Studente Antonio Garaguso (1836-1856) – Italia.
Studente Antonio Garaguso (1836-1856)
Il Padre Provinciale D. Michele Mazzei mi ordinò di scrivere ad una sua zia in Anzi per avere notizie di questo suo antico parente; e subito mi fu spedito un prezioso manoscritto di famiglia, donde rilevo quando segue.
Nacque a dì 7 settembre 1836 in Anzi da Vincenzo, nativo di Pietrapertosa, e da Anna Asmudis.
Fin dalla fanciullezza si ravvisava in lui un’indole dolce e vivace.
Col crescere degli anni si annunziava in esso un sentimento superiore alla sua età, talmente pieno di senno e devozione verso il suo Creatore, Maria SS. e Santi, e così bene si comportava in tutte le sue azioni che ai suoi genitori dava a sperare di sua ottima riuscita.
Sempre applicato allo studio delle belle lettere, nel quale si fece non poco onore, precisamente sotto la direzione del degno sacerdote D. Giovanni Battista Di Salvia, anche di Anzi, ed indefesso nel culto di Dio, della sua avvocata Maria SS. di cui ogni giorno ne recitava il rosario, e di taluni Santi, prescelti per suoi avvocati, ed in particolare S. Alfonso De Liguori, si era reso la meraviglia di Anzi, la delizia dei suoi genitori, e lo stupore dei scapestrati giovani.
La sera non andava a letto se prima non stava almeno mezz’ora di faccia a terra ad offrire delle preci all’Altissimo.
Ubbidiente e sottomesso ai genitori, li rendeva sempre più lieti del suo buono portamento, e nell’atto che deliberavano di dirigerlo per lo stato sacerdotale, quand’ecco pervenuto all’età di circa sedici anni, tirato dallo Spirito divino, e di esso tutto infiammato, chiese ai genitori a calde lacrime il permesso di potersi rinchiudere in un collegio dei Padri Liguorini, volendosi dedicare totalmente al prediletto suo avvocato S. Alfonso, e dar di spalle al Secolo.
Trovando lodevole la sua proposta, e santa in pari tempo, ed benché ai genitori non sarebbe piaciuto allontanare un figlio così buono, pure a reiterate sue istanze, furono essi obbligati a condiscendere, cosi deliberarono di scrivere al Rettore Maggiore per l’ammissione del loro figliuolo, ed accettata la petizione, si disbrigò con ogni celebrità l’incartamento che vi occorreva e precisamente la costituzione del sacro patrimonio.
Lo si fece quindi partire alla volta di Ciorani, luogo del noviziato, nel 1852. Colà arrivato, per effetto di alcune questioni fra quei Padri per causa della illegale elezione del loro superiore maggiore, che venne da essi impugnata, non poté essere ricevuto per allora, e ne avvenne in conseguenza, che obbligato dalla necessità, dové andarsene ad aspettare in Napoli presso suo zio D. Francesco Paolo Asmundis, direttore di un istituto letterario.
Ma poiché l’affare della nuova elezione dell’altro superiore maggiore andava un poco alla lunga, il disgraziato figliuolo fu necessitato, con grave suo cordoglio, a rimpatriare, dopo alquanti mesi di trattenimento nella Capitale, ove altre non erano state le sue occupazioni, se non andarsene or in una, or in un’altra Chiesa a dirigere sue calde preci al Signore ed alla Madonna, acciò lo avessero esaudito nei suoi precisati proponimenti, sopra esposti, anelando far presto ritorno colà per essere ammesso al noviziato.
Giunto in famiglia, versava continuamente torrenti di lacrime, e faceva molti voti per poter un giorno aver il piacere dedicarsi al suo caro S. Alfonso.
Dopo alquanto tempo, esaudito da Dio, dalla sua Avvocata Madre della Misericordia, e dal suo Protettore S. Alfonso, dal nuovo superiore maggiore a nome P. Giuseppe Lordi fu ordinato, con lettera diretta al rev. Padre Liguorino Francesco Antonio Ricciuti di Abriola (che si ritrovava in famiglia per malattia), uomo fornito di scienza e di santità ornato, che si fosse occupato ad esaminare il giovinetto Garaguso sugli studi fatti, e particolarmente sulla lingua latina, e qualora lo avesse trovato idoneo, ne lo avesse tenuto avvisato per ammetterlo al noviziato.
Il giovinetto, accompagnato dal suo genitore, partì subito, con suo indicibile contento, per Abriola da quel citato Padre, il quale lo accolse con grande bontà e cortesia: dopo poco tempo lo esaminò ed avendolo ritrovato abile nella lingua latina, e molto più soddisfatto per aver scorto nel giovine un’inclinazione così fervorosa a voler dedicarsi alla Congregazione del SS. Redentore, non esitò ragguagliarne il suo superiore maggiore, il quale dietro tali assicurazioni, lo invitò a partire a dover fare il noviziato.
