34. Fede vissuta
Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere? (Gc 2,14).
Per salvarsi non basta credere, ma bisogna anche vivere secondo quanto la fede c’insegna. Il grande Pico della Mirandola scrisse: “E’ certamente una grande stoltezza non credere al Vangelo, ma è una stoltezza ancora più grande vivere come se esso non fosse vero” (1).
Quella degli increduli, che chiudono gli occhi per non vedere il precipizio che hanno davanti, è una pazzia; ma una pazzia maggiore è quella dei fedeli che vedono il precipizio e vi si gettano dentro ad occhi aperti. Se, dunque, è stolto chi, dopo tante prove così chiare della verità della nostra fede cattolica, non vuol credervi, molto più stolto è chi crede, e poi vive come se non vi credesse.
Scrive san Giacomo: Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere? (Gc 2,14). Per questo esorta san Bernardo: “La prova della tua fede sia la tua vita”. La buona vita del credente mostra che la sua fede è vera. Altrimenti, aggiunge il Santo, “se confessi di conoscere Dio, ma nei fatti lo neghi, hai dato la lingua a Cristo e l’anima al diavolo”. Non è fede viva, ma un cadavere di fede quella che non è accompagnata dalle opere: La fede, senza le opere, è morta (Gc 2,17).
L’uomo che non compie alcuna azione, non pensa, non parla e non respira, significa che è morto. Così la fede che non produce opere di vita eterna, significa che è morta. E come il corpo, senza l’anima, rimane corpo ma non può compiere opere di vita, così la fede, senza la carità, resta fede, ma non può compiere opere meritorie di salvezza eterna.
Molti credono, sì, nelle verità speculative della fede, che riguardano l’intelletto; ma pochi sono quelli che dimostrano di credere nelle verità pratiche, che investono la volontà e i costumi. Invece bisogna ritenere come certe e infallibili sia le une che le altre, perché entrambe ci vengono insegnate dallo stesso Vangelo. Chi nega le verità della fede con la bocca è un eretico nelle parole; ma chi non vive secondo le verità della fede può dirsi eretico nei fatti. Pertanto, come crediamo nei misteri della santissima Trinità, della incarnazione del Verbo e simili, così bisogna che crediamo anche alle parole di Gesù Cristo.
Per questo san Paolo scrive ai suoi discepoli: Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova (2Cor 13,5). Gesù dice: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3). Perciò colui che, essendo povero, si ritiene infelice e arriva talvolta a lamentarsi della Provvidenza divina, costui non può dirsi vero credente. Il vero credente considera sua ricchezza e felicità non già i beni del mondo, ma soltanto la grazia divina e la salvezza eterna. […]
Gesù dice: Beati gli operatori di pace; beati gli afflitti; beati i perseguitati per causa della giustizia: Vale a dire: Beati quelli che perdonano le ingiurie, quelli che si mortificano, che accettano in pace le malattie, le perdite e le altre prove della vita; beati quelli che, per non peccare o a causa delle opere che fanno per la gloria di Dio, sono perseguitati. Dunque chi stima disonore il perdonare; chi non pensa ad altro che a fare una vita gaudente, accontentando i sensi senza riserve, e stima infelici coloro che si privano dei piaceri terreni e mortificano la carne; chi, per rispetto umano e per non essere preso in giro, lascia la frequenza ai sacramenti, il raccoglimento, e si dissipa nelle conversazioni, nei banchetti, nei divertimenti, costui non può dirsi che abbia una vera fede.
(da Evidenze della Fede, IX).
[1] Giovanni Pico, già nominato nella meditazione precedente, era conte di Mirandola e Concordia (1463-1494). Filosofo e grande umanista, studioso di Aristotele e di Platone, era convinto che “la filosofia cerca la verità, la teologia la trova, la religione la possiede” (Epistolario, I, 6). Ci ha lasciato: De hominis dignitate, De ente et uno e altri scritti.