17. S. Alfonso: Padri e medici nel sacramento della riconciliazione.
Il sacramento della riconciliazione in difficoltà? [i titoletti sono redazionali]
Le difficoltà che oggi incontra il sacramento della riconciliazione sono molteplici e complesse. Le cause vanno ricercate a diversi livelli: lo insidiano, ricorda Giovanni Paolo Il in Reconciliatio et paenitentia, « da un lato, l’oscuramento della coscienza morale e religiosa, l’attenuazione del senso del peccato, il travisamento del concetto di pentimento, la scarsa tensione verso una vita autenticamente cristiana; dall’altro lato, la mentalità, talora diffusa, che si possa ottenere il perdono direttamente da Dio anche in maniera ordinaria, senza accostarsi al sacramento della riconciliazione, e l’abitudine di una pratica sacramentale priva talora di fervore e di vera spontaneità, originata forse da una considerazione errata e deviante degli effetti del sacramento». È necessario perciò «rinnovare e riaffermare» la nostra «fede riguardo a questo sacramento, per il quale viene data ad ogni cristiano e all’intera comunità dei credenti la certezza del perdono per la potenza del sangue redentore di Cristo» (n. 28).
E un’urgenza che deve trovare attenti soprattutto noi sacerdoti, dal momento che questo sacramento ci è affidato in maniera particolare. Del resto sappiamo bene che dietro il suo abbandono ci sono spesso anche responsabilità di confessori che non hanno saputo far incontrare l’autentico volto di Dio. Se tutta la pastorale è «arte», la confessione lo è in maniera particolare: è indispensabile un impegno continuo di formazione.
L’insegnamento di S. Alfonso, patrono dei confessori, è un aiuto prezioso. Ho già ricordato l’importanza decisiva da lui attribuita a questo sacramento. Non si è però fermato alle affermazioni di principio, ma si è anche impegnato a tracciare delle linee guida per una fruttuosa celebrazione. In Pratica del confessore per ben esercitare il suo ministero (1) sottolinea stile e atteggiamenti, evangelicamente ispirati, che conservano tutta la loro attualità.
S. Alfonso parte dal ribadire l’importanza del sacramento: «Grande certamente sarà il premio e sicura la salvazione de’ buoni confessori che s’impiegano nella salvezza de’ peccatori… Ma piangela Chiesain vedere tanti suoi figli perduti per cagione de’ mali confessori, poiché principalmente dalla loro mala o buona condotta dipende la salvezza o ruina de’ popoli» (2). Malgrado le difficoltà, è necessario che soprattutto noi sacerdoti cresciamo in questa consapevolezza, non solo per il valore intrinseco del sacramento, ma anche perché il pluralismo della nostra società esige dai battezzati una maggiore personalizzazione della fede.
Necessità di buoni confessori
Alfonso però aggiunge subito che tale consapevolezza deve tradursi in un impegno formativo che permetta una celebrazione autentica e fruttuosa: «È certo che se in tutti i confessori si ritrovasse la scienza e la bontà conveniente a tanto ministero, il mondo non sarebbe così infangato di peccati, né l’inferno così ripieno d’anime» (3).
Deve trattarsi di una qualificazione non generica, ma mirata esplicitamente al ministero delle confessioni: «E per bontà ‑ continua Alfonso ‑ non intendo qui la sola bontà abituale, cioè il semplice stato di grazia, ma una bontà positiva, quale appunto conviensi ad un ministro della penitenza, a cui fa bisogno come alla nutrice doppio alimento, e per sostentare sé e per nutrire la prole» (4). Questa bontà specifica deve tradursi in accoglienza, ascolto, annuncio salutare, incoraggiamento, apertura e accompagnamento verso la santità.
Partendo da questa premessa, nel primo capitolo della Pratica Alfonso approfondisce gli «offici» del confessore, secondo un ordine, che è già significativo: padre, medico, dottore, giudice. Seguono sei capitoli in cui viene dettagliata la maniera di comportarsi con le diverse categorie di fedeli. Gli ultimi due capitoli approfondiscono la prudenza del confessore (VIII) e «la guida delle anime spirituali» (IX). Per la nostra riflessione è sufficiente fermarci alle prime due sezioni del primo capitolo, dove, parlando del padre e del medico, Alfonso traccia le linee fondamentali della sua visione.
