Essere Chiesa con gli abbandonati 4/5
4. In cammino di liberazione e di crescita
S. Alfonso indica concretamente le possibilità dell’uomo ferito dal peccato.
- 1. Più forti del male
- 2. Non far pace con i difetti
- 3. Fuggire le occasioni di peccato
1. Più forti del male
Oggi parlare di peccato è fuori moda. Chi prova a farlo, rischia di passare per gente ormai sorpassata. Eppure tocchiamo continuamente con mano quanto sia forte il potere del male intorno a noi e sappiamo bene che ne diventiamo tante volte complici e allo stesso tempo vittime nelle scelte quotidiane. Riconosciamo tutto questo, ma siamo pronti a scaricarcene la responsabilità, addossandola sugli altri, sulle situazioni, sulla società. Anche quando operiamo il male, abbiamo sempre pronta una scusa per sentirci innocenti.
Tutto questo non aiuta a comprendere e costruire insieme l’ autentica dignità dell’uomo. Ci fa dimenticare il rischio e la minaccia da sempre presenti nella storia e perciò li rende ancora più forti. «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, ricorda il Concilio Vaticano II, l’uomo, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia umana abusò della libertà sua, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio… Così l’ uomo si trova in se stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre» (1). Diventiamo anche incapaci di dare una risposta valida alla domanda sul perché del male: una domanda che è impossibile eludere del tutto. Quando però ci trova impreparati, finisce con il travolgerci o ci spinge a “fughe” illusorie.
Alla radice dell’appannamento o della perdita del senso del peccato (il peccato più grave del nostro tempo, come osservava già Pio XII), c’è il fatto che abbiamo allontanato Dio dalle nostre scelte, dimenticando che la nostra storia è anche la sua storia: la storia del suo donarsi a noi come speranza e come pienezza.
Tutto questo però ha come conseguenza che il potere del male si rinforza, in noi e intorno a noi. Rifiutando aprioristicamente ogni responsabilità personale e soprattutto chiudendoci al dono di liberazione e di perdono che il Cristo ci offre, finiamo con l’ arrenderci al potere del male, schiacciati dall’esperienza della limitatezza delle nostre forze. Fino al punto da legittimare socialmente anche ciò che in nessun caso andrebbe legittimato o da chiamare bene ciò che invece è solo negazione e chiusura al bene.
La forte denunzia di Giovanni Paolo II a questo riguardo dovrebbe far riflettere ognuno di noi: «Larghi strati dell’opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l’impunità, ma persino l’autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l’intervento gratuito delle strutture sanitarie» (2).
Parlare di peccato, quando lo si fa correttamente nella luce della misericordia sanante e liberante del Redentore, è affermare con forza che il male non è più forte di noi. Possiamo sconfiggerlo, possiamo liberarcene, possiamo evitarlo.
La proposta morale di Alfonso si muove in queste prospettive. In essa è presente un forte senso del peccato in tutta la sua assurdità: « Il peccatore, scrive nella Via della salute, quando sta deliberando di dare o negare il consenso al peccato, allora per così dire prende in mano la bilancia e si mette a vedere, se vale più la grazia di Dio, o quello sfogo d’ira, quell’interesse, quel diletto. Quando poi dà il consenso alla tentazione, allora che fa? Allora dice che vale più quel misero piacere, che non vale la grazia di Dio. Ecco dunque com’egli disonora Dio, dichiarando col suo consenso che vale più quel misero piacere, che non vale l’ amicizia divina» (3).
Il peccato però per Alfonso deve essere sempre illuminato e aperto dalla certezza della misericordia divina. Stralcio della Pratica di amar Gesù Cristo: « Se abbiamo noi gran motivi di temere la morte eterna per causa delle offese fatte a Dio, abbiamo all’incontro motivi assai più grandi di sperare la vita eterna ne’ meriti di Gesù Cristo, i quali sono di valore infinitamente maggiore a salvarci, di quel che valgano i nostri peccati a farci perdere» (4).
