33 – Il servo di Dio Felice Cancer
di P. Claudio Benedetti, 1903 – traduzione di P. Antonio Panariello, 1998.
Le date ufficiali
dal Catalogus Sodalium.
- Nascita = 09-giu-1740
- Morte = 07-lug-1759
- Professione = 17-lug-1757
Il profilo (le date sono state conformate a quelle ufficiali)
Sulle rive del Tanagro, tra il territorio di Salerno e della Lucania, sorge una città popolosa di nome Polla, che si vanta di aver dato i natali al servo di Dio Felice Cancer il 9 giugno 1740 e che morì precocemente il 7 luglio 1759, perché il male non cambiasse la sua anima. Morì in una tale innocenza di vita, in tale splendore di virtù e di fama di santità da lasciare ai posteri un’acuta nostalgia della sua persona.
Appena cominciò a parlare, apprese con prontezza le conoscenze basiche delle lettere e della fede. A quattro anni cominciò a frequentare la scuola pubblica. Un volta il maestro trovò il bambino che piangeva; chiestone il motivo, venne a sapere che Felice si dispiaceva molto per non essere pronto ad apprendere le discipline insegnate ai ragazzi più grandi. Di qui fu chiaro quanta voglia avesse il bambino di imparare e quanto sforzo vi impiegasse.
Né il passare del tempo placò in lui l’amore per il sapere: a sei anni, infatti ogni giorno si recava dallo stesso maestro che leggeva a numerosi ascoltatori le pagine del Vecchio Testamento. Perciò cominciò ad onorare ed ammirare in modo particolare il patriarca Abramo e volle che al fratello neonato fosse imposto questo nome: i genitori glielo accordarono.
A dieci anni con il permesso dell’abate di Cava, alla cui potestà era soggetto, indossò l’abito ecclesiastico e, tre anni dopo, durante i quali aveva prestato servizio nella parrocchia, superato con il plauso del Vescovo e della sua commissione l’esame di cultura, ricevette la tonsura e 4 ordini minori. Dai dodici ai sedici anni, conoscendo già bene la grammatica, la poesia, studiò le lettere umanistiche con tanta passione che ancora adolescente, era bravissimo a scrivere discorsi, comporre poesie, spiegare le opere classiche di autori sacri e profani attirandosi l’ammirazione di tutti.
Frattanto poneva ogni cura nel non macchiare la sua innocenza con il peccato, neppure il più piccolo. Infatti si teneva lontano dai pericoli e fuggiva l’ozio: dominava le tentazioni della carne con l’uso di un cibo parco, di digiuni, di letto duro e veglie; si difendeva contro gli assalti dei demoni con la frequenza dei Sacramenti, con la meditazione, con la preghiera continua e con altri esercizi di pietà soprattuttola Via Crucis.Onorava particolarmentela Madredi Dio, per ottenerne il forte ed efficace aiuto: in suo onore frequentava novene, praticava digiuni e frequentava la messa; osservò l’abitudine di recitare sempre, ogni giorno, l’ufficio dei Sette Dolori. Spesso, svegliandosi nel cuore della notte, passeggiava sul terrazzo di casa e, rivolto verso una chiesa di campagna dedicata alla Madonna di Loreto, faceva inchini con la testa e innalzava ferventi preghiere.
Durante la quaresima del 1754 attraverso la predicazione di un oratore sacro fu illuminato da Dio al punto che, messi da parte i miti dei poeti, si incamminò in una vita più santa e l’osservò fedelmente: si distingueva per una maggiore frequenza dei Sacramenti, per la preghiera continua e il disprezzo di sé, per le penitenze sempre più dure.
Alla morte del padre, verificatasi il 5 gennaio 1755, dimostrò una tale indifferenza per ciò che è terreno che tutti se ne meravigliavano. Infatti, mentre l’intera casa era immersa nel dolore, egli in chiesa, presente il cadavere, serviva i sacerdoti che celebravano per il defunto. E alla madre, che si era lamentata di ciò, rispose: “Bisogna piangere, quando l’anima si separa da Dio, non dal prossimo”.
Intanto, quanto più alimentava la pietà, tanto più desiderava entrare in un istituto religioso. All’inizio del 1756 leggeva il famoso libricino di S. Alfonso “Visite al SS. Sacramento e Maria SS., e restò colpito dalla famosa espressione che il Santo Dottore rivolge al lettore. “Te felice, se, lasciato il mondo, con una prontezza maggiore della mia, ti consacrerai tutto a Dio, perché tutto Egli si è dato a te”.
Ne fu così turbato che, senza indugio, il 3 Maggio 1756, scrisse al Santo una lunga lettera di ancora si ammirano i sentimenti e l’eleganza: «Ebbene, mi sono alzato alla voce delle tue raccomandazioni e sono così desideroso di godere della tua presenza e di ubbidire ai tuoi insegnamenti che, sfuggendo i travagli del mondo, ho intenzione di arrivare alla tranquillità del chiostro, cioè alla nave sicura della tua nascente congregazione. Già da due anni e più lo desidero ardentemente e nel mio animo accarezzo il progetto».
