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Santalfonsoesintorni.it

presenta

opuscolo

Lessico
familiare redentorista
della PGVR
a cura di Alfonso V. Amarante
e Antonio Donato
***
Editrice S. Gerardo 2008

amarante-Donato


Le 57 voci che compongono questo “lessico familiare redentorista di PGVR” nascono da una intuizione del Segretariato Generale della PGVR.
Questo lessico è destinato sia agli animatori (padri e laici) sia ai giovani che respirano la spiritualità redentorista.
Esse non hanno la pretesa di essere esaustive o definitive, circa gli argomenti che trattano, ma vogliono tratteggiare, sinteticamente, alcune parole che ricorrono di sovente nel linguaggio dei padri e degli animatori che lavorano con i giovani.
Le voci sono caratterizzate dalla sintetictà a dall’immediatezza. Non entrano in disquisizioni prettamente “pretesche”, ma vogliono offrire una prima infarinatura dei concetti del mondo redentorista.
Gli autori nell’elaborarle hanno tenuto presente tre costanti: facilità di linguaggio; la spiritualità e la storia della nostra famiglia religiosa.
In un certo senso questo lavoro è un cantiere aperto in quanto all’appello mancano molti vocaboli tipici della nostra storia e tradizione.
Questo lavoro si può considerare di conseguenza come un primo esperimento (da completare e da affinare negli anni) per creare un background comune. Potremmo considerare lo sforzo compiuto per questo lessico come una sorta di enciclopedia wikipedia dove tutti coloro che ne usufruiranno potranno aggiungere nuove voci e migliorare quelle già esistenti.
Roma, 12 marzo 2008
Alfonso V. Amarante – Antonio Donato

- Indice delle Voci

Abbandonati e poveri

Gaspare Stanggassinger

Morte

Redentore

Alfonso Maria de Liguori

Gennaro M. Sarnelli

Musica

Religioso

Animatore

Gerardo Maiella

Natale

Sacerdote redentorista

Basilio Velykovskyj

Giovane

Nicholas Charnetsky

Sequela

Canto

Giovani / giovani adulti

Novissimi

Spiritualità redentorista

Clemente M. Hofbauer

Giovanni N. Neumann

Novizi

Santità

Comunità

Guida spirituale

Orazione Mentale

Teologia morale

Confessione

Incarnazione

Passione

Uniformità Volontà Dio

Coscienza

Ivan Ziatyk

Pasqua

Vita Apostolica

Carisma

Laico

Pietro Donders

Vocazione

Discernimento

Libertà

PGVR

Zelo

Dinamismo apostolico

Madonna Perp. Soccorso

Preghiera

Zenone Kovalyk

Eucaristia

Maria

Postulanti / studenti

 

Formazione Spirituale

Metodij Dominik Trcka

Redentorista

 

Francesco Sav. Seelos

Missione

Responsabilità

 

 

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Abbandonati e poveri  -Ω-
di Sabatino Majorano

L’evangelizzazione degli abbandonati e dei poveri costituisce la ragion d’essere dei Redentoristi. Il fine infatti della Congregazione, come ricordano le Costituzioni fin dall’inizio, è «seguitare l’esempio del nostro Salvatore Gesù Cristo in predicare ai poveri la divina parola, come egli già disse di se stesso: Evangelizare pauperibus misit me» (n. 1).
La spiritualità, la vita fraterna e le stesse strutture dei Redentoristi vogliono essere espressione delle «inequivocabili parole del Vangelo» che indicano nei poveri una «speciale presenza» del Cristo ed esigono perciò dai credenti
«un’opzione preferenziale per loro». Cercano così di testimoniare «lo stile dell’amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia» (of Novo millennio ineunte, n. 49).
«Chi è chiamato alla Congregazione del Santissimo Redentore – scriveva Sant’Alfonso ai giovani Redentoristi – non sarà mai vero seguace di Gesù Cristo né si farà mai santo, se non adempirà il fine della sua vocazione e non avrà lo spirito dell’Istituto ch’è di salvare le anime, e le anime più destituite di aiuti spirituali, come sono le povere genti della campagna» (Opere, vol. IV, Torino 1847, 429430).
Il cammino di fondatore percorso da Alfonso costituisce per tutti i Redentoristi un punto di riferimento fondamentale. Lasciata la carriera forense, fece dell’annunzio del Vangelo il perché della sua vita, dedicandosi al servizio dei poveri e incarnandosi tra gli abbandonati del suo tempo. Divenne così, insieme ai primi compagni, comunità evangelizzatrice tra loro e per loro.
È il cammino che i Redentoristi sono chiamati a percorrere incessantemente: attraverso una lettura evangelica della realtà sociale ed ecclesiale, si impegnano a discernere le situazioni e i contesti di povertà e di abbandono per farsene carico con prontezza fiduciosa. Ne deriva che il loro apostolato è «caratterizzato, più che da alcune forme di attività, dal suo dinamismo missionario, cioè dall’evangelizzazione propriamente detta e dal servizio prestato a quegli uomini e a quei gruppi che sono più abbandonati e poveri, per le condizioni spirituali e sociali» (Costituzioni, n. 14).
Si tratta di situazioni oggettive di povertà e di abbandono dovute a fattori sociali ed ecclesiali che i Redentoristi si impegnano a denunziare con franchezza: «Il mandato di evangelizzare i poveri, affidato alla Congregazione, abbraccia tutta la persona umana che deve essere liberata e salvata. I congregati hanno il dovere di proclamare apertamente il Vangelo, solidarizzare coi poveri, promuovere i loro diritti fondamentali alla giustizia e alla libertà,
usando tutti quei mezzi che sono insieme conformi al Vangelo ed efficaci» (Costituzioni, n. 5).
L’accento è posto sempre sul bisogno di Vangelo. I Redentoristi infatti si sentono inviati in modo speciale a «coloro che non hanno potuto avere ancora dalla Chiesa mezzi sufficienti di salvezza; coloro che non hanno ascoltato mai il suo messaggio, o non lo ascoltano più come “buona novella”; e infine coloro che sono danneggiati dalla divisione della Chiesa» (n. 3). Si pongo perciò nella Chiesa come presenza e stimolo perché sia sempre più fedele al mandato missionario (of. Mt 28,1820).

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Alfonso Maria de Liguori  -Ω-
dal Messale redentorista

Alfonso Maria de Liguori, nacque a Marianella, quartiere di Napoli, il 27 settembre 1696. Primogenito di una famiglia di aristocratici napoletani, compì in casa gli studi letterari e scientifici.
Avviato precocemente alla carriera forense, a 16 anni divenne dottore in diritto civile ed ecclesiastico, e a 20 anni si impose quale brillante avvocato nel foro napoletano.
La svolta della sua vita arrivò nel 1723 quando la perdita di una importante causa lo portò a lasciare i Tribunali per diventare sacerdote. Ordinato il 21 dicembre 1726, intraprese subito un intenso apostolato tra i quartieri poveri di Napoli, con scugnizzi e barboni, impegnandosi particolarmente, con le Cappelle Serotine, nella catechesi e nella formazione morale della gente più semplice. Quale membro delle Apostoliche Missioni si dedicò anche alla predicazione negli altri paesi del Regno di Napoli.
La salute fortemente compromessa dalle fatiche apostoliche lo portò, per riposo, a Santa Maria dei Monti, sull’altopiano di Amalfi, dove venne a contatto con i poveri contadini e pastori privi di ogni assistenza spirituale. Questa esperienza fece nascere nel cuore apostolico di Alfonso il desiderio di fondare un Istituto tutto dedito alla evangelizzazione dei poveri, sparsi nelle campagne e nei paesetti rurali.
Il 9 novembre 1732, a Scala (SA) nacque la Congregazione del Santissimo Redentore. Con i primi compagni Alfonso girò di paese in paese, impegnando i suoi talenti umani e spirituali per la conversione dei peccatori; la preghiera e la predicazione formarono i pilastri della sua attività missionaria. Dove non arrivava con la parola, cercava di arrivare con gli scritti. Le sue 111 opere raggiunsero un numero straordinario di edizioni. Le più importanti sono: La Teologia morale, Del gran mezzo della preghiera, Le massime eterne, Le glorie di Maria, La pratica di amar Gesù Cristo.
Nel 1762 venne nominato vescovo di S. Agata dei Goti, e anche in questo servizio Alfonso trasmise tutto il suo ardore missionario, lavorando soprattutto per la formazione del clero. Nel 1775 lasciò la diocesi e si ritirò a Pagani, dove morì il 1 agosto del 1787, a 91 anni di età.
Venne canonizzato da Gregorio XVI il 26 maggio 1839. Il 23 marzo 1871 Pio IX lo dichiarò Dottore della Chiesa, e il 26 aprile del 1950 Pio XII lo proclamò Patrono dei confessori e dei moralisti.

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Animatore  -Ω-
di Laureano Del Otero

Responsabile della PGVR in una comunità locale o in un gruppo di giovani. È una persona che risponde alla chiamata di Dio annunciando il Vangelo ai giovani, impegnandosi attivamente come rappresentante di pastorale giovanile. Ovviamente, è un cristiano che ha già completato la sua Iniziazione Cristiana. Dopo aver ricevuto il dono dello Spirito Santo per la missione e la testimonianza, sceglie il ministero della Pastorale Giovanile come canale di approfondimento della fede e di costruzione del Regno di Dio. È una scelta personale che arricchisce la vita comunitaria e ecclesiale. Però, allo stesso tempo, è un avvio e una missione che riceve dalla Chiesa, attraverso i responsabili della comunità. La comunità redentorista affianca il suo lavoro pastorale, dopo aver verificato la sua idoneità e dopo avergli affidato questo compito pastorale così specifico.
La missione è quella evangelizzatrice, che annuncia e offre la rivelazione di Dio ai giovani, attraverso l’amore e la dedizione di Cristo, l’amore e la dedizione ai giovani. L’Animatore è una persona entusiasta della propria vocazione verso la missione, innamorata della persona di Gesù Cristo e del suo volto riflesso nei giovani, mandata a evangelizzare i poveri e abbandonati, acculturata sul mondo e sul linguaggio dei giovani, dotata della capacità di camminare affianco a loro, preoccupata della loro formazione e conversione, inserita nella comunità ecclesiale, aperta al futuro con speranza. Questo compito è affidato, innanzitutto, agli stessi giovani e, poi, è animato anche dagli adulti, laici, religiosi e sacerdoti [redentoristi], che li aiutano a realizzarlo.
L’adeguata formazione e capacità dell’Animatore è responsabilità tanto della propria persona chiamata a questo ministero quanto della comunità redentorista, che deve vegliare perché la figura dell’Animatore richiede risorse, conoscenze e abilità necessarie alla missione. Inoltre, è imprescindibile che sia una persona in sintonia con i giovani e con tutti i “giovani”. Esistono costanti – proprie della gioventù – che tutti gli Animatori debbono conoscere affinché l’annuncio di Gesù Cristo sia seme fecondo nella vita dei giovani che incontra: il valore dell’amore, la questione sul senso della vita, la forza attrattiva dei progetti. Riconoscere alla gioventù questo valore e formarli a queste costanti, significa permettere che la passione che sente per la vita non resti un ideale vuoto; significa aiutare il giovane a realizzare pienamente la sua esistenza e a trovare il suo posto nella Chiesa e nella società. In altre parole, significa aiutarlo a scoprire e a vivere la sua vocazione. Identificato con s. Alfonso come modello evangelizzatore, l’Animatore assume con fedeltà creativa la sfida di trovare i mezzi opportuni affinché il giovane, i giovani, si incontrino con il Redentore Risorto. Seguendo la tradizione redentorista, svolge la
sua missione con semplicità e bellezza, convinto che i giovani sono abbandonati in molti ambiti ecclesiali.
La missione dell’Animatore richiede che si realizzi con spirito di comunione, creando vincoli di fraternità con le altre vocazioni e con gli altri animatori, partecipando a organismi comunitari (centri di Pastorale Giovanile e/o vocazionale). Il suo lavoro pastorale, pertanto, non si esaurisce nella propria comunità di origine o di inserimento, giacché, allo stesso tempo, fa parte della PGVR (vice)provinciale, regionale e generale. In questo senso, l’Animatore svolge anche il suo impegno nella Missione Popolare (Parrocchiale) Redentorista, nella Missione Giovane e in altri progetti simili che possono sorgere in diversi ambiti della Congregazione.