Coerentemente con l’impostazione di fondo del suo pensiero, anche il discorso sul peccato è segnato dalla speranza: non tende a una colpevolizzazione chiusa in se stessa, ma a far crescere il desiderio sincero del suo superamento. Ricorda perciò al confessore: «E’ necessario che con maggior calore faccia conoscere al penitente la gravezza e moltitudine de’ suoi peccati e lo stato miserabile di dannazione in cui si trova; ma sempre con carità». E se a volte per scuoterlo occorre «servirsi di parole più gravi», deve fare in modo che il penitente possa «conoscere che tutto ciò che gli dice, non nasce da sdegno, ma da affetto di carità e di compassione» (5).
Per questo, pur essendo molto deciso nella denunzia di tutte le forme di peccato, Alfonso è altrettanto critico verso coloro che ne estendono indebitamente le casistiche. Soprattutto invita a non perdere mai di vista che ciò che più conta è il restare in leale tensione di liberazione e di superamento nei riguardi di tutto ciò che è additato come male dalla coscienza (peccato formale). Raccomanda perciò al confessore: «si deve maggiormente evitare il pericolo del peccato formale che del materiale, mentre Dio solamente il formale punisce, poiché da questo solo si reputa offeso». Fare diversamente significherebbe moltiplicare i «lacci» che bloccano nel cammino di liberazione e di crescita (6).
Radicato nella memoria, continuamente rinnovata dell’amore misericordioso del Cristo, il senso del peccato si trasforma in certezza della possibilità di vittoria sul male. Sono frequenti negli scritti alfonsiani espressioni come le seguenti: «Mio Dio, e come tante volte io ho potuto aver l’animo per beni così vili di disprezzare voi, che m’avete lento amato? Ma guardate, mio Redentore, che ora v’amo sopra ogni cosa, e perché v’amo, sento più pena d’aver perduto voi, mio Dio che s’io avessi perduti tutti i miei beni ed anche la vita… Fatemi prima morire, ch’io di nuovo abbi ad offendervi… Gesù mio, il sangue vostro è la speranza mia» (7).
E’ una certezza alla quale Maria dà ulteriore fiducia: chi si rivolge a lei con «buona intenzione», anche se carico dei più gravi peccati, «ella l’ abbraccia, e non isdegna l’amantissima madre di sanargli tutte le piaghe che porta nell’anima; poich’ ella non solamente è da noi chiamata la madre della misericordia, ma veramente è tale, e tale si fa conoscere con l’amore e tenerezza con cui ci sovviene» (8).
2. Non far pace con i difetti
Evitare il peccato è fondamentale, ma non può bastare al credente. E’ solo il primo passo di un cammino nel bene proteso verso la pienezza stessa di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48); «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro (Le 6,36). E’ tale la potenzialità della “vita nuova”, ricevuta nel battesimo, che ridurla solo all’evitare il peccato mortale è come soffocarla.
La vita cristiana si ispira non alla morale del minimo, ma a quella della vocazione alla santità, della testimonianza coerente, delle beatitudini che attirano sempre in avanti. Commettiamo un grave errore, non solo pedagogico, quando insistiamo tanto su ciò che non bisogna operare da far perdere il gusto del bene da compiere e la prospettiva della santità, alla cui luce i comandamenti acquistano il significato autentico.
«Chi vive “secondo la carne”, ricorda Giovanni Paolo II, sente la legge di Dio come un peso, anzi come una negazione o comunque una restrizione della propria libertà. Chi, invece, è animato dall’amore e “cammina secondo lo Spirito” (Gal 5, 1 6) e desidera servire gli altri trova nella legge di Dio la via fondamentale e necessaria per praticare l’ amore liberamente scelto e vissuto. Anzi, egli avverte l’urgenza interiore ‑ una vera e propria “necessità”, e non già una costrizione ‑ di non fermarsi alle esigenze minime della legge, ma di viverle nella loro “pienezza”. È un cammino ancora incerto e fragile fin che siamo sulla terra, ma reso possibile dalla grazia che ci dona di possedere la piena libertà dei figli di Dio (cf. Rm 8,21) e quindi di rispondere nella vita morale alla sublime vocazione di essere “figli nel Figlio”» (9).