Quindi, esposta la circostanza che gli aveva offerto l’opportunità di chiedere l’ammissione al nostro istituto, così continua: «Dio mi ha chiamato; ho esultato per la gioia, nella speranza di vedere coronato da successo la richiesta della mia anima. Non troverò pace finché non sarò venuto; anche se il mondo andrà in rovina, io senza paura ne sopporterò il crollo. Non c’è nessun ostacolo. Mia madre mi dice “Ti do il permesso, non ti ostacolo, non sollevo obiezione”. Mio padre è morto un anno fa. E io sono un accolito, di nome Felice Cancer, nato a Polla, dell’età di circa 16 anni, li compirò infatti il 9 giugno. Sin dalla fanciullezza mi sono compiaciuto della grammatica; poi, ormai adolescente, poiché mi riusciva facile scrivere versi in latino, composi poesie e, rifuggendo le favole vuote dei poeti, decisi di dedicarmi con ogni sforzo alla retorica. Che dire di più? Mi dedicai agli studi letterari più dotti, desiderando averne il petto pieno».
Espressi candidamente questi pensieri, conclude: «Verrò, anzi correrò, mi sottoporrò a te, Pastore generoso, non rifiutare una pecora tenera, ma accoglila con l’affetto con cui ami la salute delle anime, l’onore di Dio, la gloria e l’esaltazione del suo nome».
Fu accontentato e il 21 maggio giunse a Pagani dove, il 26 luglio, indossò il sacro abito. A quale stretta osservanza delle regole, a quale pratica di tutte le virtù, a quale tensione spirituale si sottopose durante il periodo del noviziato, lo si può dedurre da quanto si è detto prima.
Merita particolare menzione la sua devozione versola Vergine Maria. Infatti non usciva e non entrava mai nella sua cella, senza chiedere la benedizione della sua dolcissima Signora; a ogni rintocco dell’orologio recitava la preghiera dell’Angelo: in suo onore il sabato lavava i piatti; inginocchiato nella sua cappella baciava più volte il pavimento.
Professò i voti il 17 luglio 1757 e fu inviato a Ciorani per attendere agli studi di filosofia. Purtroppo, sia per lo sforzo di apprendere la filosofia, sia per le eccessive penitenze, cominciò ad ammalarsi. Allora egli, presagendo la sua morte prematura, compose le poesie che ci piace riportare in seguito (1).
Nel 1758 Felice era arrivato ad un tale grado di santità che, spinto da immenso amore per Dio e per il prossimo, con il permesso del Superiore Generale, emise il voto di andare tra gli infedeli. Il 28 ottobre, perciò, scrisse a S. Alfonso, manifestandogli i motivi della sua richiesta e sollecitandolo a dare l’autorizzazione: «In ginocchio davanti a te, con tutto il cuore; con piena sincerità ti supplico di non privarmi di così grande grazia. Per il tuo amore verso Gesù e Maria fa’ che io sia inserito nel gruppo di coloro, che, con il tuo permesso, andranno tra gli infedeli».
Ma, aggravandosi la malattia, capì di essere chiamato piuttosto alla patria del cielo. A questo traguardo si preparò fisicamente e spiritualmente. Così, il 7 luglio 1759; stretto al Crocifisso e con lo sguardo rivolto ad un’immagine della Vergine, con il volto illuminato da un sorriso, si addormentò serenamente nel Signore.
La fama della sua santità perdura a distanza di anni; oggi ancora si ricorda ciò che i suoi confessori testimoniavano che egli portò in cielo pura la stola dell’innocenza.
Poesia in latino di Felice Cancer nel presagio della sua morte immatura.
Jam perit autumnus, jam lucem vincere noctes
incipiunt: pluvias ultima libra ciet.
Maturas prorsus jam legit rusticus uvas
jamque rubent pressis ebria praela botris.
Aspicis impubes non amplius ire comestum
uvas, nec ficus quaerere quasque manu.
Sic abeunt anni, volat irrevocabile tempus,
sic cito vita fugit, mors properata subit.
Sic etiam mundi claudetur scena, voluptas,
fastus, avarities sic abitura simul.
Ergo creaturis nolis incautus abuti:
res omnes clamant: accipe, redde, time!
Traduzione di P. A. Panariello
Ormai muore l’autunno; ormai la notte
è più lunga del giorno; arrivano le piogge.
Il contadino raccoglie ormai, l’uva matura
e i tini ribollono per l’uva pigiata.
Vedi, i fanciulli non vanno più a strappare
grappoli né a cercare i fichi.
Così volano gli anni, il tempo che non torna;
così vola la vita, svelta arriva la morte.
Così passerà la scena del mondo, i suoi piaceri,
i suoi trionfi e, ancora, passerà la cupidigia.
Perciò non affezionarti, imprudente, alle creature;
tutto urla: prendi restituisci, abbi paura!