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Basilio Velykovskyj  -Ω-
dal Messale redentorista

Vescovo della Chiesa grecocattolica ucraina «clandestina», nacque il 1° giugno 1903 a Stanislaviv (IvanoFrankivsk).
Entrato nel 1920 nel seminario di Lviv, dopo il diaconato fu ammesso nella Congregazione del Santissimo Redentore. Ordinato sacerdote il 9 ottobre 1925, si dedicò per oltre vent’anni alle missioni tra la gente semplice dei villaggi e delle città anche fuori dell’Ucraina Occidentale.
L’11 aprile 1945 venne arrestato insieme alla gerarchia grecocattolica. Condannato inizialmente alla fucilazione, la pena gli fu poi commutata in dieci anni di prigione.
Liberato nel 1955, ritornò a Lviv, dove svolse clandestinamente l’attività pastorale. Nominato Vescovo nel 1959, poté essere consacrato solo nel 1963, a Mosca, in una camera d’albergo. Il 2 gennaio 1969 fu arrestato nuovamente e condannato a tre anni di reclusione, ma venne rilasciato dopo pochi mesi perché malato di cuore.
Il 27 gennaio 1972 le autorità sovietiche non gli permisero di ritornare a Lviv, ma lo invitarono a recarsi dalla sorella in Jugoslavia. Dopo un breve soggiorno in Jugoslavia si recò a Roma dove fu ricevuto da Paolo VI (8 aprile 1972).
Il 15 giugno 1972 andò a Winnipeg in Canada, dove morì il 30 giugno 1973 a seguito di una sostanza velenosa a lento effetto che gli era stata somministrata prima della sua partenza per la Jugoslavia.

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Canto  -Ω-
di Paolo Saturno

Il termine canto è usato in tutte le culture con caratteristiche proprie. Esso è costituito, nella cultura musicale moderna, da melodia e ritmo. Queste due componenti lo diversificano da cultura a cultura.
Sotto il profilo storico il canto si è manifestato prima come espressione sacra legata al culto (egiziani, mesopotamici, ebrei, greci, cristiani) poi come espressione profana (canto popolare, lirico, liederistico, jazzistico, pop, ecc.).
Sotto il profilo vocale e tecnico – almeno nelle culture occidentali – esso è sempre basato sull’appoggio diaframmatico, che ne costituisce la posizione più naturale.
Sotto il profilo dell’emissione, solo il canto lirico e liederistico utilizzano il registro di testa. Gli altri tipi utilizzano prevalentemente il registro di gola o di petto.
La peculiarità di ogni voce, sia umana che di strumento, viene detta timbro, l’estensione altezza, lo spessore intensità.
Il canto è utile a tutti. Non tutti, però, sanno adoperare l’apparato fonico per cantare correttamente. L’incapacità ad intonare in maniera corretta viene indicata con il termine stonatura. Contrariamente a quanto si pensa, lo stonato può essere facilmente educato ad una retta intonazione. Il più delle volte, la causa di tale incapacità non è di ordine fisiologico, ma psicologico. Aiutare un soggetto a superare la difficoltà dell’intonazione, significa quasi sempre aiutarlo a credere di più in se stesso.
Per ben cantare non è indispensabile la conoscenza della musica. Il canto è un fenomeno spontaneo come il parlare, può essere migliorato, però, con lo studio. Si può ben cantare sia conoscendo la musica che ignorandola.
Il canto sacro oggi può essere considerato anche liturgico perché il Concilio Vaticano II (Sacrosanctum Concilium) ne ha in pratica identificato i ruoli. Precedentemente c’era differenza tra canto liturgico (utilizzato esclusivamente nell’ambito della liturgia e il più delle volte con testi estrapolati dalla Liturgia) e canto sacro di uso prevalentemente extra liturgico.
Rapportando questi concetti fondamentali al canto redentorista, si potrebbe affermare che esso – almeno quello alfonsiano o di sua diretta derivazione – è ricco di melodia; è sobrio nel ritmo che non è mai eccessivamente marcato o vivacemente popolare; è di limitata estensione (poco più dell’ottava); è contenuto nella dinamica o intensità; si presta ugualmente bene sia ad una
vocalità garbatamente lirica che a quella elegantemente popolare; è adatto a tutti i timbri vocali; è di facile intonazione; si presta bene sia ad una esecuzione solistica che corale; è utilizzabile sia in contesto liturgico che semplicemente sacro; è eseguibile sia a pure voci che con strumento musicale. Questa maniera è preferibile un po’ per la comodità dell’intonazione e del sostegno, un po’ per la potenzialità polifonicoimitativa più facilmente realizzabile sullo strumento polivoco, quale l’organo, l’armonium o semplice tastiera.

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Clemente Maria Hofbauer  -Ω-
dal Messale redentorista

Nato a Tasswitz in Moravia (Repubblica Ceca) il 26 dicembre 1751, Clemente Maria Hofbauer fu costretto, fin da giovanissimo, a seguito della morte del padre, a lavorare come apprendista fornaio. Divenuto servitore dell’abate premostratense a Klosterbruck (Znaim), poté così seguire la chiamata al sacerdozio compiendo prima gli studi ginnasiali e poi, a Vienna, quelli di catechistica, di filosofia e di teologia.
In questo tempo si recò ogni anno in pellegrinaggio a Roma, dove cercò di entrare in qualche istituto religioso.
Di fatto, il 24 ottobre 1784, con l’amico Taddeo Hübl, fu accolto fra i Redentoristi e ordinato sacerdote ad Alatri il 29 marzo del 1785.
Dopo alcuni mesi di studio trascorsi nella casa di Frosinone, tornò oltr’Alpe, fondando a Varsavia la prima casa redentorista, a cui seguirono altre in Polonia, Curlandia, Germania, Svizzera e Romania, da lui rette in qualità di vicario generale della Congregazione.
A Varsavia, dove visse dal 1787 al 1808, svolse, con la collaborazione di giovani di varie nazionalità, un efficacissimo apostolato, promovendo opere benefiche e rinsaldando la pietà dei fedeli.
Costretto a lasciare Varsavia a causa dell’avanzata delle truppe napoleoniche, pensò di andare in Canada, ma alcuni eventi lo riportarono a Vienna dove operò fino alla morte.
Nel 1813 fu nominato rettore della chiesa delle Orsoline e loro confessore. Da allora con il carisma della direzione spirituale, della predicazione, della confessione e dell’esercizio della carità convertì e assistette gente di ogni classe sociale. Con questa sua attività influenzò il congresso di Vienna, la cultura del suo tempo e tutto il movimento romantico.
Morì a Vienna il 15 Marzo del 1820. Il 19 aprile l’imperatore ammise la Congregazione negli Stati austroungarici, e proprio da Vienna, grazie ad uno dei primi compagni di Clemente, il P. Passerat, la Congregazione si diffuse nel Nord Europa.
Fu canonizzato da S. Pio X il 20 maggio 1909. Oggi è compatrono di Vienna e di Varsavia.

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Comunità  -Ω-
di Sabatino Majorano

La comunità è per i Redentoristi esigenza fondamentale del loro apostolato e irrinunciabile condizione di vita. Le Costituzioni la presentano come loro legge fondamentale: «I Redentoristi, per rispondere alla loro missione nella Chiesa, svolgono l’attività missionaria riuniti in comunità… Ecco dunque la legge fondamentale per la vita dei congregati: vivere nella comunità e, per mezzo della comunità, svolgere l’attività apostolica» (n. 21).
Fanno propria la visione comunitaria della salvezza sviluppata dalla Lumen Gentium: «In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cf. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (n. 9). I Redentoristi si impegnano perciò a testimoniare che solo «l’esodo dalla prigionia del proprio io» (Spe salvi, n. 14) permette di accogliere vivere la speranza donataci nel Cristo.
La vita fraterna dei Redentoristi è essenzialmente apostolica. Non sono tanto le esigenze dei singoli membri a modellare la loro comunità, ma innanzitutto quelle della missione. Si lasciano costantemente ispirare dalle parole del Cristo: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).
E questo a tutti i livelli, come sottolineano le Costituzioni: «La vita comunitaria fa sì che i congregati, ad imitazione degli Apostoli (cf. Mc 3, 14; At 2, 4245; 4, 22), in un rapporto di sincera amicizia, mettano insieme preghiere e propositi, lavori e dolori, successi e insuccessi, e anche i beni materiali, per servire il Vangelo» (n. 22).
Nelle origini della Congregazione la dimensione apostolica della comunità viene particolarmente sottolineata. Per la Crostarosa, la comunità è «memoria viva» che deve ricordare a tutti la radicalità dell’amore del Padre in Cristo e il suo progetto di comunione attuato dallo Spirito. Per S. Alfonso, la comunità incarnata tra gli abbandonati al fine di essere totalmente al servizio della loro evangelizzazione, mediante l’irradiamento e l’accoglienza apostolica, è il «distintivo assoluto» della Congregazione.
In coerenza con queste prospettive, la comunità redentorista vuole essere, nei diversi contesti, la Chiesa che si porta tra gli abbandonati, per fare loro sperimentare che non sono tali per Dio. Lo fa impegnandosi a tutti i livelli a «seguitare l’esempio» del Redentore: «I congregati, chiamati a continuare la presenza e la missione redentrice di Cristo nel mondo, fanno della sua persona il centro della loro vita, sforzandosi di aderire a lui sempre più saldamente. Così è presente nel cuore della comunità lo stesso Redentore col suo Spirito di amore per formarla e sostenerla. Quanto più stretta è la loro unione con Cristo, tanto maggiore sarà la loro unione reciproca» (Costituzioni, n. 23).
Tutto questo esige preghiera costante e fiduciosa. La comunità redentorista si impegna a viverla e a svilupparla nella condivisione con i poveri e gli abbandonati. Per questo cerca di fondere insieme liturgia e pietà popolare. La sua ambizione è quella di essere scuola di preghiera per il popolo, stimolando incessantemente all’ascolto e all’assimilazione della Parola.
Dovendo essere pronta per le nuove situazioni di emergenza, determinate dal rapido cambiamento della società, le strutture della comunità redentorista dovranno essere semplici e al tempo stesso efficaci; lo stesso vale per il suo stile di vita. Tutto dovrà essere pensato in fedeltà a come il Redentore si è posto tra di noi, in maniera da poter testimoniare a tutti la radicalità del suo amore.

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Coscienza  -Ω-
di Antonio Donato

Vi chiediamo, per un momento di andare indietro con la mente… alla vostra infanzia! O dio! a noi capita ancora oggi di vedere i cartoni animati! Sì proprio quelli. Vi chiediamo di ricordate i cartoni animati. Magari Tom & Gerry. Avente mai notato che, nei momenti più difficili, quando c’è da prendere una decisone, appaiono sulle spalle di Tom o di Gerry due figure simpatiche più piccole ma uguali a loro, uno vestito da angioletto e l’altro da diavoletto!
Cosa fanno questi due enigmatici personaggi? Sussurrano, nell’orecchio dei due malcapitati, che cosa fare. Ma la cosa interessante è notare che il contenuto del messaggio del diavoletto è totalmente opposto al contenuto del messaggio dell’angioletto!
E allora cosa aiuta Tom e Gerry a decidere? Cosa li aiuta a capire qual è la cosa migliore da fare?
Proviamo a mettere ordine! Il diavoletto rappresenta ciò che noi definiamo tentazione. Cioè una vocina esterna, suadente, avvolgente, ammaliante… insomma qualcosa di accattivante che muove un brivido forte dentro e ci attira verso di se.
L’angioletto, invece, è anche lui una vocina, ma che sta dentro di noi. Un suono sussurrato, profondo, dolce, apparentemente più difficile da ascoltare perché il frastuono che viene dall’esterno, con tutta la sua forza ammaliatrice, ci disorienta. Ma anche perché, questa voce ci dice, in modo forte e chiaro, cosa fare e cosa, invece, evitare il che, il più delle volte, non ci fa piacere. A questa seconda vocina diamo il nome di coscienza.
Per Sant’Alfonso la coscienza «è la regola prossima e formale del nostro agire». Le nostre azioni secondo, il dottore della Chiesa, sono guidate dalla legge divina che viene definita Remota o materiale, e da una legge prossima o formale che è appunto la coscienza.
Detto così sembra difficile… ma proviamo a ragionare insieme…
Molti di noi hanno già la patente. Sanno, che, per poter guidare, è stato necessario imparare una teoria, un codice, un insieme di segnali e di regole che messe insieme aiutano a capire cosa fare e come comportarsi nelle diverse situazioni. Ad esempio come dare precedenza ad un incrocio, quando fermarsi e ripartire ad un semaforo, come comportarsi in autostrade etc… Questa teoria, utilizzando il linguaggio di Sant’Alfonso la definiamo legge materiale o remota. Nel momento in cui noi ci mettiamo alla guida della nostra
bellissima macchina e ci troviamo ad un incrocio ricordiamo ciò che “remotamente” abbiamo imparato e lo mettiamo in pratica.
Ma, l’incrocio non è sempre lo stesso; i veicoli non sono sempre uguali; le persone allo loro guida cambiano. E allora come ci comportiamo? Leggiamo velocemente la situazione e in modo nuovo e creativo affrontiamo, con “prudenza” l’incrocio utilizzando sempre quello che abbiamo imparato ma, in modo diverso a seconda della situazione che ci si presenta davanti.
Questa capacità creativa e prudente, utilizzando il linguaggio alfonsiano, è ciò che definiamo legge prossima o formale proprio perché questa, da forma, nella situazione concreta che si sta vivendo, alla legge materiale o remota e al suo contenuto che altrimenti rimarrebbe morto. Provate a pensare a chi ha preso la patente e non guida. Questa persona ha imparato una “legge” ma non si sforza di metterla in pratica…
Ci rendiamo allora conto come, per Sant’Alfonso, sia realmente importante l’impegno della persona a rendere viva, in modo creativo la Legge di Dio, i suoi comandamenti e i precetti che altrimenti, pur avendo forza e vita in sé, rimarrebbero lettera morta per l’uomo che non s’impegna a conoscerli e a viverli.
La capacità creativa della coscienza richiama, quindi, la persona alla responsabilità della formazione per allontanarsi dal cieco arbitrio e uniformarsi alla volontà Dio. Il giudizio che esprimiamo sulla realtà e nelle diverse situazioni della vita deve trovare sempre in Dio, la cui voce risuona dentro di noi, il criterio per valutare in modo corretto ciò che è bene e ciò che è male. E, per far si che ciò avvenga e necessario conoscere sempre di più Lui e la sua legge perché questo è ciò che rende l’uomo, realmente, uomo.