Quali furono le allegrezze, il festeggiamento da cui fu invaso il bravo giovane Garaguso è ardua cosa potersi descrivere. Partì con la più grande gioia, lasciando i genitori in una fortissima ed acerba afflizione, ed in un profluvio di lacrime.
Giunto in Pagani, accompagnato da Michelangelo De Stefano, che, unito a lui, andava a farsi anche Liguorino, e don Filippo De Stefano, padre di esso Michelangelo, nell’atto che il disgraziato Garaguso, tutto ansioso si credeva già di toccare la meta dei suoi desideri, ecco che Iddio, per sperimentare forse la sua pazienza e con mortificarlo e renderselo più accetto, pensò di mandargli la persecuzione. Come di fatti avvenne.
Taluni maligni e mendaci Anzesi, nemici di famiglia, per ragione d’invidia, avendo formato dei ricorsi contro Garaguso ai Reverendi Padri in Pagani, dimostrarono fra l’altro che il giovane soffriva di palpitazione al cuore, per cui quei Padri, avendo invitato il loro medico che stava in Somma, lo premurarono a sperimentare diligentemente la salute di esso.
Questo dottore fece conoscere che effettivamente il giovane era affetto da tal malore, e perciò non era conveniente ammetterlo nella Congregazione, ove occorreva una perfetta salute per doversi dedicare alla predicazione.
Stante tutto ciò, fu escluso dall’albo dei novizi. A tale colpo inaspettato il povero giovane rimase pietrificato, e fu in procinto di cadere in deliquio, e con soffocati sospiri ed amaro e continuato pianto faceva comprendere da qual dolore si vedeva oppresso.
Ma poco dopo, rientrando in ragione e confortato da D. Filippo De Stefano, risolse finalmente a darsi animo, e stabilì in ogni conto ad escogitare tutti i mezzi a poter essere aggregato un giorno nel numero di quei novizi.
Si recò di bel nuovo in Napoli a trattenersi colà presso il menzionato suo zio Signor Asmundis e nella dimora in tal Capitale altro non fece che andar trovando protezione, per poter soddisfare le sue brame.
Tutto da esso fu posto in opera, e dietro tanti strapazzi gli riuscì di acquistarsi la benevolenza di suo zio D. Agnello Coluzzi, uno dei principali Dottori fisici in Napoli, e quella dell’Eccellentissimo Arcivescovo di Amalfi e del Cavaliere suo germano. Mediante i loro favori e la loro protezione gli venne permesso di essere ricevuto da quei Padri al noviziato in Ciorani, luogo posto in mezzo alla corona di montagne, perciò umido e malsano.
Nel dì 8 gennaio 1855 fu ricevuto nel noviziato precisato, e con una lettera dei 13 dello mese ne rese avvisato suo padre con questi termini:
«I. M. I. Viva Gesù e Maria
Signor Padre veneratissimo. È ormai tempo che il Signore, vagheggiando nella mia costanza ha voluto far sì che, atterrati gli ostacoli, avesse con più ristoro rianimata la mia fede sotto il segno innocente.
Pareva precisamente che il nostro Padre Fondatore S. Alfonso mi suggerisse il portamento, ed io glorificando il suo santo Nome battessi il piede sulle di Lui orme, talché sotto i santi suoi dettagli ho fermato il passo fra le mura tanto sospirate.
Pertanto consolatevi colla dolce Mamma, che il Signore ha voluto far prova di me per più confermarmi nella sua santa Volontà.
I più dei padri di Pagani e Napoli mi incoraggiavano di essere sincero per essere più accetto innanzi il Signore.
Son giunto con prosperità qui in Ciorani (grazie a Dio); vi prego di non così dormire al vivo affetto di un figlio, ma piuttosto di consolarmi con le liete novelle della famiglia, e della tenera Madre, di che niun ragguaglio mi date nelle vostre, se non quella dell’infermità; lasciandomi poi sospeso coll’animo nelle posteriori lettere.
Nella soprascritta letterale farete: Al dilettissimo F.llo in G. C. Il Sig.re D. Antonio Garaguso del SS. Redentore – Sanseverino per Ciorani.
Non altro poiché nulla ho, e nulla mi si para alla mente che possa arrestare la vostra attenzione. Porgo col conosciuto affetto i rispetti, baciandovi prostrato al suolo i rispettabili piedi in uno coll’affettuosissima Sig.ra Madre, e partendo i teneri amplessi a fratelli e sorelle, vi prego la S. B. e tenermi sempre qual fui.
Da Ciorani li 15 gennaio 1855,
vostro aff.mo ed ubb.mo figlio Antonio».
