Il cammino del vescovo Alfonso Maria de Liguori: 1762-1775.
43. Il saluto alle Monache Redentoriste
Il saluto alle Monache Redentoriste
S. Alfonso aveva curato lo stato di salute dei monasteri della sua diocesi: erano diventati oasi di preghiera e di offerta per la conversione dei peccatori. Quando arrivò il momento di lasciare, si alzò alto il rammarico di perdere un così santo Pastore. Ma egli le confortava.
Le Monache Redentoriste piangevano la sua partenza. Egli le aveva chiamate da Scala (SA) nel 1766 con l’intento di creare in S. Agata un monastero di claustrali, che badassero alla educazione delle nobili fanciulle. I vescovi antecedenti avevano tentato più volte inutilmente.
Le famiglie più cospicue fecero insistenza presso Monsignore che domandò: “Spiegatevi che avete in mente. Se pensate formare un monastero di serve di Dio, io volentieri mi ci adopero; ma se intendete un conservatorio di femmine, meglio è non parlarne“.
Si rimisero alla sua saggezza. Sant’Alfonso prese a cuore la soluzione dell’annoso problema e con le sue aderenze nella Corte pontificia e in quella borbonica instaurò nel giro di brevissimo tempo il bramato chiostro.
In un edificio mezzo abbandonato, dove prima si annidavano zingari e civette, collocò dopo i restauri le colombe di Dio sotto la materna protezione della celeste Regina.
Partite dalla costiera amalfitana e scavalcati i monti Lattari, vennero, ad inaugurare in S. Agata la vita redentorista Suor M. Raffaella della Carità superiora, Suor M. Felice dei santi Chiodi, Suor M. Celestina del divino Amore e la conversa Suor Giuseppina di Gesù e Maria.
Monsignore le fece accogliere come altrettante principesse con archi di rosmarino, mortella e fiori, al suono festoso delle campane, tra l’immancabile sparo di mortaretti e un visibilio di persone e le autorità cittadine.
In un decennio, come il Santo aveva previsto, le religiose edificarono la diocesi, anzi tutta la provincia beneventana con l’esimie virtù. Ne era soprannaturalmente fiero.
Il Santo nel lasciarle regalò al monastero una nuda croce di legno, su cui vi era dipinto l’emblema dellaPassione. Egli la teneva nel salotto e soleva baciarla nell’entrare ed uscire dalla propria camera: donandola alle Redentoriste impartiva una lezione austera che doveva perpe-tuarsi nel chiostro al di là delle tenerezze umane con la visione incomparabile della fecondità del sacrificio.
Lasciò inoltre alle medesime Monache “44 Avvisi” che riepilogavano i precetti della perfezione sviluppati nella Vera sposa di Gesù Cristo, edita nel 1760.
Vi era naturalmente sottolineato il distacco totalitario. Il canonico Hennequin di Liegi scrivendo nel 1776 al Santo appellava quest’opera “libro d’oro, nel quale si vede la pratica delle virtù mirabilmente espressa”.
Anche le Suore Rocchettine di Arienzo chiesero al loro amato pastore una memoria. Inviò un quadretto della Madonna del Buon Consiglio che aveva sul tavolo di studio con un biglietto del 29 giugno 1775: “Io mi parto già e vi lascio la Mamma mia che ora vi mando, e vi prego di raccomandarle la morte mia che mi sta vicina“. Era quello il suo cuore, come aveva scritto più volte nel libro delle Glorie di Maria.
Il giorno antecedente alla partenza il parroco Bartolini e il canonico Truppi si recarono ad ossequiare Monsignore: appena giunsero nella sua camera da letto, scoppiarono in lacrime. Il Santo intenerito disse: “Che credete che non mi dispiaccia di partire? Troppo mi dispiace, perchè lascio i figli miei. Rinuncio, perché Dio così vuole. Lo stato in cui sono mi ha obbligato a farlo presente al Papa, e col Papa mi sono spiegato che se la diocesi era per soffrire il menomo danno, io ero pronto di tirar questo carro sino alla morte. Ma se parto col corpo, non vi lascio col cuore“.
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Galleria di statue di S. Alfonso vescovo
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