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Confessione  -Ω-
di Francesco Visciano

Nel linguaggio comune, confessione significa ammettere, pubblicamente o in privato, un nostro errore. Nel gergo teologico questo termine per lungo tempo ha designato il quarto Sacramento, Sacramento della guarigione spirituale.
Ma la confessione non è un atto magico! Se non va adeguatamente preparata e non ha un seguito, diventa inefficace. Non a caso, Alfonso, proclamato Patrono dei Confessori nel 1950, ha inserito la confessione al centro del percorso che tutti i credenti sono chiamati a compiere: la conversione.
Di solito, la prima confessione che facciamo è quella di fede. Ascoltato l’annuncio di salvezza di un Dio che è pronto a donare la sua vita per dimostrarci il suo amore, il nostro cuore si apre a una risposta di amore. Ma subito ci rendiamo conto che siamo lontani da lui. Con l’aiuto della Grazia siamo chiamati a compiere un percorso che ci conduca alla santità, cioè ad assomigliare sempre più a Cristo, immagine vivente di Dio.
Questo percorso ha diverse tappe: 1. L’esame di coscienza: mettendo in controluce la nostra coscienza con quella di Gesù, comprendiamo che in tanti nostri atteggiamenti, pensieri, azioni, commettiamo il male. 2. Pentimento e proponimento: ammettere semplicemente i nostri errori non basta. Cominciamo a cambiare sul serio quando prendiamo coscienza che il male compiuto ha portato lacerazione e morte dentro di noi, negli altri, nel mondo. È allora che ci proponiamo di cambiare vita. 3. Confessione: siamo ormai pronti alla seconda confessione: di fronte al sacerdote, chiediamo scusa a Dio e ai fratelli per il male commesso, ed egli, da buon medico ci dona la cura per guarire le nostre ferite, da buon amico ci accorda il perdono, da padre misericordioso ci ridona l’eredità che ci spetta come figli. 4. Penitenza: per dimostrare che siamo effettivamente cambiati, ci preoccupiamo di ricostruire gli aspetti della nostra vita in cui siamo stati carenti accettando il piccolo impegno concreto che il sacerdote ci consiglia. 5. Felicità: l’amore di Dio è più forte di ogni nostra colpa. Egli, con la sua grazia, ci dona una nuova opportunità di vivere la comunione con Dio e i fratelli. È la terza confessione, la più bella: lodiamo il Signore perché ci ha reintegrati nella sua casa, possiamo rivolgerci a lui chiamandolo “Padre”, possiamo di nuovo abbracciare gli altri come fratelli e costruire insieme la Chiesa.
Rileggendo questo itinerario comprendiamo che non ha senso una confessione delle colpe, che non sia motivata dalla confessione di fede, e che non ci apre alla confessione di lode.

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Carisma  -Ω-
di Alfonso Amarante

Il carisma ( chárisma) è un dono gratuito dello Spirito, un favore, un beneficio per il bene comune, un servizio della carità, una scelta particolare di vita che edifica la Chiesa.
L’apostolo Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (12, 47), parlando dell’unico corpo di Cristo, la Chiesa, ricorda tutta una varietà di carismi, idonei al suo sviluppo. “Vi sono poi – scrive – diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti.
E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune”.
Oggi si parla anche – e forse impropriamente – di dialettica “autoritàlibertà”, “istituzionecarisma”, dando all’autorità o alla istituzione il significato di qualcosa che sclerotizza, al carisma il senso di libertà.
I carismi derivano da Cristo, devono riflettere Cristo, esprimersi nel suo stile di servizio, essere vissuti ed esercitati in lui, tendere a lui, seguitare lui, cooperare all’unità del suo Corpo.
La struttura organica della Chiesa cresce, quindi, attraverso doni, servizi particolari, attività pastorali, impegni e compiti ecclesiali di persone, in tempi diversi. Paolo, infatti, elencando i carismi, lascia la “lista aperta”. Dà spazio a tutti i doni, anche ai più umili, stabili, ordinari.
La Chiesa è e si sente nella storia, di cui ne avverte mutamenti e variazioni. Dal suo grembo nascono, secondo le necessità, spiriti grandi, coraggiosi, aperti a “spinte in avanti” per rispondere alle esigenze e alle provocazioni dei tempi.
I santi sono quelle persone privilegiate, in cui lo Spirito si esprime. A loro offre il dono di una particolare sensibilità, attenzione a situazioni di bisogni e di intervento per alitare soffi di vitalità nelle strutture della Chiesa.
Avviene così, nel tempo e per opera dello Spirito, una moltiplicazione di speciali carismi, che rendono i fedeli “adatti e pronti ad assumersi responsabilità varie ed utili al rinnovamento della Chiesa”(Lumen Gentium, 12).
Particolari vocazioni, congregazioni e ordini religiosi sono sorti, pertanto, nella Chiesa, in vari tempi della storia per offrire una presenza specifica, capace di testimoniare il Vangelo, le beatitudini, la misericordia redentiva di Cristo nella Chiesa e nel Mondo.
Nel Settecento – secolo segnato da correnti giansenistiche, rigorismo morale, pratiche mistiche riservate a pochi privilegiati, scarsa apertura alla benignità e misericordia di Dio Padre –, lo Spirito Santo ha suscitato Alfonso de Liguori (16961787), sensibile al popolo, ai poveri, ai più “destituiti di spirituali soccorsi”, ai lazzari in attesa di qualche mica caduta dalla mensa dei ricchi.
Egli si sente investito di un mandato particolare: “Lo Spirito Santo è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato ad annunciare ai poveri un lieto messaggio, a sanare i contriti di cuore” (Lc 4, 18; Is 61, 1).
Seguendo Cristo Redentore, buon samaritano, passa a confortare ogni persona povera, malata nello spirito, a sanare le ferite con l’olio e il vino della misericordia, nei luoghi più difficili e dimenticati. Fonda a Scala (SA) il 09 novembre del 1732 la Congregazione del Santissimo Redentore con il fine dell’evangelizzazione tra i più abbandonati e di favorire la giustizia e la promozione umana, solidarizzando con loro e promuovendo i loro diritti fondamentali. L’opzione per i poveri è la ragion d’essere della Congregazione nella Chiesa, il distintivo della sua fedeltà, il centro unificante della vita del redentorista (cf. Costituzioni e Statuti della Congr. del Ss. Red., Roma 1982, 5).
Questo carisma apostolico alfonsiano (intuizione originaria), nucleo catalizzatore della vita consacrata redentorista, passa attraverso la professione dei voti religiosi missionari, l’osservanza delle regole – espressione della volontà di Dio –, in una comunità apostolica aperta e organizzata, con i suoi punti nodali: castità, povertà, obbedienza, perseveranza, preghiera, distacco, amore a Cristo e alla Madonna, evangelizzazione dei poveri.
Il carisma si concretizza in una comunità che “continua” il Redentore e diventa centro dinamico di accoglienza e irradiazione missionaria. La missione di Cristo è la radice profonda della vita missionaria. La spiritualità va ricercata nel Vangelo e nella voce viva della Chiesa.
La fedeltà alla propria identità va però riletta incessantemente sul registro della storia, in dialogo con il mondo. I mutamenti culturali sollecitano un servizio missionario con una risposta puntuale. Aderenza quindi allo spirito di Alfonso e della tradizione, ma anche apertura e proposta profetica. Si tratta di una fedeltà dinamica. Così i santi e beati dell’Istituto, modelli simili e diversi nello stesso tempo, hanno incarnato, in situazioni particolari il carisma del Fondatore.
Tra questi ricordiamo s. Gerardo Maiella (17261755), sempre accanto alle mamme, ai bambini, a tutti i bisognosi della misericordia di Dio; s. Clemente Maria Hofbauer (17511820), primo messaggero dei redentoristi oltre l’Italia, tra Varsavia e Vienna vicino ai poveri, ma anche tra gli intellettuali; s.
Giovanni Nepomuceno Neumann (18111860), evangelizzatore degli emigrati negli Stati Uniti d’America; beato Gennaro Sarnelli (17021744), missionario a Napoli tra ammalati, anziani e donne in difficoltà; beato Pietro Donders (18091887) apostolo tra i lebbrosi di Batavia (Suriname); beato Gaspare Stanggassinger (18711899), animatore e guida di giovani a Cristo.
Per chi, quindi, si sente chiamato, pur nello spirito alfonsiano ad un particolare impegno apostolico, c’è il “carisma nel carisma”: un modo personale, condiviso dalla comunità, di vivere la chiamata. Chi bussa, con la mente e il cuore, alla porta dell’Istituto redentorista non entra nel “passato”, in un ambiente stantio, fuori tempo e fuori moda, anche se i Redentoristi hanno una propria spiritualità, storicamente configurata, da non sottovalutare o rinnegare.
Il loro carisma non è qualcosa di metafisico, impalpabile. Risulta invece ben incarnato nella vita di tanti santi, beati e servi di Dio dell’Istituto. Qui si trovano nobili tradizioni, metodi di preghiera, devozioni solide, esempi di vita ascetica, stili di vita che corrispondono alle attese, vivibili e trasmissibili anche ad altri.
Guardando a Cristo e ai poveri, il redentorista si sente investito di carità pastorale e ardore apostolico; si apre all’inventiva, al dinamismo, al coraggio (of ibid., 1416); è sorretto dalla fiducia, dalla speranza e dall’amore (ibid.,
10), proteso all’annuncio anche “ad gentes”(ibid., 3). Si tratta di zelo non fossilizzato, ma aperto all’aggiornamento, alla ricerca teologicopastorale.
Il carisma alfonsiano offre questo. E non è poco. I poveri del Vangelo sono tanti, troppi, sempre in attesa della Parola e di gesti di misericordia.

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Discernimento  -Ω-
di Pietro Sulkowski

Il termine significa letteralmente saggiare, vagliare, distinguere per chiarire, valutare in modo giusto prima di decidere, riuscire a scegliere. Nel mondo greco il termine designava la funzione di saggiare le monete d’oro e d’argento per provare se erano autentiche e idonee come mezzo di scambio. Nella cultura cristiana il discernimento indica il dinamismo vitale per vivere il vangelo di Gesù per valutare con saggezza e prudenza gli eventi e i fatti per cogliere la volontà di Dio. Il vangelo invita a scrutare il proprio cuore, per riconoscere che cosa veramente ci muove, se il bene o ciò che viene dal maligno. Oggi per discernimento intendiamo la capacità di leggere la propria vita alla luce della Parola di Dio.
Il tema del discernimento si pone a diversi livelli. Comunemente si parla di discernimento morale, per indicare la capacità di capire che cosa ci è chiesto: che cosa è bene per noi nelle diverse situazioni e che cosa invece deve essere evitato. C’è poi il discernimento spirituale, che esprime la vita sotto la guida dello Spirito. Il suo scopo è la scoperta della volontà di Dio nella vita e l’acquisizione della mentalità di Cristo. Infine il discernimento vocazionale il cui oggetto è la chiamata, l’appello di Dio. Esso mira ad aiutare la persona a scoprire la propria vocazione.
Il discernimento si presenta come un insieme di momenti e di passi articolati che rendono la persona in grado di comprendere se stessa alla luce di Dio. Esso esige un ascolto attento, una comprensione approfondita di se stessi e della realtà, una grande umiltà e chiarezza per poter decodificare i segni dei tempi e rintracciare i segnali della volontà di Dio.
Sant’Alfonso è convinto che Dio manifesta ad ogni uomo la sua volontà e lo guida, in modo misterioso, sulle strade della vita, affinché possa discernere ciò che Dio vuole veramente da lui. Secondo il nostro Santo esiste una molteplicità di fattori che inducono ad una decisione “secondo il gusto di Dio”. Alfonso non parla nelle sue opere del «discernimento», ma preferisce sottolineare l’importanza di “accertarsi della volontà divina” per realizzare il piano divino di salvezza. Per poter conoscere il volere di Dio bisogna, dunque, vivere con impegno e fiducia il proprio stato di vita, sopportare le difficoltà, e pregare per permettere a Dio di agire, per comprendere passo dopo passo il suo disegno. Per accertare la volontà di Dio è necessario che il credente stabilisca un dialogo con il proprio padre spirituale e che, insieme, comprendano il volere di Dio.
La PGVR indica il discernimento come il cammino necessario e ineludibile per i giovani che sono in cammino di ricerca e per rispondere personalmente alla chiamata di Dio, qualunque essa sia e per decidere del proprio futuro. Il giovane per aver chiarezza sul suo compito nella vita è invitato a scoprire le proprie capacità naturali. Tutto nel rispetto della coscienza e della libertà della persona. L’animatore redentorista deve far in modo che ogni tappa del processo di crescita dei giovani sia marcata da una adeguata opzione fatta in un clima di discernimento.
Ogni Redentorista, quando si trova per ministero apostolico in mezzo agli uomini, è invitato ad essere attento a scoprire e discernere quei doni che lo Spirito dispensa a molti giovani. Il mezzo migliore e più efficace per il discernimento è la preghiera, l’ascolto, la testimonianza di vita e lo zelo apostolico.

