P. Francesco Margotta (1699-1764) – Italia.
Il p. Francesco Margotta, nacque il 10 marzo 1699, nel popoloso borgo di Calitri, da famiglia distinta tuttora esistente.
Compiuto il corso di erudizione, si recò in San Menna per studiare col Figurelli filosofia cartesiana, allora di moda in Europa. I canonici, che si compiacevano di discutere coll’imberbe giovinetto, rilevavano attoniti: «Ti puzza ancora la bocca di latte, e sai tanto? ».
Laureatosi nel 1721 « in utroque jure » presso la regia università di Napoli, e tornato in patria, venne presto eletto membro della consulta municipale. Sull’avvocato ben preparato e rettilineo pose gli occhi anche il principe Imperiale, creandolo governatore di Andretta, suo feudo nell’archidiocesi di Conza.
Nel governo di quei 4.000 cittadini del Principato Ulteriore, Margotta si ispirò a genuini sentimenti cristiani. La popolazione, in gran parte rurale, non tardò ad accorgersi dell’indirizzo nuovo: ripeteva commossa, come riferisce il P. Landi: « Quest’anno abbiamo avuto per governatore un cappuccino».
I birri si davano da fare per scovare e acciuffare i delinquenti. Il governatore, prima di infliggere un castigo o una multa salata, secondo il costume di quei tempi, vagliava ciascun caso, propendendo per indole alla comprensione. Spesso, sorpreso qualcuno a masticare tabacco di contrabbando, diceva: «Ebbene, va in pace; ma farai tre digiuni ». Ai ladruncoli che, attraversando i campi del feudatario, avevano strappato per fame poche pannocchie o grappoli di uva, ingiungeva: « Per questa volta reciterete quattro rosari, ma state attenti a non ricapitarci in seguito ». La prigione rimaneva vuota, e gli scrivani non scrivevano che rarissime bollette.
I mastrodatti, i cursori e il cancelliere tra la stizza e ironia mormoravano: « La banca dei nostri guadagni è addivenuta coro e refettorio di monaci, ove si paga a Dio con rosari e digiuni ».
Il vecchio notaio, una sera, incontrando il Margotta, gli disse in faccia: « Signor governatore, io porto il peso della mastrodattia, e debbo soddisfare il principe non con rosari ma con doble e zecchini ». Il gentiluomo rispose con calma che riteneva inumano spremere quella misera plebe a causa di insignificanti delitti per intascare quattro tornesi.
Declinato l’incarico rientrò a Calitri ove, nel 1730, con unanimità di voti venne nominato «capo eletto» del comune che numerava circa 4.500 abitanti.
La madre, donna Orazia, vedova, incitava il figlio al matrimonio e, a sua insaputa, aveva iniziato trattative con la nobile famiglia Cappucci di Lacedonia, e poi con i Birilli, signori calitrani. Francesco, con decisione e garbo, le confidò: « Mamma, io non ho mai avuto pensieri di nozze; né ho dato mai parola; anzi io non voglio più sapere di mondo ». Avvertiva attrattive per la vita ecclesiastica, ma non ne aveva una idea chiara.
Intanto si ammalò gravemente. Fu chiamato da Bisaccia il suo direttore spirituale, il rev. Gaetano Giuliani, discepolo del ven. Antonio de Torres.
Prima che il servo di Dio arrivasse, battendo mulattiere irte di neve, Francesco era spirato. Giunto, propose alla signora in lacrime: « Se Gesù Cristo ve lo ridona, voi lo donerete a lui? ». «Magari risuscitasse… ». – Si inginocchiò presso il feretro, supplicando con l’ardore dei profeti: « Gesù Cristo mio, io lo voglio per la gloria tua; io lo voglio ». Il morto si scosse, indi si levò dal cataletto, come deposero autorevoli testimoni.
Miracolo o morte apparente?