Il confessore deve sentirsi innanzitutto padre. Scrive Alfonso: «Il confessore, per adempiere la parte di buon padre, dev’esser pieno di carità. E primieramente deve usar questa carità nell’accogliere tutti, poveri, rozzi, peccatori» (5). Carità pastorale dice sempre capacità e prontezza di accoglienza verso chiunque, ma innanzitutto verso chi ne ha più bisogno.
Alfonso contesta perciò atteggiamenti elitaristici, presenti non solo al suo tempo ma ancora oggi: «Alcuni confessano solamente l’anime divote o solo qualche persona di riguardo, perché non avranno l’anima di licenziarla; ma se poi s’accosta un povero peccatore, lo sentono di mala voglia, ed infine lo licenziano con ingiurie. E quindi succede che quel miserabile, il quale a gran forza sarà venuto a confessarsi, vedendosi così mal accolto e discacciato, piglia odio al sagramento, si atterrisce di più confessarsi, e così, diffidando di trovar chi l’aiuti e l’assolva, si abbandona alla mala vita ed alla disperazione. Non fanno così i buoni confessori: quando si accosta un di costoro, se l’abbracciano dentro il cuore e si rallegrano… considerando di aver la sorte allora di strappare un’anima dalle mani del demonio» (6).
Il confessore, un padre che accoglie e ascolta
Accogliere quindi, ma con amore di padre, che si preoccupa innanzitutto di aprire il cuore alla fiducia. Scrive ancora Alfonso: «E perciò vestendosi di viscere di misericordia, come esorta l’Apostolo, quanto più infangata di peccati trovano quell’anima, tanto maggior carità cercano d’usarle, affin di tirarla a Dio, con dirle per esempio: Orsù allegramente, fatti ora una bella confessione. Di’ tutto con libertà; non pigliar rossore di niente. Non importa che non ti sei appieno esaminato, basta che mi rispondi a quel che io ti dimando. Ringrazia Dio che ti ha aspettato finora» (7).
A me sembra che oggi chiunque si avvicina al sacerdote, ha bisogno prima di tutto di questa accoglienza caratterizzata da autentica carità pastorale; di sentirsi dire che, malgrado il peccato presente nella sua vita, può cominciare un cammino nuovo, perché Dio gli ha anticipato questa possibilità. Accogliere aprendo alla fiducia è condizione indispensabile perché il rapporto sacramentale possa essere fruttuoso.
L’accoglienza deve trasformarsi in ascolto. Scrive Alfonso: «Maggiormente poi deve il confessore usar carità nel sentirlo. Bisogna pertanto ch’egli si guardi di mostrar impazienza, tedio o maraviglia; se pure non fosse così duro e sfacciato che dicesse molti e gravi peccati senza dimostrarne alcun orrore o rincrescimento, perché allora è bene fargli intendere la loro deformità e moltitudine, bisognando allora svegliarlo dal suo letargo con qualche correzione» (8).
Ascoltare, ascoltare con pazienza, ascoltare con attenzione, provando a guardare le cose dall’angolazione del penitente, ma soprattutto evidenziando la possibilità di liberazione e di bene che lo Spirito ha già inserito nella sua: per quanto piccola, ha la potenzialità del lievito e del seme. L’ascolto è evangelicamente autentico se permette al penitente di fare esperienza di tutto ciò. È questo l’annunzio che dobbiamo prima di tutto fare a chi si avvicina a noi.
Concludendo la sua riflessione sull’officio di padre Alfonso ribadisce la sua fondamentale convinzione: «Questa è la via di salvare i peccatori, trattarli quanto si può con carità; altrimenti quelli, se trovano un confessore austero che li tratta con modi aspri e non sa far loro animo, pigliano orrore alla confessione, lasciano di confessarsi e son perduti» (9).