Sant’Alfonso non si stanca di insistere sulla possibilità e la gioia della tensione alla santità per tutti, a cominciare dai poveri e dagli abbandonati. Lo abbiamo già ascoltato ripeterci: «E’ un grande errore quel che dicono alcuni: Dio non vuol tutti santi. No, dice S. Paolo: Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione (1Ts 4,3). Iddio vuol tutti santi, ed ognuno nello stato suo, il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante da mercadante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato» (10).
Sul suo letto di morte, una delle ultime gioie è proprio quella di ascoltare che le Cappelle serotine a Napoli continuavano a promuovere la santità tra gli umili «e vi si veggono ancora de’ cocchieri santi. Cocchieri santi a Napoli, riprese Alfonso con esultanza, Gloria Patri… voi l’ avete inteso… Gloria Patri, cocchieri santi a Napoli» (11).
E’ costante perciò negli scritti alfonsiani il richiamo a tutti i responsabili della formazione delle coscienze perché le aprano e le sostengano nella tensione alla pienezza del bene. Nella Pratica del confessore gli ricorda: «non solo deve sradicare i vizi da’ suoi penitenti, ma deve anche in essi piantare le virtù». Perciò quando vede che il penitente «vive lontano da’ peccati mortali, deve far quanto può per introdurlo nella via della perfezione e del divino amore con rappresentargli il merito che ha Dio, questo infinito Amabile, per essere amato, e la gratitudine che dobbiamo a Gesù il quale ci ha amato sino a morire per noi; e `l pericolo inoltre in cui sono l’anime che sono chiamate da Dio a vita più perfetta, e fari le sorde» (12).
La ragione di fondo sta nel fatto che « la carità ama la perfezione, per conseguenza abborrisce la tiepidezza colla quale servono taluni a Dio con gran pericolo di perdere la carità,la divina grazia, l’anima e tutto» (13).
Dopo il Concilio Vaticano II è cresciuta nella comunità cristiana la consapevolezza della universale chiamata alla santità. Lumen gentium non esitava infatti ad affermare: «Nei vari generi di vita e nella varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adorando in spirito di verità Dio Padre, seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria». E aggiungeva: «Tutti i fedeli nelle loro condizioni di vita, nei loro lavori o circostanze, e per mezzo di tutte queste cose, saranno ogni giorno più santificati se tutto prendono con fede dalla mano del Padre celeste, e cooperano con la volontà divina, manifestando a tutti nello stesso servizio temporale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo» (14).
E’ indispensabile a questo fine un’attenzione costante, dettata dall’amore, a cogliere tutte le possibilità di bene che nelle diverse circostanze della vita si presentano: la preoccupazione cioè a non far pace con i propri difetti e limiti. Alfonso al riguardo è deciso: «Taluni fan pace co’ difetti ‑scrive nella Pratica di amar Gesù Cristo ‑ e quindi avviene la loro ruina; specialmente quando il difetto è con attacco di qualche passione di stima propria, di voler comparire, di accumular danari, di rancore verso alcun prossimo o di affezione disordinata con persona di diverso sesso. Allora vi è gran pericolo che i capelli diventino per quell’anima, come diceva S. Francesco d’Assisi, catene che la tirano all’inferno… L’uccello quando è sciolto da ogni laccio subito vola: l’ anima quando si è sciolta da ogni attacco terreno, subito vola a Dio; ma se sta ligata, ogni filo basterà ad impedirle il camminare a Dio» (15).
