «Tutto rendevalo singolare: vastità di talento, chiarezza di mente e precisione nel dire; somma onestà e sommo orrore a cavilli; non intraprendeva cause se non giuste e fuori di eccezione [cioè al di sopra di ogni sospetto]; umanità con i clienti e disinteresse e, quello che è più, tale dominio aveva dei cuori che, arringando, ammaliava i giudici e mutoli rendevansi i suoi contraddittori [avversari]. Tutte queste ed altre doti che possedeva, animavano ognuno a volergli mettere nelle mani i propri interessi e a cercare il suo patrocinio».
Queste parole, che potrebbero sapere di retorica o di panegirico, sono la fotografia esatta di Alfonso avvocato, quale egli stesso si era proposto di essere intraprendendo l’attività forense. Si era dato dodici comandamenti, frutto della sua attenta osservazione dell’ambiente giudiziario e della sua delicata e ferma coscienza cristiana. Certamente le sue risoluzioni le aveva meditate a lungo dinanzi al Santissimo e alla Madonna. Certamente aveva messo a confronto le opinioni dei colleghi con quelle della gente che frequentava.
Ecco i dodici comandamenti dell’avvocato: « L’avea in una cartolina, e spesso li meditava.
- 1. Non bisogna accettare mai Cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscienza, e pel decoro.
- 2. Non si deve difendere una Causa con mezzi illeciti, ed ingiusti.
- 3. Non si deve aggravare il Cliente di spese indoverose, altrimenti resta all’Avvocato l’obbligo della restituzione.
- 4. Le Cause dei Clienti si devono trattare con quell’impegno, con cui si trattano le Cause proprie.
- 5. È necessario lo studio dei Processi per dedurne gli argomenti validi alla difesa della Causa.
- 6. La dilazione e la trascuratezza negli Avvocati spesso dannifica i Clienti, e si devono rifare i danni, altrimenti si pecca contro la giustizia.
- 7. L’Avvocato deve implorare da Dio l’aiuto nella difesa perché Iddio è il primo Protettore della giustizia.
- 8. Non è lodevole un Avvocato, che accetta molte Cause superiori a’ suoi talenti, alle sue forze, ed al tempo, che spesso gli mancherà per prepararsi alla difesa.
- 9.La Giustiziae l’Onestà non devono mai separarsi dagli Avvocati Cattolici, anzi si devono sempre custodire come la pupilla degli occhi.
- 10. Un Avvocato, che perda una Causa per sua negligenza si carica dell’obbligazione di rifar tutti danni al suo Cliente.
- 11. Nel difendere le Cause bisogna essere veridico, sincero, rispettoso e ragionato.
- 12. Finalmente, diceva Alfonso, i requisiti di un Avvocato sonola Scienza,la Diligenza,la Verità,la Fedeltà, e la Giustizia».
La causa decisiva e l’addio ai Tribunali
A questo brillante e integro avvocato, che non perdeva mai una causa, nel 1723, quando aveva ventisei anni, fu affidata una causa a carattere internazionale, importantissima sia per i contendenti ‑ i Granduchi di Toscana, imparentati con l’Imperatore d’Austria e il Re di Napoli, contro il Duca napoletano Orsini di Gravina, nipote del Papa Clemente XIII ‑ sia per il valore della proprietà contesa ‑ il feudo di Amatrice, adesso in provincia di Rieti, allora in Abruzzo, stimato seicentomila ducati, corrispondenti a molti miliardi di oggi.
La causa, persa dal Gravina in prima istanza, si trascinava da quattro anni nei tribunali di Napoli ed era giunta all’appello davanti alla Corte Suprema. Il Duca di Gravina si affidò proprio ad Alfonso de Liguori. Non è il caso di precisare qui tutti i particolari, che si possono ritrovare nelle biografie recenti del Santo. Alfonso si studiò bene la causa e si convinse della disonestà del documento sul quale si basavano le pretese dei Granduchi, un documento formalmente corretto, e preparò l’arringa contro la lettera a favore dell’equità. Conosceva bene questa tesi, era l’argomento del suo dottorato, era la tesi che difendeva il suo professore, il Caravita, che presiedeva il tribunale.