Il confessore, un medico che cura: i rimedi
Non basta però al confessore mostrarsi padre, occorre che si ponga dinanzi al penitente anche come medico. È il secondo ufficio, particolarmente sottolineato da Alfonso. Egli scrive: «Il confessore, affine di ben curare il suo penitente, deve per prima informarsi dell’origine e cagioni di tutte le sue spirituali infermità. Alcuni confessori dimandano solamente la specie e il numero dei peccati e niente più; se vedono il penitente disposto, l’assolvono; se no, senza dirgli niente, subito lo licenziano, dicendo: va’ che non ti posso assolvere. Non fanno così i buoni confessori: questi primieramente cominciano ad indagare l’origine e la gravezza del male, domandano la consuetudine e le occasioni che ha avuto il penitente di peccare, in qual luogo, in qual tempo, con quali persone, con qual congiuntura, poiché così poi meglio possono far la correzione, disporre il penitente all’assoluzione ed applicargli i rimedi» (10).
È una prospettiva da attualizzare avendo presente la sensibilità di ogni penitente. Quando un fratello svela la sua situazione di peccato, bisogna cercare di arrivare sempre alle sue radici se lo si vuole effettivamente aiutare. Oggi, ad esempio, sappiamo con maggior chiarezza ‑ come la stessa enciclica Evangelium vitae sottolinea ‑ che spesso i peccati personali sono conseguenza di fattori strutturali e ambientali che premono, condizionano, schiacciano”: ignorare tali fattori porterebbe a una diagnosi errata della responsabilità e della possibilità di guarigione del penitente.
Bisogna far di tutto ‑ sempre però rispettandone sinceramente la coscienza ‑ perché il penitente prenda consapevolezza delle radici del male che pesa su di lui. Potremo allora indicare i rimedi opportuni, cominciando dalla verità: «Fatte le suddette dimande ‑scrive ancora Alfonso ‑ e così ben informatosi il confessore dell’origine e della gravezza del male, proceda a far la dovuta correzione o ammonizione. Sebben egli come padre deve con carità sentire i penitenti, però è obbligato come medico ad ammonirli e correggerli quanto bisogna, specialmente coloro che si confessano di rado e sono aggravati di molti peccati mortali» (12).
Si noti che si tratta di una ammonizione che deve essere medicinale: deve cioè essere attuata in maniera che risponda non solo al male fatto, ma anche alle possibilità di cammino del penitente. Continua infatti S. Alfonso: «E così ben anche è obbligato il confessore ad ammonire chi sta nell’ignoranza colpevole di qualche suo obbligo, o sia di legge naturale o positiva». Però «se il penitente l’ignorasse senza colpa, allora, quando l’ignoranza è circa le cose necessarie alla salvezza, in ogni conto gliela deve togliere; se poi è d’altra materia, ancorché sia circa precetti divini, e ‘l confessore prudentemente giudica che l’ammonizione sia per nocere al penitente, allora deve farne a meno e lasciare il penitente nella sua buona fede… La ragione si è, perché si deve maggiormente evitare il pericolo del peccato formale che del materiale, mentre Dio solamente il formale punisce, poiché da questo solo si reputa offeso» (13). Questo però non vale quando è in gioco il bene comune”.
Per potere effettivamente guarire, dovrà essere sempre un annuncio della verità fedele all’amore misericordioso del Cristo. Alfonso insiste sulla necessità di aprire prontamente il penitente a questo amore: «Parlando de’ rimedi da insinuarsi a’ penitenti, altri sono generali, altri particolari… I generali da insinuarsi a tutti sono:1. l’amore a Dio, giacché Dio a questo sol fine ci ha creati; e con ciò diasi ad intendere la pace che gode chi sta in grazia di Dio, e l’inferno anticipato che prova chi vive senza Dio, colla ruina anche temporale che porta con sé il peccato» (14). Senza questa apertura all’amore il desiderio del bene non potrà prevalere sugli stimoli seducenti del male; la conversione non sarà perseverante.
Altro rimedio da inculcare a tutti è «lo spesso raccomandarsi a Dio e alla Madonna col rosario ogni sera, all’angelo custode e a qualche speciale santo avvocato». E poi «la frequenza de’ sagramenti; la considerazione delle massime eterne… ed a’ padri di famiglia, il far l’orazione mentale ogni giorno in comune con tutta la casa, almeno il rosario insieme con tutti i loro figli; la presenza di Dio in tempo della tentazione; l’esame di coscienza ogni sera; l’entrare in qualche pia associazione» (15).