Francesco, ristabilitosi, chiese senza indugio di indossare l’abito talare, che l’arcivescovo di Conza G. Nicolai gli accordò festoso. « Figlio, —gli disse, amministrandogli gli ordini minori — ringraziate il Signore che vi ha illuminato, e vi ha fatto conoscere la fugacità delle cose di questo mondo ».
Appena sacerdote, si ascrisse all’associazione missionaria del P. Pavone, promovendo ovunque la devota congregazione della Immacolata. Il mariologo gesuita, p. Pepe, in un libro stampato a Napoli nel 1744, elogiava il Margotta « edificante per la esemplare pietà, amore e divozione alla gran Madre di Dio». Gli fu ancora affidata la direzione del seminario diocesano denso di alunni; e fu nominato Vicario Generale dell’archidiocesi.
Nel 1746, sant’Alfonso percorreva la vallata del Sele per le missioni; e l’arcivescovo lo invitò ad erigere un collegio sulla collina di Materdomini. Le risorse erano scarse per viverci; ma il Margotta si sobbarcò a donare cento ducati annui per le rendite occorrenti. Il santo gradì l’offerta, ma fece intendere al Margotta che la Madonna, più che i ducati, bramava lui nell’Istituto.
Fu così che, a 49 anni, nel 1748 lasciò la curia e partì come novizio per Ciorani. Il maestro, p. Andrea Villani, si industriava a moderarne il fervore; ma egli diceva: « Con questa bestiaccia, se non si usa la sferza e non si diminuisce l’orzo, dà dei calci e ti precipita ».
Emessa la professione, fu nominato rettore di Materdomini, per ultimarne la fabbrica. Era pronto ad accettare impegni di lavoro, e si occupava di diversi monasteri. Sant’Alfonso lo richiamò: «tante gatte a pettinare, tante lettere, tante faccende non proprie ». Accettò virtuosamente il richiamo; e il santo gli comunicava: «la vostra lettera mi ha consolato con i suoi belli sentimenti di umiltà e di rassegnazione».
Fu maestro dei novizi in S. Angelo a Cupolo e, in seguito, fu eletto procuratore generale dell’Istituto, riuscendo, con tattica e accorgimenti giuridici, ad evitare la soppressione dell’Istituto, a cui il governo borbonico regalista, pur riconoscendone le benemerenze, negava l’approvazione.
Risiedeva in genere a Napoli, in un appartamentino del palazzo Liguori, nel vicolo Traietta che sboccava in piazza Sanfelice. Nel 1754, ebbe per compagno Fr. Gerardo Majella, nelle cui virtù taumaturgiche aveva sempre creduto; ma questi, a primavera inoltrata del 1755, tornò a Materdomini per chiudervi, all’alba del 16 ottobre, la sua angelica vita.
Il P. Margotta, che era rimasto nell’ospizio napoletano fuori Porta S. Gennaro, verso la fine di luglio del 1764, cadde infermo. Sopravvenne la febbre con delirio. Il P. Ferrara, che gli era stato amico nel seminario di Conza, lo munì degli ultimi sacramenti, ed egli, baciando il Crocifisso, e invocando con filiale tenerezza la Madre divina, passò all’eterno riposo l’11 agosto 1764. La gente del quartiere dei Vergini, che lo venerava, andava ripetendo: « E’ morto il santo! ».
Il cadavere fu trasportato a Pagani, per essere sepolto nell’ipogeo della primitiva chiesetta del collegio insieme cogli altri pionieri della Congregazione del SS. Redentore.
P. Oreste Gregorio
S. GERARDO, anno LXIV, agosto 1964, pag. 118.
______________
Altro Profilo
Il P. Francesco Margotta nacque a Calitri. A tre mesi perdeva il padre. La madre, fervente cristiana, pose ogni cura per una buona formazione dell’unico suo figliuolo.
