“Iddio mi vuole ‘Vescovo ed io voglio essere Vescovo”
Nei primi giorni del mese di giugno 1747 padre Alfonso de Liguori si recò a Napoli per raccomandare al Segretario degli affari ecclesiastici, il Marchese Brancone, la causa del riconoscimento giuridico del suo Istituto Missionario. Grande fu la sua sorpresa quando gli fu confidato dall’amico che il re già prima della morte di Mons. Domenico Rossi era fortemente intenzionato a proporre la sua persona come Arcivescovo di Palermo.
Alfonso si affidò alle preghiere di tutti per essere liberato da questa “grave persecuzione” e decise di “imboscarsi” per non accettare tale dignità.
Dopo quasi un mese di insistenza del Re e di “continuo batticuore” di Alfonso il motivo di zelo prevalse su ogni altro. Il Marchese Brancone fece presente al re “il meno bene che Alfonso avrebbe potuto fare come Arcivescovo, ed il maggior che con la predicazione ne potesse risultare al Regno tutto; e che l’opera delle Missioni, per cui viveva tanto impegnato, mancando il capo, poteva anche fallire”. Alfonso inoltre non esitò a ricordargli che Vescovi per le Chiese non mancano, ma operai per affaticarsi in salute delle Anime, specialmente nei villaggi, non è così facile ritrovarli.
Vescovo per obbedienza
Dopo quattordici anno e precisamente il 12 ottobre 1761 si rese vacante la sede vescovile di S. Agata dei Goti. La Diocesi allora si estendeva su un territorio di 240 Kmq con circa trentamila fedeli ed era assistita da circa quattrocento chierici, da tredici conventi di religiosi, da quattro conventi di monache, e da quattro collegi di canonici.
Per la scelta del vescovo il papa Clemente XIII condivise il criterio del card. Spinelli che suggeriva di orientarsi su “un soggetto i cui meriti superassero quelli di qualunque”. Anche questa volta la sorte cadde sul Rettore Maggiore dei Redentoristi, Alfonso de Liguori, “in cui, ad esclusiva di ogni altro, signoreggiar vedevansi le prerogative più distinte, perché nobile e cavaliere, uomo dotto e santo; e come tale presso tutti in stima singolare”. Mentre il Papa, tra il compiacimento di molti, si accingeva a rendere nota la notizia, “tutt’altro, scrive il Tannoia, passava per capo ad Alfonso”, che in quegli stessi giorni confidava al Vescovo di Cava che una della grazie che il Signore gli aveva fatto era quella di aver sfuggito il pericolo di essere vescovo. Fu grande perciò l’angoscia quando il 9 marzo 1762 lesse la lettera inviatagli da mons. Negrone in nome del Papa che l’eleggeva vescovo di S. Agata dei Goti.
Il biografo scrive che Alfonso “perde la parola, si smarrisce nei sensi, non sa che dire”. A nulla valsero questa volta i motivi di età, di malferma salute, di umiltà ed il voto in contrario. Il Papa fu irremovibile. Ed Alfonso, che non avrebbe cambiato la sua Congregazione con tutti i Regni del mondo, dinanzi ad una nuova lettera papale esclamò: non c’è posto per l’interpretazione, il Papa si è dichiarato in termini di obbedienza: bisogna obbedire.
L’accettazione dell’Episcopato costò molto ad Alfonso. Il padre Tannoia scrive: Se Alfonso evitò la morte, accettando il Vescovado, ascriver si deve a puro miracolo… Venendo in contrasto l’umiltà sua con la volontà del Papa, reprimendo se stesso, si sentiva ripetere: Iddio mi vuole vescovo, ed io voglio essere Vescovo.
Mons. Alfonso de Liguori fece il suo ingresso in Diocesi l’ 11 luglio 1762.
A questa singolare esperienza della vita del Santo il padre Gregorio Oreste, redentorista, ha dedicato un suo libro dal titolo Monsignore si diverte.
A chi leggerà invece la nuova biografia del P. Rey‑Mermet su S. Alfonso, un uomo per i senza speranza, non sfuggirà l’originalità del titolo di un capitolo: Mons. de Liguori, missionario redentorista.
L’episcopato non scalfi nel cuore di Alfonso la sua vocazione missionaria per i poveri: Vescovo sì, ma da Redentorista! Se Alfonso accettò per l’obbedienza l’episcopato,la Congregazione non si rassegnò alla sua perdita malo confermò all’unanimità nell’incarico di Rettore Maggiore, con l’approvazione del Papa. Tale decisione rasserenò un po’ l’animo del I° Redentorista diluendone l’amarezza causata dalla lontananza.