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Dinamismo Apostolico  -Ω-
di Salvatore Brugnano

Quando una persona accetta consapevolmente un compito che gli viene affidato, subito mette in moto tutte le sue energie per realizzarlo. Non aspetta in modo fatalistico che ciò si compia, ma dà fondo alle sue personali risorse per realizzarlo nel migliore dei modi. Se poi il compito lo ha ricevuto insieme ad altri, dovrà unire le sue risorse personali insieme a quelle della comunità.
Il Redentorista appartiene ad una Congregazione che si impegna di attuare il mandato missionario ricevuto con iniziative coraggiose e serio impegno. Infatti la Congregazione redentorista è chiamata da Dio a compiere fedelmente la sua opera missionaria e nel modo di realizzarla essa segue l’evoluzione dei tempi. Mandato missionario per il Redentorista rimane sempre l’annuncio del Vangelo, in modo speciale ai poveri. La liberazione e salvezza integrale dell’uomo fanno parte dell’annuncio del Vangelo: è questa l’opera di salvezza a cui è chiamato.
Questa missione esige piena consapevolezza e libera adesione. Il Redentorista deve essere libero e pronto a questa missione, sia per i destinatari a cui dovrà rivolgersi, sia per i mezzi che dovrà impiegare. Con fantasia e sagacia cercherà di scoprire vie nuove per portare il Vangelo ad ogni creatura (of. Mc 16, 15).
Resta un dovere, quindi, la ricerca continua di iniziative apostoliche “sempre nuove”, sotto la guida della legittima autorità; egli sa che non può lasciarsi vincolare da forme e strutture che non rendono più “missionaria” la sua attività.
L’apostolato della Congregazione redentorista, infatti, è caratterizzato, più che da alcune forme di attività, dal suo dinamismo missionario, cioè dall’evangelizzazione propriamente detta e dal servizio prestato a quegli uomini e a quei gruppi che sono più abbandonati e poveri, per le condizioni spirituali e sociali.
Si può dire che il Vangelo è sempre lo stesso, ma il modo di annunciarlo deve essere “sempre nuovo”, per poter raggiungere la persona nel suo proprio tempo e nelle sue proprie situazioni. Per poter fare questo il Redentorista deve mantenere in continuo fermento le sue energie e i doni ricevuti da Dio, rifiutando ogni logica di appagamento. Il Redentorista annuncia senza stancarsi, la Parola di Dio perché gli uomini si convertano e credano al Vangelo.
Questo movimento dinamico esprime lo zelo pastorale del Redentorista. Dimostra l’ardore missionario di essere annunciatore del Vangelo, perché primo dovere della Chiesa rimane il predicare il Vangelo a chi ancora non lo conosce. Sant’Alfonso desiderava ardentemente di predicare il Vangelo agli infedeli (ai pagani).
Perciò ogni genere di povertà materiale, morale e spirituale, deve stimolare lo zelo apostolico del Redentorista e il suo dinamismo. Egli deve mettere in moto tutte le sue capacità, non rifiutando persino di “confrontarsi” con i figli di questo mondo, i quali «verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce», secondo il monito di Gesù (Lc 16,8).
Di fronte alle necessità del nostro tempo, il Redentorista è chiamato ad imitare lo zelo apostolico del santo fondatore, ad aver presente la fluida fantasia di San Clemente e a considerare come modello di zelo pastorale San Giovanni Neumann e di tutti gli altri santi, beati e martiri della Congregazione.

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Eucaristia  -Ω-
di Ciro Vitiello

L’Eucaristia è il sacramento del sacrificio di Gesù Cristo, e pertanto costituisce il culmine e la fonte della vita della Chiesa e dell’evangelizzazione.
La centralità dell’Eucaristia emerge da tutta la tradizione redentorista, che attinge alle opere del fondatore Sant’Alfonso Maria de Liguori, particolarmente dal libretto Del sacrificio di Gesù Cristo con una breve dichiarazione delle preghiere che si dicono nella Messa, la spiritualità per conoscere, celebrare e vivere il mistero di Cristo Redentore.
L’Eucaristia è da considerare nel duplice aspetto di sacrificio e di sacramento.
• Nell’Eucaristia è presente il sacrificio di Gesù Cristo, come memoria del sacrificio della croce, di cui è “continuazione”.
• Nella conoscenza dell’Eucaristia come sacrificio non vengono trascurati gli elementi dei sacrifici dell’Antico Testamento, specialmente quello pasquale, le cui note (oblazione, immolazione, consumazione, partecipazione) si riscontrano nella celebrazione della Messa.
• La celebrazione della Messa è sacrificio di lode e di ringraziamento ma soprattutto di propiziazione e di purificazione, dove il Signore perdona le colpe e riconcilia i peccatori a sé.
• Il sacrificio eucaristico è il compimento del mistero di salvezza. L’Eucaristia compendia tutti gli interventi di Dio, dall’incarnazione alla parusia, e all’Eucaristia fanno riferimento tutti gli altri sacramenti.
• L’Eucaristia è il sacro convito che unisce intimamente a Cristo, conserva e perfeziona la vita spirituale, annunzia e prepara la risurrezione e la gloria. Perciò la celebrazione è completa con la comunione alla quale naturalmente tende. La comunione frequente, e anche quotidiana, assicura una vita sacramentale pienamente partecipata.
• Dall’Eucaristia proviene tutta la perfezione della vita spirituale: per i sacerdoti che devono sempre degnamente celebrare, per i religiosi che devono unire al Mistero l’offerta della loro vita, per i laici impegnati nella famiglia e nella società.
• La celebrazione dell’Eucaristia, per essere fruttuosa, richiede “devozione”, cioè: preparazione (conoscenza del mistero e apparecchio immediato) e ringraziamento (meditazione e prolungamento nella giornata).
• La presenza eucaristica di Cristo continua dopo la celebrazione. Da questa deriva l’adorazione del Sacramento, necessaria per chi vuol condurre una vita cristiana ispirata alla liturgia, soprattutto per chi è chiamato al sacerdozio e alla vita consacrata.
• Il sacrificio eucaristico alimenta la grazia del Battesimo: partecipato e vissuto, impegna il credente nella realtà quotidiana in cui vive.
• Essendo sacramento dell’amore, nell’Eucaristia è contenuto l’essere amati e l’amare i fratelli con la stessa carità di Cristo, diventando, come lui, pane spezzato per la vita del mondo.
• Una Chiesa autenticamente eucaristica è una Chiesa missionaria. Per questo l’Eucaristia non è solo fonte e culmine della vita della Chiesa, lo è anche della sua missione.
• La prima e fondamentale missione che viene dal Mistero celebrato è la testimonianza della vita.

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Formazione Spirituale  -Ω-
di Antonio Perillo

La formazione spirituale è prima di tutto un itinerario di continua assimilazione a Cristo nell’amore, più che un insieme di progetti e interventi vari.
Sant’Alfonso sintetizza chiaramente questo processo dicendo che: «il vertice della santità e della perfezione è amare Gesù Cristo… vera perfezione è amare Dio con tutto il cuore» (Pratica di amare Gesù Cristo, in Opere Ascetiche, vol. I, Roma 1933, cap. I, p. 1).
Pertanto ogni autentico cammino spirituale deve necessariamente essere una “vita in Cristo” deve condurre a fare di Lui il “centro e il senso della propria esistenza”. Solo così si potrà vivere una vita piena, realizzata e totalmente trasformata nella carità.
Per un Redentorista la formazione spirituale è una priorità di cui non può fare a meno, perché sa che quanto più si sforzerà di aderire a Cristo, tanto più sarà chiamato a continuare la Sua presenza e la Sua missione redentrice nel mondo.
Le nostre Costituzioni invitano a coltivare uno spirito di contemplazione per sviluppare e rinforzare la fede e per rendersi sempre più docili all’azione dello Spirito Santo che non cessa mai di operare per conformarci a Cristo (Costituzioni 2325).
Naturalmente per alimentare e sostenere questo processo di adesione e di trasformazione in Cristo è necessario abbeverarsi alla prima sorgente che è la Parola di Dio. «Proprio perché i Redentoristi sono i dispensatori della rivelazione del mistero di Cristo in mezzo agli uomini devono restare in contatto assiduo con questa Parola viva e farla propria attraverso la meditazione personale e comunitaria» (C 28). Altre fonti indispensabili sono la preghiera, l’orazione mentale, la liturgia, i Sacramenti e in modo particolare la Celebrazione Eucaristica sorgente e culmine di tutta la vita apostolica del Redentorista.
La “vita nello Spirito” è un esigenza primaria, perché in essa il Redentorista ritrova la propria identità ed una serenità profonda che lo porterà a ricercare e a difendere i necessari tempi di orazione, di silenzio, di solitudine e di adorazione… e di tutti quegli itinerari spirituali che possano nutrire e sostenere lo spirito missionario, la carità apostolica e la continua ricerca di nuove vie per l’evangelizzazione degli uomini più abbandonati del nostro tempo.

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Francesco Saverio Seelos  -Ω-
dal Messale redentorista

Francesco Saverio Seelos nacque l’11 gennaio 1819 a Füssen (Baviera, Germania).
Manifestando fin da ragazzo l’aspirazione al sacerdozio, dopo gli studi filosofici entrò nel seminario diocesano.
A seguito della conoscenza del carisma e dell’azione missionaria della Congregazione del SS. Redentore, decise di farne parte e di partire per il Nord America.
Giunto negli Stati Uniti il 20 aprile 1843, entrò nel noviziato e concluse gli studi teologici, ricevendo l’ordinazione sacerdotale il 22 dicembre 1844.
Iniziò il suo ministero pastorale a Pittsburgh in Pennsylvania come viceparroco del confratello S. Giovanni Neumann, svolgendo al contempo anche il compito di maestro dei novizi e dedicandosi alla predicazione missionaria.
Negli anni successivi fu parroco in diverse città e formatore degli studenti redentoristi. Considerato un esperto confessore e guida spirituale e un pastore sempre gioiosamente disponibile e sollecito verso i bisogni dei poveri e degli abbandonati, nel 1860 fu candidato a vescovo di Pittsburgh. Ottenuto dal Papa Pio IX di essere esonerato da tale responsabilità, si dedicò a tempo pieno all’attività missionaria itinerante, predicando in inglese e in tedesco negli stati del Connecticut, Illinois, Michigan, Missouri, New Jersey, New York, Ohio, Pennsylvania, Rhode Island e Wisconsin.
Nominato infine parroco della chiesa di S. Maria Assunta a New Orleans in Louisiana, si spense di febbre gialla, contratta per soccorrere gli ammalati, il 4 ottobre 1867, all’età di 48 anni e nove mesi.
Sua Santità Giovanni Paolo II lo ha beatificato il 9 aprile 2000.