Malagevole cosa sarebbe il dettagliare qual fosse stato il suo comportamento in detto noviziato, nel quale meritò il beneplacito e pieno compiacimento dei suoi superiori che lo lodavano a dismisura, e con lettere e con chi di anzi capitava a discorrerne.
Frattanto il non regolare clima di Ciorani, i sudori e strapazzi molteplici sofferti in Napoli, i veleni trangugiati per le varie traversie sofferte ed opposizioni alla bramata sua meta fecero sì che principiasse ad alterare il suo fisico, e questo di più si affievolì per le troppe mortificazioni, che oltre di quelle che prescriveva la Regola, usava straziarsi le carni con discipline e cilizi.
Stando vicino a terminare il noviziato, e ridotta la sua salute a malo stato, onde aver il piacere fare la professione, nascondeva il suo patimento in modo che adempiendo come sano a quanto richiedeva il suo dovere, dava a vedere ai superiori di star bene.
Terminato l’anno del noviziato, e ritrovandosi con volto cadaverico, avendo buttato sangue, stentavano i Padri, che lo ricevevano in Pagani, a permettergli di fare professione, ma furono tante le sue lacrime, calde preci, e raccomandazioni, che dietro le relazioni del superiore di Pagani, vantaggiosamente fatte in Napoli al rettore maggiore a favore di Garaguso, avendolo lodato in preferenza degli altri aspiranti, si riuscì ad ottenergli il permesso di fare professione nel giorno dell’Epifania, 6 gennaio 1856, come si esprime da una sua lettera, della data del 9 scritta a suo padre.
«I. M. I. Viva Gesù e Maria.
Stimatissimo Signor Padre,
Non senza estrema consolazione vengo ad umiliare a Vossignoria questa mia, dopo due sue, poiché con questa le significo la gioia del mio cuore nel vedere già compiuti i miei voti, il sacrificio di me consumato a piedi di G. C. felice giogo! dolci legami! per chi sa morire al mondo e vivere solo al dolce Cuore di Gesù.
Nel giorno dell’Epifania, tanto celebrato dalla chiesa feci di me a piedi dell’altare sul sacrosanto Evangelico, il totale sacrificio, giusto sul termine del noviziato, nel collegio di Pagani sotto il tenero Padre e Prefetto nostro P. Andrea Orlando, per il di cui favore e premure io mi trovo già consacrato a Dio per mezzo dei voti.
Lo stesso Padre più volte mi consolò nelle primiere sciagure, e finalmente mi ha salvato da una burrasca che mi minacciava triste procella (volendo alludere alle opposizioni che erano insorte a non fargli fare professione, visto il malo stato di sua salute).
Mamma Addolorata mi diede a patrocinio sì dolce padre, ed altri ancora che l’hanno seguito nel proteggermi. Tutto sia a gloria di Gesù e Maria.
Gaudio grande sia in tutta la famiglia, poiché grandi sono le grazie a me compartite. Io non sono più vostro, l’olocausto è tutto consumato, né a Lei resta che la gioia di dire: ho dato un figlio a S. Alfonso, un figlio solo di Gesù Cristo…
Replico i saluti a zia Maria Crocifissa… e dopo gli abbracci a fratelli e sorelle, passo a baciarle rispettosamente la destra quale bacio colle dolci lacrime della gioia».
Direzione:
A sua Reverenza Sig. D. Antonio M. Garaguso, studente della Congregazione del SS. Redentore nel collegio (non già monistero) di Nocera a Pagani.
Da Nocera li 9 genn. 1856
V. Aff.mo e inutilissimo figlio Antonio Maria Garaguso del SS. Redentore.
Tale annunzio produsse nel padre un giubilo oltremodo grande, e la genitrice, che si trovava in Napoli, fu partecipe anche di tal gioia.
Quand’ecco, passati pochi mesi, fu annunziato al padre come il figlio, non potendo reggere allo spasimo atroce che lo consumava, fu costretto dopo fatta professione a mettersi a letto. Aggravandosi il male, gli fu scritto che fosse andato a rilevarlo per fargli respirare l’aria nativa.
Fu mandato a prenderlo, ma nello strapazzo e malore che lo tormentava, a malapena giunse vivo in Potenza, ove per la rigidezza del tempo invernale ebbe a trattenersi in locanda per tre giorni, nei quali continuamente, stando in letto col Crocifisso abbracciato e con fare assidue orazioni, era l’ammirazione della locandiera, e degli amici che lo visitavano e ne rimanevano edificati.
Abbonaccciato alquanto il tempo, e sostenendosi a malapena, si alzò dal letto, si vestì a stento, e salì nella lettiga, e in essa richiuso, arrivò a casa semivivo.