A Mons. Liguori non erano sconosciute le responsabilità del Vescovo. A suo fratello Ercole che si congratulava con lui rispose: “Voi non mi procurate alcuna consolazione. Voi non sapete che cosa sia Vescovado e che cosa vuol dire dar conto a Dio delle anime degli altri”. Spinto dai Cardinali a ringraziare il Papa per l’elezione così si espresse: Beatissimo Padre, giacché vi siete degnato di farmi vescovo, pregate Dio che non mi perda l’anima.
D’altro tono era il giudizio del popolo di S. Agata al suo ingresso in Diocesi: Abbiamo un Vescovo Santo, . . . un Santo abbiamo in S. Agata.
Ai medici che volevano dissuaderlo di fare il suo ingresso in Diocesi durante i calori estivi, rispose: Non deve il Vescovo badare ai pericoli della vita ma si deve sacrificare per le anime a se commesse.
Vescovo di S. Agata dei Goti
Il nuovo vescovo di S. Agata non rinunciò al suo stile di vita, alla sua mentalità missionaria e alle sue attività. Improntò il suo comportamento alla semplicità, all’austerità, all’essenziale. Non ci fu cambiamento sostanziale nel suo abbigliamento, nel programma di preghiera, di penitenza. Solamente il lavoro aumentò e divenne assillante. Senza limiti di tempo ogni giorno accoglieva ogni persona, anche miserabile, senza alcun cerimoniale. Aveva fatto capire però, scrive il Tannoia, che non desiderava complimenti e visite inutili, perché il tempo per lui era prezioso.
Durante il suo episcopato osservò a puntino La Vita devota, predicata nelle missioni Redentoriste: la meditazione mattutina sulla Passione di Gesù Cristo e alla serala Visita al SS. Sacramento e alla Madonna. Quest’ultima ogni pomeriggio era preceduta dalla visita agli ammalati della città.
I suoi tredici anni di episcopato furono preziosi per tutti. Sul piano pastorale evidenziò la necessità dell’evangelizzazione e della catechesi, sul piano organizzativo ristrutturò il Seminario e la mappa delle parrocchie. Non tralasciò la sua attività di scrittore e non trascurò i suoi rapporti conla Congregazione.
Scrive il suo biografo: “Cosa non fu tanto a cuore a Mons. Liguori, quanto la predicazione… Predicando entrò in Diocesi e predicando pose piede fuori di quella”. Ogni domenica ed ogni sabato Egli stesso predicava nella Cattedrale a S. Agata o nella collegiata e parrocchie di Arienzo. Tutta la Diocesi fu posta in stato di missione permanente. Non c’era Chiesa di città o di campagna “ove Monsignore sano o infermo che fosse non volasse per annunciarvi la divina parola”. Non era necessario invitarlo. Egli era convinto che “la conversione delle Anime fu incominciata da G. Cristo che con la predicazione e con la predicazione bisogna continuarla“.
Iniziò il suo ministero pastorale con la Missione sin dal giorno del suo ingresso in S. Agata. In essa riservò a sé la predica grande. Partecipò attivamente anche alla Missione nel Casale di S. Maria a Vico, e in quella di Arienzo predicò gli esercizi ai gentiluomini. Alle altre prestò la sua collaborazione. Nessuna Missione fu esclusa dalla sua sollecitudine. Non vedesi così agitato un agricoltore che vede deserta la sua vigna, scrive il Tannoia, ed ha premura di coltivarla, come vedevasi affannato Alfonso per rimettere in coltura la propria Diocesi.
Il Vescovo Alfonso voleva che le Missioni si facessero in ogni paese, anche i più piccoli e sperduti della diocesi, e raccomandava ai Missionari di parlare “chiaro e familiare”.
Di uguale dinamismo apostolico furono animate le sue Visite Pastorali fatte alla Diocesi negli anni 1763‑64, 1765‑66: “con la predicazione apriva la visita, così continuavala e predicando la chiudeva”. La Visita pastorale divenne un impegno missionario. Mons. Liguori soleva visitare di persona tutta la diocesi senza eccettuare alcun luogo anche il più impervio. Le visite non erano passeggere e di pochi giorni. Anche nei casali si tratteneva dagli otto ai dieci giorni, in taluni anche dodici o quindici giorni. I Convisitatori fedeli ed indispensabili erano “l’umiltà e la carità, la penitenza e la sollecitudine”.