A Napoli il suo ingegno destò lo stupore dei dotti. Terminato il corso, sostenne brillantemente l’esame e, con dispensa sull’età, conseguiva la laurea in giurisprudenza. Rifiutò cospicue nozze e, dicendo addio al mondo, abbracciò lo stato ecclesiastico.
Nel 1731, l’arcivescovo di Conza l’ordinò sacerdote. Ammiratore di Alfonso e del suo Istituto, donò i suoi beni e legò, sul suo patrimonio, una rendita di 100 ducati annui a favore del Collegio di Materdomini.
A 48 anni chiese di essere ammesso nell’Istituto, e il Fondatore, con una lettera del 7 dicembre 1747, lo assicurava della ammissione e, per speciale concessione, gli permetteva, sin da quel giorno, di iniziare il noviziato.
Il 2 luglio del 1748, emetteva la sua professione religiosa nelle mani del P. Andrea Villani, altro colosso di santità e colonna della congregazione.
Nel capitolo del 1749, fu nominato Procuratore Generale dell’Istituto.
Benché Procuratore, da Ciorani fu inviato a Materdomini da Rettore per sostituire il P. Cesare Sportelli. Dietro esortazione dello stesso S. Alfonso, si adoperò attivamente per la fabbrica in corso e, quando il santo vi si portò per la s. Visita (16 maggio 1750), trovò che la fabbrica era stata portata a termine.
Nel 1763, tornava a Materdomini, in qualità di visitatore straordinario, e ordinava, tra l’altro, la costruzione di una balaustra in legno intorno al presbiterio, di due coretti ai fianchi dell’altare maggiore, di un altarino in onore di S. Giuseppe, e la colorazione della chiesa a imitazione marmo.
Il P. Margotta era uomo di spiccata santità, e siccome il Signore purifica quelli che ama, soffriva da parecchi anni un vero martirio di spirito. Era tormentato da ansietà senza fine, da scrupoli senza numero, angosce da spezzare il cuore. Faceva compassione a tutti. Durante una ricreazione a Pagani, vedendolo Alfonso cupo e silenzioso, gli domandò: «Non dite niente, P. Margotta? ». « Padre mio, – rispose – se volete consolarmi un poco, cantatemi uno dei vostri bei cantici alla Madonna ». Alfonso si mise al clavicembalo, e, mentre cantava colla sua voce armoniosa alcune strofe ispirate dalla più tenera confidenza, grosse lacrime sgorgavano dagli occhi del Margotta.
Alla lettera di Alfonso del 18 luglio 1758, in cui chiedeva dei membri per le missioni straniere nelle terre dell’Asia, oltre ai giovani risposero anche dei vecchi ardenti di amore per Dio e per le anime. Fu tra essi il P. Margotta che, nonostante i suoi 60 anni, desiderava terminare la sua vita in mezzo agli infedeli. Non gli fu concesso.
Eletto rettore di S. Angelo a Cupolo, il P. Margotta continuava ad occuparsi in Napoli degli affari della congregazione. Ivi fu colpito dal colera che faceva strage nel regno in conseguenza della carestia. Alfonso gli mandò due fratelli per assisterlo, e il P. Ferrara per prepararlo alla morte.
Ma il Signore preparava e consolava da sé il suo mite e pio servo. Egli, così torturato dagli scrupoli, vedeva ora approssimarsi l’ultimo istante senza la minima agitazione. Unito intimamente al suo Dio, non faceva che esprimere i più teneri sentimenti di amore a Gesù e a Maria.
L’11 agosto 1764, si addormentava nella pace e nel sorriso di Dio, rimpianto dal popolo, da tutti i suoi confratelli, e specialmente da S. Alfonso, che perdeva in lui uno dei suoi figli più affezionati, uno dei soggetti più valorosi. Aveva settantacinque anni!
P. Bernardino Casaburi
S. GERARDO, anno XLVII, aprile 1947, pag. 50.
______________
Profili tratti da
Nella luce di Dio, Redentoristi di ieri.
del P. Francesco Minervino, Pompei 1985