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Gaspare Stanggassinger  -Ω-
dal Messale redentorista

Gaspare Stanggassinger nacque il 12 gennaio del 1871 a Berchtesgaden; era il secondogenito di 16 figli. Il padre, uomo stimato, era contadino e possedeva una cava di pietre.
Gaspare maturò fin da piccolo il desiderio di diventare sacerdote: tratteneva spesso i fratelli e le sorelle con prediche e processioni.
All’età di dieci anni si recò a Freising per la scuola, ma trovò notevoli difficoltà, tanto da rischiare di abbandonare gli studi. Riuscì ad andare avanti con notevole sforzo e preghiera. Durante le vacanze estive radunava ragazzi intorno a sé con l’intento di formarli alla vita cristiana.
Nel 1890, dopo l’esame di maturità, entrò nel seminario diocesano di Freising. In questo tempo comprese che il Signore lo chiamava a vivere la sua vocazione in uno stato diverso da quello diocesano.
Nel 1892, in seguito ad una visita dei Missionari Redentoristi, decise di seguirli; entrò nel noviziato di Gars lo stesso anno, malgrado l’opposizione paterna, e nel 1895 ricevette l’ordinazione sacerdotale.
Il suo intento era di predicare il vangelo ai popoli più abbandonati; i superiori invece lo vollero formatore dei futuri missionari.
Oltre all’insegnamento, non mancava mai di prestare il suo aiuto pastorale nei villaggi vicini. Nonostante la mole di lavoro, era sempre disponibile; i ragazzi in lui non vedevano un superiore, ma un fratello.
Era grande devoto di Gesù Eucaristia; invitava tutti a ricorrere al SS. Sacramento nei bisogni e nelle ansie; la sua predicazione, a differenza della pratica del tempo, non incuteva terrore, ma era semplice e stimolava alla fiducia, alla carità fraterna e a prendere sul serio la vita cristiana.
Nel 1899 fu incaricato come direttore nel nuovo seminario di Gars. Dopo aver predicato un corso di esercizi ai ragazzi e aver partecipato all’apertura del nuovo anno scolastico, moriva a causa di una peritonite il 26 settembre dello stesso anno, a 28 anni.
Era solito dire: “I Santi hanno intuizioni speciali; per me che non sono un santo, ciò che è importante sono le verità semplici di sempre: Incarnazione, Redenzione e Santissima Eucaristia”.
È stato proclamato beato da Giovanni Paolo II il 24 aprile 1988.

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Gennaro Maria Sarnelli  -Ω-
dal Messale redentorista

Gennaro Maria Sarnelli nacque a Napoli il 12 settembre 1702. Figlio del Barone di Ciorani, da fanciullo ebbe una solida formazione culturale e spirituale.
Dedicatosi allo studio della giurisprudenza, a vent’anni si laureò in diritto civile ed ecclesiastico.
Assistendo gli ammalati dell’ospedale degli Incurabili, avvertì la chiamata al sacerdozio. In questo tempo fece anche conoscenza con Alfonso Maria de Liguori, che ne fu il primo biografo.
Diventato sacerdote nel 1732, si dedicò particolarmente alla catechesi dei fanciulli e al recupero e prevenzione delle ragazze esposte al meretricio.
Entrato a far parte, nel giugno dell’anno seguente, della Congregazione del SS. Redentore, fondata da Alfonso Maria de Liguori il 9 novembre 1732, si dedicò alla predicazione della Parola di Dio nei paesi più destituiti di aiuti spirituali.
Per motivi di salute, nel 1736, ritornò ad abitare a Napoli dove, pur continuando l’attività missionaria nella Congregazione redentorista, riprese le precedenti attività pastorali e caritative, specialmente tra gli ammalati, gli anziani, i carcerati e i fanciulli costretti al lavoro di facchini. Iniziò anche una fervente campagna contro il dilagare della prostituzione e il vizio della bestemmia.
Fertile scrittore, pubblicò in questo tempo oltre 30 opere di contenuto giuridicosociale, di morale, di mistica, di pedagogia, di pastorale, di mariologia e di ascetica.
Nel 1741, in preparazione alla visita alla Diocesi del cardinale Spinelli, programmò e partecipò alla grande missione tra i paesi, abbandonati spiritualmente, nei dintorni di Napoli.
Consumato dal suo ardente zelo per la salvezza delle anime, si spense a Napoli il 30 giugno 1744 a circa 42 anni.
Sua Santità Giovanni Paolo II lo ha proclamato Beato il 12 maggio 1996.

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Gerardo Maiella  -Ω-
dal Messale redentorista

Gerardo Maiella nacque a Muro Lucano (Potenza) il 6 aprile 1726, in una famiglia di umili condizioni; il papà Domenico e la mamma Benedetta in compenso erano ferventi cristiani; alla loro scuola Gerardo imparò l’amore alla preghiera e al sacrificio. Rimasto ben presto orfano del padre, ed essendo l’unico figlio maschio, dovette provvedere alle necessità della famiglia lavorando come sarto. A 14 anni chiese di entrare nel convento dei Cappuccini dove si trovava lo zio materno, ma venne respinto per la sua malferma salute.
Dopo una breve esperienza come domestico del vescovo di Lacedonia, tornò a fare il sarto, ma con scarso profitto.
Nell’aprile del 1749, dimostrando una tenacia e una determinazione non comune, riuscì a farsi accettare dai Redentoristi che avevano predicato una missione popolare a Muro.
Dopo un periodo di prova e l’anno di noviziato, trascorsi nella casa di Deliceto, emise la professione religiosa, il 16 luglio 1752.
Pur osservando fedelmente la Regola, andò in giro questuando nei paesi circostanti per sovvenire ai bisogni materiali della comunità.
La sua presenza tra le persone mortificate dalla miseria e dall’ignoranza, soggette alle epidemie e alle crisi dei raccolti era vista come un segno di speranza. Gerardo ne capiva lo stato d’animo e dava a tutti un segno di fiducia nell’amore e nella misericordia di Dio.
Visse nella Congregazione per 5 anni come fratello coadiutore, distinguendosi per lo zelo apostolico, la pazienza nelle infermità, la carità verso i poveri, la profonda umiltà nel periodo di una infamante calunnia, l’eroica obbedienza, le penitenze e la preghiera costante.
Scrisse numerose lettere di direzione spirituale e un “Regolamento di vita”.
Il Signore lo favorì di carismi, tra cui la profezia, l’intelligenza dei cuori e il dono dei miracoli. Morì il 16 ottobre 1755 a Materdomini (Avellino).
Fu beatificato da Leone XIII il 29 gennaio 1893 e canonizzato da Pio X l’11 dicembre 1904.
Nell’animo popolare la figura sempre amica di Gerardo Maiella è vista come segno di patrocinio, particolarmente per le mamme, i bambini e le partorienti.

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Giovane  -Ω-
di Laureano Del Otero

Destinatario della PGVR. Per orientarsi, persona tra i 16 e i 30 anni. Nel percorso della vita cristiana, persona che accoglie personalmente la fede e si impegna con essa in modo creativo e coerente, tra la fine della Iniziazione Cristiana e la scelta vocazionale di vita.
Non tutti i giovani sono uguali. Per evangelizzarli è necessario conoscere y capire il tipo di società a cui appartengono, giacché la società condiziona la vita dei giovani, come la vita di tutte le persone che la costituiscono. I giovani, di tutte le epoche, sono fedele riflesso dei valori che guidano la società che, non possiamo dimenticare, hanno costruito gli adulti con le loro scelte. D’altra parte, essere giovane implica sempre una forma di vita differente da quella degli adulti. Il giovane si caratterizza per una impostazione di vita peculiare, molto diversa dalle altre tappe di sviluppo della vita umana. Questa impostazione ha come obiettivo raggiungere una identità propria e originale.
La vita giovane è sempre un risveglio in tutte le dimensioni che la realtà offre come cammino di costruzione del proprio futuro. Il suo cuore è aperto alla vita, all’amicizia e all’amore profondo, all’emozione, alla preparazione e qualificazione, alle sensazioni, alle esperienze limite e alle impressioni dei racconti (reali e irreali). Allo stesso tempo, si legano con relativa facilità a grandi cause e ad offerte di trasformazione sociale, anche se ciò non garantisce il loro coinvolgimento. Il giovane è idealista per natura, aperto al futuro e con capacità di rischio. In questa caratteristica si nasconde, anche, una certa apertura alla trascendenza.
Inoltre, il giovane possiede un altro ritmo vitale, che lo identifica come tale nell’insieme della società. Le sue priorità, gusti, orari e attività corrispondono a quella tappa della vita. In generale, si trova a metà cammino tra l’estetica e l’etica, preoccupato per l’immagine e l’accettazione da parte degli altri come forma di inserimento nella comunità umana.
Nella Chiesa non sempre trova uno spazio nel quale poter vivere la fede in accordo con la sua forma di essere e di esprimersi. Anche se in realtà non mancano giovani nella Chiesa che scoprano nel Dio di Gesù Cristo una chiamata a essere felice e solidale. Il giovane sente la necessità di Cristo Redentore. Allora se la sua massima aspirazione è raggiungere una vita piena e felice, Cristo risponde assolutamente alla sua massima aspirazione.
I giovani ricoprono un ruolo molto importante nella Chiesa: riescono a rinnovare la comunità cristiana, e a porre in discussione quegli elementi che rendono meno radicale la sua testimonianza e missione.
Rappresentano, pertanto, per i Redentoristi una sfida e, allo stesso tempo, un’urgenza. Una sfida perché in essi l’espressione del Vangelo è spontanea e rivelatrice di una nuova forma di vita cristiana. Un’urgenza, perché i giovani sono abbandonati dall’attività pastorale di molte comunità cristiane, e necessitano di spazi per la riflessione, la convivenza e la preghiera. La PGVR, di conseguenza, rappresenta uno spazio adeguato perché il giovane scopra il senso della propria vita e vocazione. Per questa ragione, rappresenta una priorità per i Redentoristi.
Infine, il giovane non solo è destinatario della PGVR; ma è anche chiamato a essere agente, animatore, missionario. Pertanto, sussistono allo stesso tempo due modalità di presenza del giovane nella PGVR: una, come destinatario, l’altra come agente.

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Giovani e “giovani adulti”  -Ω-
di Santo Arrigo

In tutto il mondo, le parole “giovani” e “giovani adulti” hanno un significato diverso nel contesto pastorale. In Europa, solitamente la parola “giovani” indica gli uomini e le donne compresi nella fascia di età che va dai 18 ei 35 anni.
In Nord America, invece, il termine “giovane” è spesso applicato alla fascia di età compresa tra i 14 – 17 anni, mentre coloro che sono di età compresa tra i 1830 sono considerati “giovani adulti”. Negli Stati Uniti, ad esempio, nella categoria di “Giovani Adulti” si possono incontrare anche giovani che hanno superato questa età.
Sembra che alcuni “giovani adulti” arrivano alle decisioni fondamentali della vita in ritardo rispetto ai ragazzi di età più piccola. La classificazione di “giovani” e “giovani adulti” pare quindi che aiuta ad individuare, sia ai sociologici sia ai pastoralisti, le esigenze di entrambi i gruppi in modo tale da trovare risposte per la loro crescita integrale.

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Giovanni Nepomuceno Neumann  -Ω-
dal Messale redentorista

Giovanni Nepomuceno Neumann nacque a Prachatitz in Boemia (Repubblica Ceca) il 28 marzo 1811. Studiò teologia nel seminario di Budweís. Entusiasmato per la vita missionaria e desideroso di portare anime a Cristo, decise di lasciare la patria per dedicarsi agli emigrati europei residenti in America, privi di aiuto spirituale.
Fu ordinato sacerdote dal vescovo di New York, e subito si prodigò nella cura pastorale delle vaste zone che circondano le cascate del Niagara.
Desideroso di vivere in una comunità religiosa che meglio rispondesse alla sua brama missionaria, entrò nella Congregazione del Santissimo Redentore. Fu un instancabile missionario, preoccupandosi in particolare degli emigrati tedeschi prima in Baltimora, poi a Pittsburgh. Svolse il ruolo di viceprovinciale dei Redentoristi dal 1846 al 1849, quando divenne parroco della chiesa di Sant’Alfonso in Baltimore. Nel 1852, a 41 anni, fu nominato vescovo di Filadelfia. Incise fortemente nella vita religiosa degli Stati Uniti fondando scuole cattoliche e promovendo il culto dell’Eucaristia. In due anni il numero degli alunni nelle Scuole parrocchiali passò da 500 a 9000. Fondò un nuovo Istituto: le Suore del terzo Ordine di san Francesco. Nel breve spazio di 7 anni costruì 89 chiese, alcuni Ospedali e Orfanotrofi.
Degno figlio di Sant’Alfonso, fece come lui il voto di non perdere mai tempo. Fu un vescovo santo e infaticabile. Visitò ininterrottamente la vasta diocesi; giunse a percorrere fino a 40 km di montagna, a dorso di un mulo, solo per cresimare una fanciulla inferma.
Il 5 gennaio 1860, a 49 anni, morì improvvisamente di infarto in una strada di Filadelfia.
Beatificato durante il Concilio Vaticano II il 13 ottobre 1963, fu canonizzato il 19 giugno 1977. Nella omelia della canonizzazione Paolo VI riassumeva l’attività del nuovo Santo in queste parole: “Era vicino agli ammalati, amava incontrarsi con i poveri, era amico dei peccatori e ora costituisce la gloria di tutti gli emigrati”.