Analoghe le affermazioni del Regolamento di vita di un cristiano: «Vivono in gran pericolo quell’anime che non fan conto de’ peccati veniali, e si abbandonano alla tiepidezza, senza il pensiero di liberarsene… i peccati veniali deliberati da una parte indeboliscono l’anima, dall’altra parte fan mancare gli aiuti divini». A costoro, soprattutto quando è presente «attacco di passione», è facile che accada «come a’ giocatori, che facendo molte perdite, all’ultimo dicono: “Vada tutto”, e finiscono di perdere quanto hanno. Povera quell’anima, che sta ligata da qualche passione; la passione accieca e non ci fa vedere più quel che facciamo» (16).
La tensione a evitare anche i difetti va sempre attuata in un clima di fiducia e di sano realismo, che permettono di distinguere la tiepidezza evitabile da quella inevitabile. Da quest’ultima «non sono esenti neppure i santi» e «comprende tutti i difetti che da noi si commettono senza piena volontà, ma solo per la nostra fragilità naturale» (17). La tiepidezza invece che «impedisce la perfezione è la tiepidezza evitabile, quando taluno commette peccati veniali deliberati; poiché tutte queste colpe commesse ad occhi aperti ben possono con la divina grazia evitarsi anche nello stato presente» (18).
3. Fuggire le occasioni di peccato
La complessità, sempre più accentuata, della nostra società chiede a chiunque vuole operare il bene di riscoprire la virtù della prudenza, soprattutto come capacità di lettura critica delle situazioni e dei contesti in cui vive e opera.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, ricollegandosi alla tradizione teologico‑morale, sottolinea che la prudenza è < la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo». Perciò non va confusa «con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione… Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare» (19).
La vera prudenza non è immobilismo dettato da timore, ricerca di compromessi ingiustificati o perbenistica copertura del desiderio egoistico di non essere scomodati. E’ invece ricerca appassionata della modalità migliore per incidere sui tanti fattori e processi che costituiscono il tessuto della nostra vita. E’ lettura attenta delle situazioni per individuare in esse le effettive possibilità di bene e gli immancabili rischi di male e di peccato, in maniera da suggerire gli atteggiamenti più opportuni.
Nei riguardi delle occasioni di peccato sant’Alfonso è particolarmente deciso: «Bisogna persuadersi, scrive nel Regolamento di vita di un cristiano, che per conseguire la salute eterna non basta il voler salvarsi, ma bisogna prendere i mezzi che ci ha lasciati Gesù Cristo». Il primo mezzo è la fuga delle occasioni: « La prima cosa che dobbiamo fare per salvarci è di allontanarci dalle male occasioni e da’ cattivi compagni. Ed in ciò bisogna che ci facciamo forza e risolutamente vinciamo ogni rispetto umano. Chi non si fa forza, non si salva. E’ vero che non dobbiamo metter confidenza alle nostre forze, ma solamente al divino aiuto; ma vuole Dio che anche noi ci mettiamo la parte nostra di farci violenza, quanto bisogna per guadagnarci il paradiso». Questo perché «l’occasione è come una benda, che si mette avanti gli occhi e non ci fa veder più niente, né Dio, né inferno, né propositi santi… E così è moralmente impossibile mettersi volontariamente all’occasione e non cadere, benché siansi fatti mille propositi e mille promesse a Dio» (20).
Ricordava perciò ai confessori: « E’ certo che se gli uomini attendessero a fuggire le occasioni, si eviterebbe la maggior parte de’ peccati. II demonio senza l’occasione poco guadagna, ma quando l’uomo volontariamente si mette nell’occasione prossima, per lo più e quasi sempre il nemico vince. L’occasione, specialmente in materia di piaceri sensuali, è come una rete che tira al peccato ed insieme accieca la mente, sì che l’uomo fa il male senza quasi vedere quel che fa» (21).