Questi sono per Alfonso i rimedi con cui curare le ferite del peccato. Essi vanno attualizzati alla luce della sensibilità e delle attuali condizioni di vita. Occorre però che siano tali non solo per guarire, ma anche per mettere in cammino verso la santità. Per questo è indispensabile l’apertura all’amore di Dio, come emerge nella croce del Cristo. Tutte le espressioni della pastorale alfonsiana hanno qui la loro chiave di lettura. Mi limito a ricordare ciò che il suo primo biografo, A. Tannoia, scrive del progetto alfonsiano di predicazione missionaria: «Terminate le prediche delle Massime, eravi per tre o quattro giorni un pio esercizio meditativo, ch’egli chiamava Vita Divota. Consisteva questo per prima in istruire il Popolo sulla maniera di mentalmente orare; spiegavasene la necessità, e mettevasi in veduta l’utilità di sì pio esercizio. Indi per un’altra mezz’ora facevasi praticamente meditare la dolorosa passione di Gesù Cristo. Erano così teneri in bocca sua questi sensi della Passione, che vedevasi in Chiesa fiumi di lagrime; ed ove prima si piangeva per dolore, in questa meditazione facevasi per amore» (16).
Al centro di tutto, l’amore
Se Cristo è amore, tutto l’annunzio evangelico, anche nei contenuti morali, deve tendere a far sperimentare tale amore suscitando il desiderio e la volontà di rispondervi in maniera sempre più piena. Per Alfonso sta qui il criterio fondamentale che deve ispirare l’azione del confessore, aprendo a una vita cristiana centrata sulla Pratica di amar Gesù Cristo.
Mi sembra perciò opportuno concludere ribadendo come Alfonso sintetizza questa centralità dell’amore: «Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore» (17). Aggiunge però con pari forza: «Tutta la perfezione dell’amore consiste nell’unire la nostra alla sua santissima volontà… Se dunque vogliamo compiacere appieno il cuore di Dio, procuriamo in tutto di conformarci alla sua divina volontà; e non solo di conformarci, ma uniformarci a quanto Dio dispone. La conformità comporta che noi congiungiamo la nostra volontà alla volontà di Dio; ma l’uniformità importa di più che noi della volontà divina e della nostra ne facciamo una sola, sì che non vogliamo altro se non quello che vuole Dio, e la sola volontà di Dio sia la nostra» (18).
Possiamo aiutare tutti i battezzati ad aprirsi a tale amore se siamo capaci di far sperimentare che, come il nostro Santo non si stanca di ripetere, la volontà di Dio è « amoroso disegno di rendere l’uomo beato» (19). L’odierno secolarismo rende sempre più problematico il percepire tutto ciò, chiudendo e allontanando da Dio. La nostra ministerialità nel sacramento della riconciliazione deve tendere a far incontrare l’autentico volto del Padre, che in Cristo perdona e sana; ad aprire alla presenza misteriosa dello Spirito che guida alla pienezza e alla felicità vera. Sarà allora possibile essere coerenti con la divina volontà nelle decisioni di ogni giorno.
da Roma 15 febbraio 1996
P. Sabatino Majorano
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Note
(1) Mi servo dell’edizione critica curata da G. PISTONI (Modena 1948) secondo la più recente riproposizione di A. M. SUTTON (Frigento 1987).
(2) Introduzione, p. 1.
(3) Ivi, p. 1‑2.
(4) Ivi, p. 2.
(5) Cap. I, n. 3, p. 5.
(6) Ivi, p. 5‑6.
(7) Ivi, p. 6.
(8) Ivi, n. 4, p. 7.
(9) Ivi, n. 5, p. 9.
(10) Ivi, n. 6, p. 9‑10.
(11).Cfr. ad esempio n. 58‑59.
(12) Op. cit., n. 7, p. 10.
(13) Ivi, n. 8, p. 11‑12.
(14) Cf. Ivi, n. 9, p. 14.
(15) Ivi, n. 15, p. 23‑24.
(16) Ivi, p. 24.
(17) Sono le espressioni con cui Alfonso apre la Pratica di amar Gesù Cristo, cap. I n. 1, in Opere ascetiche, I, Roma 1933, p. 1.
(18) Uniformità alla volontà di Dio, in Opere ascetiche, I, p. 286.
(19) Condotta ammirabile della Divina Provvidenza in salvar l’uomo per mezzo di Gesù Cristo, Opere complete, VIII, Torino 1857, p. 787‑788.