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Guida spirituale  -Ω-
di Pietro Sulkowski

Generalmente possiamo indicare con questo termine colui che offre un aiuto spirituale nel fare la volontà di Dio. L’appellativo guida fa venire in mente un percorso. Per cui la guida spirituale è una persona che accompagna per le vie dello Spirito, stimola nella maturazione di fede del diretto, conduce verso la scoperta della volontà di Dio.
Per il ruolo di guida vengono anche usati gli altri appellativi, come: padre spirituale, direttore, maestro, accompagnatore Molti oggi riaffermano che la guida spirituale è prima di tutto uomo dello Spirito. Il suo ruolo è legato all’azione dello Spirito Santo nella persona che sta accompagnando.
Il servizio della guida spirituale è uno dei ministeri più delicati che esistono nella Chiesa. È chiamato “arte delle arti”. Questo ministero di sostegno spirituale esige precise qualità personali, una certa formazione e maturità, un’esperienza spirituale rilevante.
Nella visione alfonsiana il mezzo privilegiato del cammino cristiano è la direzione spirituale. Essa rappresenta un aiuto necessario nell’itinerario spirituale, un mezzo importante per percorrere la via della perfezione: una buona guida conduce la persona verso la santità. Alfonso consiglia la direzione a tutti i laici e la raccomanda fortemente a tutti i religiosi. Egli è convinto che non si può progredire nella vita spirituale e raggiungere la santità senza l’aiuto di un altro. Perciò il compito primario della guida spirituale è quello di accompagnare le anime dalla conversione alla perfezione della santità.
Il ruolo della guida spirituale consiste nel rendere più sicuro il cammino del credente verso la santità e nella uniformità alla volontà divina. Per cui il fine della direzione spirituale, secondo Alfonso, è la santità, la perfezione, ossia lo sviluppo della vita interiore fino alla sua pienezza; lo scopo consiste nella crescita dell’amore verso Cristo e nella conquista graduale della santità. I precetti, le leggi o i consigli delle guide rappresentano i mezzi tangibili, attraverso i quali è possibile discernere la chiamata di Dio e realizzare la santità.
Alfonso attribuisce un grande ruolo all’opera della guida spirituale. Anzi egli ritiene che la guida rappresenti Dio stesso, accerta la volontà divina e assicura il cammino del fedele e lo aiuta a correggere i difetti.
Per Alfonso le caratteristiche della guida spirituale sono: la scienza, l’esperienza, la benignità, la santità della vita personale. Il Santo raccomanda a chi vuole essere guidato, la preghiera per trovare una buona guida spirituale.
La PGVR ritiene la guida spirituale come colui che è in grado di aiutare i giovani a prendere coscienza della necessità di un accompagnamento personalizzato per la maturazione e la realizzazione del Progetto di Vita. Il Redentorista è chiamato a maturare uno sguardo contemplativo della vita, tale da far riscoprire nel giovane la ricchezza del suo mondo interiore. Questo sguardo presuppone occhi buoni, ovvero la capacità di scrutare le anime delle persone in ricerca delle risposte circa la loro vocazione. Solamente le guide profonde spiritualmente saranno capaci di aiutare, discernere e orientare verso la vera decisione vocazionale. Per avere questa vita profonda è necessario un atteggiamento di preghiera, di riflessione sulla parola di Dio, di continua conversione, vita virtuosa, ecc. Per i Redentoristi il ministero di guida spirituale deve essere un incarico luminoso e apprezzato. Di fronte a tanti interrogativi del mondo di oggi i congregati sono chiamati a rendersi disponibili in questo servizio (cf. Statuto 024).

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Incarnazione  -Ω-
di Antonio Pupo

Tutto il mistero dell’incarnazione si racchiude per Sant’Alfonso in una sola parola: Amore.
Dio è follemente innamorato dell’uomo. E quando questi, con la sua disobbedienza merita di essere allontanato dall’Eden, il cuore di Dio ne resta lacerato. Per giustizia l’uomo viene allontanato perché ha tradito la fiducia, l’amicizia, l’alleanza con Dio e, da quel momento, dovrà riscattare con il sudore, il lavoro e con sacrifici (immolazioni) la sua vita.
Ma chi può rendere piena giustizia a Dio? Solo un altro Dio lo potrebbe essendo alla sua altezza e di pari dignità. Come potranno quindi i sacrifici dell’uomo raggiungere la dignità dovuta e rendere giustizia a Dio? Con le sue sole forze l’uomo non potrà acquistarsi la dignità di essere alla pari con il suo creatore.
Se l’uomo non può diventare dio è Dio, allora, che si fa uomo per poter permettere all’oggetto del suo amore (l’uomo) di assolvere alla giustizia ed essere così riscattato o, come dice il termine latino, redento. A questo sacrificio d’amore è lo stesso Figlio di Dio che si propone convinto che solo un donarsi totalmente per amore può riaprire il cuore dell’uomo verso Dio.
Il Figlio di Dio potrebbe incarnarsi in un uomo perfetto, già formato, come lo fu Adamo e apparire in tutta la sua maestà e potenza come era l’idea del Messia atteso da Israele. Ma Dio non vuole atterrire l’uomo o attirarlo a sé con la forza o la paura di punizioni eterne. Vuole che il suo amato ritorni a Lui in uno slancio di amore, come l’innamorato alla sua sposa. L’incarnazione, quindi, deve essere l’immagine della tenerezza di Dio. E quale immagine più tenera se non quella di un bambino che per crescere ha bisogno di carezze, di affetto e di cura amorosa?
Dio si fa piccolo per fare noi grandi, scende in terra per far salire noi in cielo. L’incarnazione è il “tempo degli amanti”. Per comprendere questo mistero è necessario che anche noi ci facciamo fanciulli, perché il cuore dei fanciulli non sa portare rancore né odio e subito dimentica le offese subite. E anche se siamo stati a lungo peccatori, accogliendo Cristo siamo perdonati e redenti perché “l’Eterno Padre non sa disprezzare il sangue di Gesù Cristo che paga per noi”.
Nell’incarnazione il Figlio di Dio da grande si fa piccolo, povero, servo, debole, si assume le colpe dell’uomo non solo per riscattare l’uomo con il suo sangue, con la sua stessa vita immolata sulla croce ma anche per aiutarlo nel suo cammino di rinascita interiore che lo deve portare ad amare con lo stesso
amore con cui Dio lo ama. Con il suo esempio vuol far comprendere all’uomo che un cuore che ama deve darsi tutto a tutti, vincere le proprie passioni quali la brama di ricchezze, la superbia e l’amore dei piaceri mondani per poter così aprire il suo cuore verso i propri fratelli e quindi a Dio stesso che ama tutti in eguale misura.
Dio che nessuno può vincere è stato vinto dall’amore e quest’amore lo ha portato a farsi uomo e a sacrificarsi per amore dell’uomo.

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Ivan Ziatyk  -Ω-
dal Messale redentorista

Sacerdote e vicario generale della Chiesa grecocattolica ucraina, nacque il 26 dicembre 1899 ad Odrekhova (Sjanok, Sanok) in Galizia. Dopo il ginnasio a Sjanok, nel 1919 entrò nel seminario di Peremyshl e nel 1923 fu ordinato sacerdote.
Dal 1925 al 1935 fu prefetto e professore di teologia nel seminario di Peremyshl. Il 15 luglio 1935 entrò tra i Redentoriosti. Dopo il noviziato insegnò teologia e scrittura nello studentato di Gholosko (Lviv). Nel gennaio 1948 fu nominato viceprovinciale e vicario generale di tutta la Chiesa grecocattolica ucraina.
Arrestato il 24 gennaio 1950, per quasi due anni visse nelle carceri di Zolochiv, di Lviv e di Kiev. Il 21 novembre 1951 fu condannato a dieci anni di lavori forzati e trasportato nei lager di Ozerlag (Ozernyj) in Siberia.
Il venerdì santo del 1952 fu cruentemente seviziato a bastonate. Si spense tre giorni dopo, il 17 maggio, in uno degli ospedali del luogo.

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Laico  -Ω-
di Aldo Savo

Nel linguaggio ecclesiale il termine laico indica una persona che appartiene al popolo di Dio ma ed è “slegato” dalla gerarchia ecclesiale (vedi voce: religioso). Nei testi del Nuovo Testamento il termine laico non compare esplicitamente, ma in essi è riportata l’esperienza dei primi cristiani che danno la loro testimonianza al Vangelo di fronte al mondo.
Nel periodo storico di S. Alfonso abbiamo le confraternite o compagnie: associazioni di laici, canonicamente erette, con propri statuti. Esse svolgono opere di carità verso il prossimo, assistendo i confratelli infermi e suffragando le anime dei defunti. Nei centri maggiori assistono carcerati e condannati a morte, erigono ospedali per gli ammalati poveri e ricoveri per i pellegrini diretti in Terra Santa o a Roma, in visita alla tomba di San Pietro.
Una speciale attenzione al laicato sembra apportarla l’opera svolta dal nostro san Clemente Maria Hofbauer, in particolare nell’ultimo periodo della sua vita, quando si stabilisce a Vienna (inizio dell’800): egli cerca di coinvolgere i laici nel suo molteplice impegno apostolico per incidere in maniera più profonda e duratura nella società europea del suo tempo.
Nella seconda metà del XX secolo, grazie al Concilio Vaticano II, i laici iniziano a trovare una “dimensione vitale” in cui esprimere i loro doni. L’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Christifideles laici offre impulsi espliciti che manifestano profonde trasformazioni capaci di rendere anche i laici protagonisti dell’azione salvifica che la chiesa manifesta nel suo agire pastorale.
Seguendo questa ventata di novità anche la nostra Congregazione inizia a pensare e definire la figura del Missionario Laico come collaboratore attivo e partecipe della vita apostolica della Congregazione redentorista per un reale arricchimento reciproco. I missionari laici sono fedeli laici (uomini o donne, sposati o no), dalla fede matura e dalla testimonianza coerente, che, chiamati dallo Spirito a seguire Cristo Redentore più da vicino, decidono di condividere la spiritualità e la missione della comunità redentorista; scelgono una forma stabile di associazione, cioè dì collaborazione e di partecipazione alla sua vita apostolica; si impegnano ad attuare la missione redentorista laicalmente, cioè «nelle loro condizioni di vita, nei loro doveri o circostanze e per mezzo di tutte queste cose» (cf. LG, n. 41). La comunità redentorista mette a disposizione dei laici la ricchezza e la fecondità del suo patrimonio spirituale e materiale.
I missionari Laici iniziano un cammino di discernimento che li porta alla riscoperta della loro vocazione battesimale con la capacità di rispondervi con prontezza e generosità; all’esperienza di inabissarsi nella spiritualità e nella missione redentorista. La comunità dei missionari si impegna a costruire un proficuo dialogo: ogni Redentorista è stimolato ad accresce l’interesse per il mondo del laicato affinché egli si possa arricchire di tutto ciò che lo Spirito Santo gratuitamente dona attraverso la loro persona.
Segno visibile di tale cammino di crescita comunitario sarà il dedicare la propria vita agli abbandonati, soprattutto a chi è messo ai margini nella società ed a quelli che vivono una dimensione di vita povera sia materiale sia spirituale. È impegno della comunità redentorista, insieme con i laici, ad individuare le “strategie” pastorali più adatte rispondere alle diverse necessità nel contesto sociale in cui vivono. Essi eviteranno di adattare degli schemi “preconfezionati”!
Animati tutti dal carisma alfonsiano, ci s’impegnerà a trovare quei percorsi d’evangelizzazione dei poveri che avranno il fine di attuare una prassi missionaria dove gli stessi poveri coevangelizzeranno. I missionari e i laici redentoristi, alla scuola del Vangelo, comprenderanno e vivranno sempre meglio le ricchezze che Dio ha seminato nei solchi dell’umanità.
Su tale istanze da circa 20 anni nella Congregazione è iniziata un’esperienza molto stimolante che raggruppi i laici denominati dalla sigla LAR (Laici Associati Redentoristi). Coloro che appartengono ai LAR dopo ampio discernimento si associano alla Congregazione in forma pubblica attraverso un giuramento. Essi condividono con i Redentoristi, il carisma, la spiritualità e l’apostolato.

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Libertà  -Ω-
di Antonio Donato

Mamma, questa sera esco. Posso rientrare dopo mezzanotte?». «No! È troppo tardi». «Papà, domani mi serve la macchina! Posso usarla?». «No! Hai preso la patente da poco ed è troppo pericoloso». «Professore posso andare in bagno?».
«No, sei già uscito la scorsa ora». «Uffa! Non sono libero di fare niente?».