Anche la carestia dell’anno 1763‑64 si trasformò in occasione di missione. Oggi si parlerebbe di Evangelizzazione e promozione umana: In quel tempo di penuria, scrive il Tannoia, dobbiamo dire che si è visto in S. Agata in persona di Alfonso il trionfo della carità cristiana. Riguardando nei poveri la persona di Gesù Cristo li abbracciava e li consolava… Tutto era aperto per questi; non c’era stanza in palazzo ove non vedevansi poveretti o rifocillati o salvati dalla morte.
Come un padre per i seminaristi e i sacerdoti
Le speranze di mons. Liguori erano riposte nel Seminario che predilesse come la pupilla dei suoi occhi. Nel secondo giorno del suo arrivo in Diocesi decise l’abbattimento del seminario esistente per costruirne uno nuovo più accogliente e trasferì i seminaristi in due ali dell’episcopio adattate allo scopo dagli arch. Pietro e Salvatore Cimafonte.
Nel suo Seminario riceveva gratuitamente i ragazzi poveri ma sani moralmente e con intenzione vocazionale chiara. Preferiva coloro che provenivano dai villaggi e casali abbandonati della Diocesi per educarli e renderli disposti al servizio tra la gente più semplice trascurata dal clero delle città.
Sin dal suo arrivo Mons. Liguori si accorse che i suoi sacerdoti preferendo i centri urbani lasciavano le campagne prive del ministero pastorale. Considerò questa situazione come il massimo disordine, e con spirito redentorista, anche in questa circostanza, fece a Dio sacrificio della sua dignità episcopale e divenne il Vescovo delle “migliaia di anime disperse per le campagne che specialmente in S. Agata si vedevano derelitte e senza spirituale profitto”. Il padre Rey‑Mermet non esita a dar a sant’Alfonso l’appellativo di Vescovo rurale: nel territorio diocesano eresse nuove parrocchie e vicarie e per suo mezzo il sacerdozio da impegno beneficiario e borghese divenne servizio dell’umile gente decentralizzato nei villaggi, nelle campagne, nei casali, sulle montagne.
In una valutazione globale si può dire che Mons. Liguori prese di petto la situazione della sua Diocesi.
Dai seminaristi, dagli ordinandi, dai parroci dai religiosi/e esigeva dottrina, rettitudine, fedeltà, sollecitudine, capacità per il ministero soprattutto della predicazione e delle Confessioni. Una delle opere che gli ha reso maggiore onore è il Monastero delle Monache Redentoriste voluto “dal suo zelo, dalla sua costanza e dalla sua somma sollecitudine”.
Ciò che più impressiona in quest’uomo è la sua instancabilità in un’età che va dai 66 anni a quella di 79 anni. All’azione di pastore Egli volle coniugare quella di scrittore, pubblicando in questo periodo circa 60 opere, tra cui La pratica di amare Gesù Cristo, La Via della salute…
Il ritorno tra i suoi
Il contatto con la sua Congregazione fu vivo e proficuo soprattutto in alcuni momenti di importanti decisioni e di prove.
Nel 1772 per la seconda volta Mons. Alfonso de Liguori inoltrò la domanda di esonero dall’Episcopato. A Lui dispiaceva partire. Perciò ai suoi parroci e canonici disse “che se lo stato di salute l’aveva obbligato a far presente al Papa le sue difficoltà, egli però era disponibile al servizio fino alla morte, se la Diocesi dovesse soffrire il minimo danno“.
Il 17 luglio 1775 Pio VI accettò le dimissioni di Mons. Liguori. Come nell’accettazione così ora la parola del Papa era il segno della volontà di Dio per Alfonso.
Tutti ne furono addolorati perché Mons. Liguori governava la diocesi con il solo suo nome… La sua preghiera da dentro il letto valeva più di cento anni di giri pastorali per l’intera diocesi!
Più di tutti se ne dolsero i poveri… non solo in S. Agata ed Arienzo, ma per tutta la Diocesi.
Negli ultimi giorni al popolo che andava a salutarlo Alfonso dolcemente ripeteva: “Se parto con il corpo, non vi lascio con il cuore!”.
(Rivista “San Gerardo”, novembre 1987)
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Riportato in
Sulle orme di S. Alfonso
di Antonio Napoletano
Valsele Tipografica, Napoli 1989, pp. 27-31.
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