Prima che fosse arrivato, mandò a dire che niuna donna, principiando dalle sorelle, lo avesse abbracciato, perché così ammetteva la Regola, fu con suo compiacimento il tutto eseguito.
Uscito dalla lettiga, che si trasportò sino nella stanza per lui preparata, si adagiò a malapena su di una sedia, e con gli occhi bassi, insinuò alla moltitudine della gente che si trovava, che avessero baciato il Crocifisso che portava addosso perché con ciò avrebbero guadagnato le indulgenze.
Dietro di ciò, dopo pochi minuti, domandò in favore che restasse con lui solo suo padre in camera per spogliarsi e mettersi a letto, serbando un inesprimibile pudore.
Quali siano stati i suoi discorsi durante i due mesi di sua malattia in famiglia, ognuno lo può attestare: egli sembrava il ritratto di S. Luigi Gonzaga, e di esso ne faceva i colloqui: non parlava di altro che di Dio, della sua Avvocata, che continuamente chiamava «Mamma Addolorata» e dei Santi; ad ognuno che lo visitava faceva delle esortazioni ad amare Dio, e lasciare le vanità di questo mondo.
Tutto il paese concorse a visitarlo, e tutti ne rimanevano estatici per tanta santità, e cosi assennato ed edificante parlare.
Il Sac. D. Giuseppe D’Aquino particolarmente non ne poteva serrar bocca. In una parola era cotanto la saggezza delle sue parlate, la compostezza del suo volto, e la pazienza in sopportare i dolori che lo tormentavano che si poteva dire il vero Giobbe.
Molte furono le devozioni che distribuì di figure di Santi a galantuomini, a gentildonne, e dava anche abitini, reliquie ecc. e nel regalarle insinuava ad aver prima fiducia nella protezione dei Santi, e comportarsi in modo da meritare la benevolenza e patrocinio degli stessi.
Il grido di tanta buona riuscita si sparse per tutto il paese, e s’intese l’elogio generale.
Trovava tutta la massima sua soddisfazione allorché sfogava con suo padre l’amore che dimostrava alla sua Mamma Addolorata, e lo pregava ad essere attaccato a questa devozione più di ogni altra, e gli rappresentava gli effetti della bontà di tale nostra Avvocata a chi di cuore ad essa si raccomandava.
Dietro essere stato logorato costantemente dai dolori più acerbi per circa due mesi, la sera del 31 maggio, il primo giorno della tredicina di S. Antonio e la vigilia della Madonna dei dolori sua Avvocata, dopo essersi licenziato da D. Chiarina D’Aquino, madre del suo compagno D. Michele Arcangelo De Stefano, che profetizzò di non poter più vedere, chiamò suo padre e gli fece conoscere che veniva oppresso da un affanno e soprafiato inusitato.
Dopo essersi varie volte confessato e comunicato con incantata circospezione e devozione, e finalmente ricevuta la estrema unzione, rivolti gli occhi al cielo spirò vicino al suo assistente D. Giuseppe D’Aquino ed in braccio a sua zia D. Maria Crocifissa, ad un’ora di notte, a 31 maggio 1856.
Nel giorno seguente, vestito di zimarra cotta e berretta in testa, e con il suo Crocifisso in mano fu situato nel feretro, ove cotanto era la sua altezza, che quasi oltrepassava la lunghezza di esso, sembrando un vero gigante che fu di meraviglia ad ognuno.
Tutto il popolo accorse alla funzione funebre, e l’Arciprete D. Nicola D’Aquino recitò l’orazione funebre. Il feretro fu accompagnato processionalmente da tutti i preti, monaci e fratelli della congregazione del SS. Sacramento, nonché da tutto il popolo che sembrava fosse stata una gran festività.
Non vi fu persona indifferente che non piangesse: al solo vederlo a guisa di un Santo quasicché avesse dormito, attirava le lacrime di ognuno.
Appena morto esalò un odore soave che continuò sino all’uscita di casa.
Il suo corpo fu riposto in un tumulo, fatto formare nel camposanto là per là.
Egli già riposa in pace nel consorzio dei Santi in Paradiso e prega per la salvazione delle anime nostre.
Anzi, 2 luglio 1856 Vincenzo
Restituisco il manoscritto alla vedova Mazzei D. Rosina Asmundis in Anzi.
Nel libro delle Messe in Pagani si legge così:
«Questo nostro studente aveva pochi mesi di professione, ma molti meriti pel Cielo, mentre fu sempre di vita irreprensibile, e tale si mantenne sino agli ultimi momenti di sua vita con generale edificazione di tutta la sua patria di Anzi, dove si ritrovava per mutazione di aria.
Morì nel 31 maggio 1856».
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Profilo tratto da Biografie manoscritte
del P. S. Schiavone –
vol.2 Pagani, Archivio Provinciale Redentorista.
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