Quante volte è risuonata sulla nostra bocca una frase di questo tipo: Non sono libero di… c’è sempre qualcuno che mi dice di non… non posso fare niente… se potessi farei, ma la mamma mi impedisce di…
Il problema riguarda la nostra libertà o per lo meno quello che noi pensiamo sia libertà. Spesso, intendiamo la libertà come possibilità di appagare i propri capricci, impulsi, desideri. Fare ciò che ci piace senza preoccupazioni e senza limiti…
Ma la Libertà è qualcosa di più! In una delle sue opere più importanti, Bernhard Häring, teologo redentorista, afferma che la Libertà, quella con la “L” maiuscola non può confondersi con la licenza di poter fare qualunque cosa trascurando il fatto che la libertà non è mai il contrario della responsabilità.
Volendo precisare il significato di Libertà, allora, la potremmo definire come la capacità di disporre creativamente e responsabilmente di se stessi e del proprio futuro. Creativamente, perché, avendo noi la ragione, a differenza degli animali che sono guidati dal solo istinto, l’uomo può agire in modo sempre
«nuovo». Può introdurre nella catena normale degli eventi qualcosa d’imprevedibile e che non esiste già prima. Responsabilmente perchè non si può parlare di Libertà senza responsabilità. È infatti la responsabilità ad aiutare l’uomo a superare il livello dell’istinto e a cogliere il proprio progetto di vita vivendo da protagonista il proprio tempo.
La Libertà, dunque, è un valore dinamico. Una realtà in continuo movimento. Un cammino di “liberazione” dai condizionamenti interni ed esterni, che gli psicologi chiamano libertà – da, per raggiungere la pienezza della Libertà cioè la Libertà – per crescere nella responsabilità in vista di un progetto da realizzare nella vita capace di ricentrare tutta l’esistenza.
Allora non sono i “non” a mettere in discussione la nostra Libertà. Forse la condizionano o, ancora meglio ci condizionano. Ma sono proprio i “non e i suoi fralelli” a porci di fronte alla necessità di decidere e quindi di esercitare in modo responsabile o irresponsabile la nostra Libertà. Un comando, positivo o negativo esso sia, ci chiama a decidere della realtà e di noi stessi… dietro l’espressione «cosa devo fare?» sono sempre messe in gioco sia la responsabilità del momento che sto vivendo, e in cui sono chiamato a decidere, il qui ed ora… sia la responsabilità della mia vita nella sua totalità il mio futuro noi, siamo il frutto delle nostre scelte!

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Madonna del Perpetuo Soccorso  -Ω-
dal Messale redentorista

La beata Vergine Maria, Madre di Dio, intimamente partecipe all’economia della salvezza, specialmente nel mistero della Redenzione operata da Cristo, coopera con il Figlio alla salvezza degli uomini. Per conseguenza è per tutti Madre del Perpetuo Soccorso.
Una sua Immagine sotto questo titolo, secondo un’antica tradizione, fu portata a Roma dall’isola di Creta verso la fine del secolo XV e collocata nella chiesa di S. Matteo in via Merulana durante il pontificato di Alessandro VI. Ivi fu venerata dai fedeli per circa tre secoli. In seguito, distrutta la chiesa sotto il governo napoleonico, anche quella icona scomparve: finché, provvidenzialmente ritrovata nel 1866, fu affidata, per interessamento del Sommo Pontefice Pio IX, ai Redentoristi che la esposero alla pubblica venerazione nella chiesa del Santissimo Redentore dedicata a Sant’Alfonso.
Da allora il culto di quest’immagine miracolosa è andato sempre crescendo tra i fedeli, e ora è largamente diffuso in tutto il mondo.

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Maria  -Ω-
di Alfonso Amarante

La devozione alla Madonna, Madre di Dio (theotókos) e madre nostra, è radicata nel cuore della Congregazione del Santissimo Redentore e integralmente ereditata dalla tradizione della Chiesa, dalla dottrina e dal cuore di Alfonso de Liguori, espressione della sua pietà ed esperienza religiosa. Pertanto la Congregazione ha una fisionomia tutta cristologicomariana. Alfonso con la vita, la predicazione, gli scritti ha cantato dovunque Le glorie di Maria (Napoli 1750), insieme all’annuncio gioioso dell’abbondante redenzione.
Come Maria, madre di misericordia, ogni Redentorista è chiamato a svelare ai poveri il volto di Dio, ricco di misericordia, in un rapporto di amore fiducioso, filiale e insieme timoroso.
Nel Settecento, secolo attraversato dal giansenismo e da un culto riduttivo alla Madonna (of Della regolata devozione de’ cristiani di L. A. Muratori del
1747), Alfonso è stato apostolo generoso e “massimalista” del culto mariano. “Non oscura la gloria del Figlio, – era solito dire – chi onora molto la Madre”.
Nel 1730 a Scala (SA), nella “Grotta delle rivelazioni”, ascolta la voce di Maria che lo chiama a fondare un Istituto per la evangelizzazione dei più abbandonati. E nell’Istituto redentorista la Madonna è venerata particolarmente sotto due titoli:
* Immacolata, verità alla quale Alfonso credeva fermamente già cento anni prima della definizione del dogma e che sostenne nel suo primo e più celebre dei Discorsi (cf. Le Glorie di Maria, in Opere ascetiche, VII, 943). Fece anche voto di difenderla fino al sangue e la dichiarò celeste patrona dell’Istituto;
*
Madonna del Perpetuo Soccorso (Madonna della Passione), la cui immagine è stata affidata ai Redentoristi da Pio IX nel 1865 per farla conoscere e amare nel mondo. Il titolo interpreta in modo emblematico il carisma del Missionario Redentorista, costantemente impegnato nella evangelizzazione.
“Le sante missioni altro non sono che una continuata redenzione che il Figlio di Dio sta facendo nel mondo per mezzo dei suoi ministri…” (Costitu zioni del 1764, I, 1).
Per rispondere a questo sublime mandato interpongano i meriti e l’intercessione potentissima di Maria e dei ss. Apostoli i quali, con la beata Vergine, sono i principali protettori di tutti i missionari, specialmente del nostro Istituto” (ibid., I, 5).
Eternamente predestinata, Maria ha abbracciato, dal sì dell’Annunciazione fino al Calvario, il progetto redentivo di Dio, diventando Corredentrice e soccorritrice del genere umano. I Redentoristi, come Maria, sono liberi e pronti “a servizio” della redenzione, in piena disponibilità per i più poveri, per i più peccatori.
Nelle missioni popolari itineranti, accanto al predicatore, non deve mai mancare la statua della Madonna, né la predica sul suo materno patrocinio. “È lei che predica la missione” – ricordava spesso Alfonso.
Lo stesso stemma della Congregazione porta i monogrammi di Gesù e di Maria (Statuti Generali del 1982, 6). Anche lo stile di vita del Redentorista richiama questo culto mariano. In ogni stanza, abitata dai confratelli dell’Istituto, ci deve essere una immagine di Maria.
L’abito religioso, crocifisso al petto e corona del rosario al fianco sinistro (Costituzioni del 1982, 45, 4) è segno di identificazione della spiritualità redentorista (ibid.). Così la meditazione assidua su testi mariani, la recita quotidiana del rosario, le piccole astinenze il sabato e nelle vigilie delle feste liturgiche della Madonna (ibid., 32), recita di un’Ave Maria, prima dell’inizio di un lavoro, confermano la solida e insieme tenera devozione alla Madonna. Alfonso indossava con devozione l’abitino della Madonna del Carmine e ne diffondeva la pratica. Inoltre raccomandava ai congregati di predicare ogni sabato sulla Madonna (sabatino). Questa tradizione in seguito è stata alquanto condizionata dalla liturgia della messa vespertina prefestiva.
Maria, perfettamente unita a Cristo Redentore, solidale con le persone da salvare, vera icona e inizio della Chiesa, modello di perfezione e di vita per tutti, speranza viva, mediatrice di tutte le grazie, avvocata presso Dio, è l’immagine che compendia la vita dell’apostolo redentorista.
Maria, infine, si pone ai giovani, particolarmente oggi, “Madre più madre” come risposta alla crisi che avvolge la loro vita, con tutti i pericoli. Maria non è qualcosa di superato o irraggiungibile, fragile, irreale, ma più che mai giovane unica e speciale della famiglia umana. Vera giovinezza è l’innocenza del cuore.
Maria, invocata Immacolata, piena di Grazia, pronta al Perpetuo Soccorso, si rivela costantemente protesa ad accogliere, a proteggere e confortare chiunque entra a far parte della grande famiglia redentorista.

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Metodij Dominik Trčka  -Ω-
dal Messale redentorista

Nacque il 6 luglio 1886 a Frýdlant nad Ostravicí in Moravia (attuale Repubblica Ceca). Nel 1902 entrò nell’educandato dei Redentoristi della provincia di Praga e il 25 agosto 1904 emise la professione religiosa. A compimento degli studi fu ordinato a Praga il 17 luglio 1910.
Impiegò i primi anni di sacerdozio nelle missioni popolari. Nel 1919 fu mandato a lavorare fra i grecocattolici nella zona di Halic in Galizia, e quindi in Slovacchia, nell’eparchia di Prešov, dove svolse un intenso lavoro missionario. Nel marzo del 1935, dalla Congregazione per le Chiese Orientali fu nominato visitatore apostolico delle monache basiliane a Prešov e a Užhorod.
Con l’erezione della ViceProvincia redentorista grecocattolica di Michalovce, il p. Trčka, fu nominato viceprovinciale (23 marzo 1946). Subito si impegnò per la fondazione di nuove case religiose e la formazione dei giovani redentoristi.
Nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1950 il governo cecoslovacco soppresse tutte le comunità religiose. Dopo un processo sommario, il 21 aprile 1952, fu condannato a 12 anni di carcere, durante i quali subì estenuanti interrogatori e terribili torture.
Trasferito nell’aprile del 1958 nella prigione di Leopoldov, a seguito di una polmonite contratta nella cella di rigore dove era stato rinchiuso per aver cantato un inno natalizio, morì il 23 marzo 1959.
Sepolto nel cimitero della prigione, dopo la restaurazione della Chiesa grecocattolica, il 17 ottobre 1969, il corpo fu traslato dai confratelli a Michalovce, dove attualmente riposa nella chiesa redentorista dello “Spirito Santo”.
Sua Santità Giovanni Paolo II il 4 novembre del 2001 lo ha proclamato beato in piazza San Pietro.

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Missione  -Ω-
di Alfonso V. Amarante

Il temine missione significa letteralmente “inviato”. Nel mondo antico per missionario si intendeva il soldato che saltando a cavallo percorreva miglia e miglia per portare una lettera o semplicemente delle notizie. L’origine teologica del termine, invece, è la traduzione latina della parola greca apostolo. L’apostolo era colui che una volta recepito ed interiorizzato l’insegnamento di Cristo, veniva mandato tra gli ebrei e i pagani ad annunciare il “Regno di Dio”.
Nel progetto di S. Alfonso e dei suoi primi compagni la comunità redentorista è comunità apostolica che “seguita” il Redentore tra gli abbandonati predicando la Parola. L’evangelizzazione degli abbandonati è la chiave interpretativa di tutte le scelte della Congregazione anche oggi. La missione nel senso classico termine, cioè come forma di apostolato, è una forma di fedeltà a questa intuizione.
Per Alfonso, tutti gli uomini sono chiamati alla santità. Essa consiste nell’amore verso Dio e nell’uniformità alla sua volontà. L’uomo nella sua fragilità durante il cammino terreno può allontanarsi da Dio. Nell’ottica redentorista la missione è una forma di apostolato che permette, attraverso la predicazione della Parola, di ritornare a Dio. Missione è quindi ogni forma di apostolato per gli abbandonati.
La metodologia missionaria è sviluppata in modo da andare incontro alle attese ed alle necessità degli abbandonati. La missione redentorista è un incontro pastorale con gli abbandonati laddove essi vivono. Essa è un intervento pastorale straordinario dove non arriva la pastorale ordinaria.
L’attività missionaria redentorista è incentrata intorno ad alcune parole, come: 1. Missioni: le quali sono finalizzate all’annuncio della parola di Dio tra i più abbandonati. Tra coloro che sono privi di aiuto spirituale, particolarmente il popolo delle campagne e dei casali. 2. Missione popolare: si parla di missione “popolare” poiché il linguaggio, lo stile utilizzato dai missionari, l’orario delle funzioni devono adattarsi alle esigenze degli “ultimi”. 3. Missio­ ne parrocchiale: con questa espressione si intende l’apostolato che i redentoristi attuano nelle proprie comunità. Esse devono essere centro di accoglienza, di catechesi e di preghiera. 4. Predicazione: è incentrata principalmente intorno all’amore redentivo donato di Dio attraverso suo figlio Cristo Gesù.
5. Vita devota: i missionari insegnano alcuni atti per conservare la fede ed i frutti della missione, come la visita al Santissimo Sacramento, la recita del santo rosario etc. 6. Ritorno missionario: una volta annuncia la salvezza in una città i redentoristi a distanza di tempo vi ritorno per consolidare il bene operato e le conversioni.
Ogni religioso redentorista, sia che operi in terra di missione (città o nazione di un altro continente), sia che esplica il suo ministero in una comunità, è mosso dalla consapevolezza di dover evangelizzare i più abbandonati.