Era una torrida giornata d’agosto e la sala del tribunale traboccava di gente. Attacca per primo Alfonso con una splendida esposizione. Tutti pendevano dalle sue labbra: bello con quei suoi occhi azzurri, bella voce sonora, giovane, brillante e chiaro. Ad un certo momento cominciano a battere le mani: ha vinto, ha vinto, ha vinto! Quando si alza l’avversario e con freddezza calcolata: «Caro collega», dice, «tutto bene, complimenti». Poi, secondo una tradizione che gira ancora, gli dette la stoccata mortale: un piccolo «non» che annienta tutta la sua difesa.
Alfonso ha perso. Tutto confuso raccatta le sue carte rapidamente, si ritira, scappa via mormorando: «Mondo ti ho conosciuto. Addio Tribunali!». Se ne scappa a casa, si chiude in camera a chiave e non vuole sentire nessuno né ragioni per venir fuori. La madre bussa alla sua porta chiedendo se volesse prendere qualcosa. Si era d’estate con la canicola. Niente da fare, lui non apre. Arriva il padre, sappiamo quanto fosse energico don Giuseppe, abituato a comandare e a farsi obbedire sulla nave. Informato dalla moglie, va e bussa col suo polso fermo. Niente! Ci riprova. Niente! Alfonso non apre. Allora si arrabbia: era già due giorni che il figlio se ne stava rinchiuso, e sbotta: «Che muoia, che se ne vada!». E lo pianta.
Al terzo giorno la mamma ‑ Alfonso era molto legato alla mamma ‑ finalmente riesce a farsi aprire e gli porta una fetta di melone tenuta in fresco. Alfonso l’accetta perché gliela porta la mamma, ma gli sembra di mangiare fiele. Comunque, da quel momento, si ruppe l’incantesimo e cominciò a parlare e a mangiare qualche cosa. Cominciò pure ad uscire. La prima cosa che fece fu di andare in chiesa poi agli Incurabili.
Il padre cominciò a sperare e per tirarlo fuori del tutto da quella situazione cercò di distrarlo. Tentò anche di affidargli una propria causa. Ma Alfonso, deciso: «Mai più metterò piede in tribunale!».
II processo non era concluso. Dopo una decina d’anni venne ribaltato: la tesi difesa da Alfonso riportò vittoria definitiva.
Che cosa era veramente successo di tanto sconvolgente nella vita di Alfonso? Oggi si è chiarito che gli storici del passato, ignorando come si erano svolti realmente i fatti, romanzarono su quel non, né ebbero fiuto psicologico per riflettere su quella crisi così profonda e inesplicabile con le sole motivazioni dell’orgoglio ferito per la prima e solenne sconfitta di una prestigiosa carriera. Non seppero vedere la chiave interpretativa che lo stesso Alfonso aveva messo loro in mano con le sue parole e la sua decisione irrevocabile: «Mondo ti ho conosciuto. Addio tribunali!», «Non metterò più piede in tribunale!».
Che cosa era veramente successo? Alfonso scoprì la corruzione dei giudici che mettono al primo posto non la coscienza, ma la salvaguardia del posto e della carriera. Improvvisamente gli veniva a crollare quello splendido mondo di ideali al cui servizio aveva consacrato tutta la sua vita.
I giudici si erano fatti corrompere. Erano stati fatti, a qualcuno che tutto poteva sui Tribunali, degli ambiti donativi (oggi si dice bustarelle) e quegli aveva suggerito la sentenza da emettere. Anche 1’ammiratissimo Presidente Caravita, che propugnava la tesi difesa da Alfonso, aveva ceduto.
Addio Tribunali! Un altro mondo di valori prenderà il primo posto nella sua vita, cambiandole completamente direzione. Si dedica totalmente alla Vergine, deponendo il suo spadino di cavaliere ai piedi della Madonna della Mercede e lo lascia li per sempre. Abbandona completamente la vita mondana, dedicandosi tutto alla preghiera e alle opere di volontariato. Infine chiederà di essere sacerdote per donarsi esclusivamente a Dio e al prossimo.
S. Alfonso è stato proclamato dalla Chiesa Patrono degli avvocati, dei confessori e dei moralisti. È il patrono di tutti quelli, me lo auguro, che amano una coscienza pura e retta, quella coscienza che bisogna seguire sempre, costi quello che costi. È questo che impegna l’uomo a vivere in serietà. S. Alfonso è il Santo del primato della coscienza.
da Roma 30 maggio 1996
P. Vincenzo Ricci
Due quadri del Fumetto di Henriette Munière con testi di P. J. Heinzmann.