Alfonso sa bene che evitare ogni sorta di occasione di peccato è praticamente impossibile per chi vive nella storia e vuole costruire storia. Di qui le distinzioni che si preoccupa di precisare: «L’occasione primieramente si divide in volontaria e necessaria. La volontaria è quella che facilmente può fuggirsi; la necessaria quella che non può evitarsi senza danno grave o senza scandalo. Per secondo, si divide in prossima e rimota. La rimota è quella in cui l’uomo di rado pecca, oppure quella che da per tutto si ritrova. La prossima… è quella nella quale gli uomini comunemente per lo più cadono». Tutto questo però va sempre visto alla luce della maturità delle singole persone: «Siccome alle volte l’occasione, che a rispetto d’altri comunemente è prossima, a rispetto poi d’alcuno molto pio e cauto può esser rimota, così al contrario certe occasioni, che per gli altri comunemente sarebbero per sé rimote, saranno forse prossime per alcuno il quale, per le tante ricadute fatte e per l’inclinazione a qualche vizio (specialmente se disonesto), si sarà renduto molto debole e facile a cadere» (22).
Maturare questa capacità di rendere “remote” le occasioni “prossime” ma moralmente necessarie è essenziale soprattutto nel nostro contesto. Indispensabili per questa crescita sono per Alfonso la preghiera e la fiducia: «Sebbene ognuno è tenuto a togliersi dal prossimo pericolo di peccare… quando l’occasione è moralmente necessaria, allora il pericolo per mezzo de’ rimedi opportuni diventa rimoto e Dio allora non manca d’assistere colla sua grazia a chi veramente è risoluto di non più offenderlo» (23).
Una tale maturità permette non solo di non essere schiacciati dalle situazioni a rischio in cui è necessario essere presenti, ma di viverle facendo regredire la forza del peccato e estendendo ulteriormente la forza di liberazione e di risurrezione del Cristo. Il contesto nel quale oggi viviamo rende tutto ciò ancora più urgente. Siamo infatti chiamati a un rinnovato impegno di evangelizzazione e di testimonianza vissuto come lievito che deve fermentare ogni cosa.
Tutto questo però sempre con quella consapevolezza e quel sano realismo dettati dalla prudenza, secondo la raccomandazione che Alfonso ripete ai confessori: «Dove si tratta di liberare i penitenti dal peccato formale, deve il confessore avvalersi delle opinioni più benigne, per quanto concede la cristiana prudenza; ma dove le opinioni benigne fan più vicino il pericolo del peccato formale, come appunto avviene in questa maniera delle occasioni prossime, dico essere onninamente conveniente e per lo più necessario che il confessore si avvaglia delle sentenze più rigide; poiché queste più giovano allora alla salvezza delle anime» (24).
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(1) Gaudium et spes, n. 13.
(2) Evangelium vitae, n. 4.
(3) Parte 1, in Opere ascetiche, X, Roma 1968, p. 8.
(4) Cap. III, n. 2, p. 26.
(5) Pratica del confessore…, cap. I, n. 5, p. 784.
(6) Ivi. n. 8, p. 785.
(7) Via della salute…, parte I, p. 8‑9.l
(8) Le Glorie di Maria, cap. 1, § 4, in Opere ascetiche, VI, Roma 1935, 67.
(9) Veritatis splendor, n. 18.
(10) Pratica di amar…, cap. VIII, n. 10, p. 79.
(11) TH. REY‑MERMET, Il Santo del secolo dei Lumi…, p. 821‑822.
(12) Cap. IX, n. 114, p. 816‑817.
(13) Pratica di amar…, cap. VIII, n. 1, p. 73.
(14) N. 41.
(15) Cap. VIII, n. 6, p. 77.
(16) Cap. III, § VII, in Opere ascetiche, X, Roma 1968, p. 317.
(17) Pratica di amar…, cap. VIII, n. 2, p. 73.
(18) Ivi, n. 4, p. 75.
(19) N. 1806.
(20) Cap. I, p. 275‑277.
(21) Istruzione e pratica…, cap. ultimo, § 1, n. 1, p. 612.
(22) Ivi.
(23) Ivi, n. 6, p. 615.
(24) Ivi, n. 7, p. 615.
Ricerca fotografica: Salvatore Brugnano