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Morte  -Ω-
di Francesco Ansalone

Nel lessico moderno la parola morte è essenzialmente negativa ed evoca con tristezza la fine di ogni cosa e di ogni vita. Molteplici le riflessioni filosofiche che lungo la storia hanno tentato una razionalizzazione di essa.
Nella visione alfonsiana della morte possiamo notare subito ed apparentemente l’aspetto negativo della stessa e di conseguenza, ciò che questa negatività comporta, ossia la conclusione, voluta o non voluta, della esistenza terrena, che talvolta sembra negli scritti del Santo avere una valenza solo negativa, descrivendola come la triste conclusione della vicenda umana.
Nel linguaggio alfonsiano essa implica anche un altro aspetto, ossia la conversione e la fugace opportunità per il cristiano di far tesoro del tempo, del presente per potersi preparare all’incontro con il suo Signore. È noto tra l’altro come il Santo abbia scritto un opera che porta il titolo “Apparecchio alla morte”. In essa mentre il Santo sembra indugiare nella descrizione di un uomo sul punto di morte, almeno questo nella prima parte, subito dopo passa alla necessità di un totale ravvedimento e quindi di un pronto ritorno a Dio.

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Musica  -Ω-
di Paolo Saturno

La definizione del termine musica presenta non poche difficoltà determinate dalla complessità della natura stessa della materia musicale. In linea di massima è ancora accettabile quella che recita: “La musica è l’arte del suono e del canto”. Oggi nel concetto di musica rientra anche quello di linguaggio. Anzi la musica è presentata come linguaggio universale non verbale. L’accostamento del linguaggio musicale a quello parlato è basato sul comune denominatore di analoghe grammatiche e sintassi linguistiche.
La musica varia da popolo a popolo, da epoca ad epoca. In rapporto al suo contenuto – almeno in occidente – normalmente essa viene divisa in gregoriano, polifonia (a sua volta divisa in antica, nuova, fiamminga e rinascimentale), melodramma (includiamo in esso anche le varie forme di musica vocale) e musica strumentale. In rapporto ai periodi, essa viene catalogata in musica medioevale, rinascimentale, barocca, classica, romantica e moderna.
Canto gregoriano e Polifonia hanno in comune la base modale in quanto costruiti su quelle particolari scale dette modi gregoriani o toni ecclesiastici. Melodramma e musica strumentale, invece, sono etichettati come musiche armonico-tonali in quanto costruite sulla base delle tonalità (maggiori e minori) e dell’armonia, che si sono sviluppate dal XVII sec. in poi. Nel Novecento si è frantumata la grammatica tonalearmonica, determinando la nascita dellato nalità e della serialità o dodecafonia conseguente alla saturazione dell’armonia, grazie all’accordo di ventitreesima teorizzato da A. Vitale C.Ss.R.
Nel complesso panorama storico della musica rimane ancora da lumeggiare l’aspetto popolare e, in particolare, quello sacro, di cui fa parte il filone alfonsianoredentorista. Di questo si sta delineando il percorso storico e se ne sta riconoscendo l’intimo legame con la specifica evangelizzazione. Con il termine filone alfonsianoredentorista intendiamo la produzione che, nata dai canti di Sant’Alfonso – Canzoncine e Duetto tra l’anima e Gesù Cristo –, si è sviluppata fino ad oggi in Italia e in tutti i paesi del mondo, in cui operano i Redentoristi.
La musica alfonsianoredentorista abbraccia forme popolari e colte. Sostanzialmente essa nasce come supporto alle attività apostoliche liguorine. In tal senso, ha svolto e svolge un ruolo pedagogicodidattico o di strategia missionaria (cf Convegno internazionale Musica e Strategie pastorali di età moderna – Università di Roma “La Sapienza” 1718/02/2006). A tal proposito va detto che essa, tra tutte le musiche prodotte nei sec. XVIIXIX per lo stesso scopo, al momento rimane l’unico repertorio conosciuto e studiato. Pur non essendo liturgica in senso stretto, essa è utilizzabile anche per la liturgia.
Le canzoncine della tradizione alfonsianoredentorista sono rapportabili, idealmente e per contenuto, agl’inni didascalicolaudativi della tradizione cristiana orientale e occidentale, alla lauda francescana duotrecentesca, a quella giustinianea quattrocentesca e a quella filippina dei sec. XVIXVIII.
La Canzoncina alfonsiana, in particolare, ha rappresentato il modello formale dell’analoga produzione, che si è sviluppata su scala internazionale fino ad oggi. Essa canta i momenti fondamentali della vita cristiana e devozionale (Natività, Passione, Eucaristia, Maria, santi, ecc.).
In quanto risultato di una tradizione orale, essa rientra nel settore dell’Etnomusicologia. Ha determinato anche la produzione di opere musicali di considerevole spessore quali, ad es., le cantate oratoriali di A. Vitale. Il suo studio ha incentivato la ricerca musicologica relativa alla cantata sacra italiana del Settecento. Il canto alfonsiano Tu scendi dalle stelle rimane la melodia per eccellenza del Natale cristianocattolico.

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Natale  -Ω-
di Antonio Pupo

Il luogo più proprio e qualificato della «apparizione» dell’amore di Dio è, per Sant’Alfonso, il Natale di Gesù Cristo. Ed è chiaro per lui che tra la greppia (Praesepium) di Betlemme e il Golgota di Gerusalemme c’è una linea diretta e continua, quindi una perfetta identità di contenuti: la gloria cantata dagli angeli nella notte di Natale è la stessa annunciata dal Vangelo di Giovanni il Venerdì santo.
Davanti al bambino Gesù Sant’Alfonso è come fuori di sé, in estasi, colmo di gioia. Manifesta tutta la sua delicatezza senza misura, in cui si coglie anche il suo tipo di approccio a Dio. Lo si vede, propriamente, dall’atteggiamento affettuoso che assume. Chi vuol sapere chi è Dio l’osservi davanti al bambino nella culla: il puro amore. Un S. Alfonso così, libero e incantato, forse non lo si incontra mai nei suoi scritti tranne in quelli sul Natale e appunto nelle sue poesie natalizie (Tu scendi dalle stelle, Quanno nascette Ninno, Bambino mio bellissimo, Fermarono i cieli, Ti voglio tanto bene).
Possiamo cogliere quattro «sentimenti» che sembrano caratterizzare l’atteggiamento di Sant’Alfonso davanti al presepio: il primo sentimento alfonsiano davanti al bambino Gesù è lo stupore. Stupore, anzitutto, per ciò che Alfonso vede: un bambino «dint’i panni... arravugliato» sul cui volto splende quello di Dio. Un bambinoDio sceso «dalle stelle al freddo e al gelo», che ha abbandonato la forma divina e ha assunto, come si esprime l’apostolo Paolo, quella di «servo». Ma perché tutto questo? Cosa può spingere Dio a
«farsi uomo»? L’amore, risponde Sant’Alfonso. Quel bambinoDio che giace nella mangiatoia insieme agli animali è l’espressione incantevole del fatto che Dio ama (v. Incarnazione).
L’altro sentimento di Alfonso è la tenerezza: la sua affettuosa delicatezza per il bambino. Una nascita, dunque, per attrarre, per sedurre: «I bambini per se stessi si fanno amare e si tiran l’amore di ciascuno che li guarda» (Novena del Santo Natale, Disc. II). La tenerezza alfonsiana non è un sentimento contemplativo, spinge alla risposta, sfocia nella iniziativa da parte dell’uomo nell’adorare il Dio che si è fatto bambino.
Ma la tenerezza alfonsiana si fa più profonda in un terzo sentimento, questa volta doloroso: la compassione. E legata alla croce, la cui ombra si stende già sulla culla del bambino. L’amore di Dio non è un’esibizione. Nella greppia di Betlemme si svolge il primo atto di una storia d’amore che si concluderà drammaticamente sul Golgota, nella sconfitta della morte. In realtà, quella culla è sovrastata dall’idea della missione, del compito di cui si è fatto carico il bambino per ricondurre tutto nell’ordine dell’amore. Compatire è abitare
con la persona amata facendo proprio il suo dolore: «la compassione comporta pena», scrive. L’amore non è questione di parole.
Infine, la gratitudine: la risposta all’amore trascendente. Per Sant’Alfonso è questione di logica e di coerenza: a chi ama non può negarsi l’amore. L’appello alfonsiano, come quello evangelico, è rivolto al cuore, ossia alla libertà. Solo con la libertà si può rispondere a Dio. Alfonso ne è convinto: mai l’amore può essere forzato.
Ma se Dio non può costringere, può attendere. Può aspettare che gli uomini si persuadano dell’amore. Il Natale di Cristo è, per Alfonso de Liguori, l’inizio fiducioso di questa attesa.

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Nicholas Charnetsky  -Ω-
dal Messale redentorista

Vescovo, esarca apostolico di Volyn’ e Pidljashja, nacque il 14 dicembre 1884 nel villaggio di Semakivtsi (Ucraina Occidentale).
Alunno del Collegio Ucraino a Roma dal 1903 al 1909, conseguì il dottorato in teologia presso la Pontificia Università Urbaniana. Ordinato sacerdote il 2 ottobre 1909, insegnò filosofia e teologia nel Seminario di Stanislaviv. Nel 1919 entrò nella Congregazione del SS. Redentore. Dal 1926 fu missionario fra i grecocattolici in Volyn. Nominato vescovo titolare di Lebed e visitatore apostolico per gli ucraini cattolici di Volyn e Podlachia, fu consacrato l’8 febbraio 1931 nella chiesa di Sant’Alfonso a Roma.
Espulso da Volyn nel 1939 a seguito dell’occupazione sovietica, si trasferì a Lviv. L’11 aprile 1945 fu arrestato insieme a tutti i vescovi grecocattolici. Condannato inizialmente a cinque anni ai lavori forzati in Siberia, in seguito la pena fu aumentata di altri dieci anni. Dal 1945 al 1956 visse in una trentina di lager e prigioni sovietiche, subendo un totale di 600 ore di torture e di interrogatori.
Scarcerato nel 1956, fu riportato a Lviv quasi moribondo. Ripresosi inaspettatamente, guidò dal suo letto la Chiesa cattolica ucraina che sopravviveva nelle catacombe. Morì a Lviv il 2 aprile 1959, all’età di 75 anni. E’ sepolto nella chiesa redentorista di san Giosafat a Lviv.
Sua Santità Giovanni Paolo II il 27 giugno 2001, durante la visita apostolica a Lviv lo ha proclamato Beato insieme ad altri 24 martiri della Chiesa grecocattolica ucraina.

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Novissimi  -Ω-
di Salvatore Brugnano

Andando al catechismo, abbiamo imparato a conoscere questa parola “i novissimi” e poi l’abbiamo dimenticata, forse l’abbiamo rimossa dal nostro inconscio. Nel catechismo ci hanno spiegato che i novissimi sono: morte, giudizio, inferno e paradiso. La parola “novissimi” in qualsiasi lingua non si comprende molto tanto bene se alle spalle non si ha un background; infatti è una parola latina che vuole dire: le ultime realtà, quelle che stanno alla fine di tutta la storia.
Noi normalmente viviamo sperimentando le verità penultime: il nostro studio, il nostro lavoro, la vita familiare, l’impegno culturale, la politica… Tutte queste cose fanno parte delle realtà penultime. Le realtà ultime sono quelle che diventano definitive. La morte è una realtà definitiva perché è senza appello, non c’è la possibilità di rimandarla o di ripeterla; così il giudizio, così l’inferno e il paradiso sono realtà ultime, definitive, sono i “Novissimi”. Sostanzialmente corrispondono a quella che in teologia si chiama l’escatologia cristiana. (“escatologia” vuole dire la stessa cosa che “Novissimi”; è una parola greca invece che latina).
A prima vista questo tema non sembra proprio un bell’approccio al dialogo d’amore che ci unisce al nostro Dio. Tuttavia queste parole racchiudono il nucleo essenziale della speranza cristiana. Ma per comprendere il loro significato fondamentale bisogna evitare di cadere nell’atteggiamento di vana curiosità: per es. sapere quali saranno i segni che annunciano la fine degli uomini, quanti saranno i salvati e quanti i dannati… ecc.
La Bibbia non risponde a queste curiosità, non ci presenta una cronaca degli eventi futuri. Oggi c’è ancora chi vorrebbe leggere il libro dell’Apocalisse (che è il libro della rivelazione finale) come se fosse una ripresa filmata in anticipo degli avvenimenti della fine... Questi eventi finali rimangono per noi un mistero: essi costituiscono l’incontro finale con Dio, e siccome Dio è un mistero, l’incontro con Lui rimane avvolto nel velo del mistero.
Come del volto di Dio noi conosciamo molti (ma non tutti) lineamenti (l’amore, la misericordia, la santità) così sul nostro futuro possiamo sapere alcune cose; ma soprattutto possiamo dare un contenuto valido alla speranza per quello che riguarda il nostro futuro.
Ecco cosa deve interessarci: l’atteggiamento della speranza. Non è tanto importante sapere le cose, quanto sperare nel modo giusto. La Bibbia non ci dà delle informazioni sul futuro, ma delle esortazioni a camminare verso un futuro di salvezza.
I novissimi erano il nucleo fermo delle prediche “forti”, adatte a smuovere il cuore e convertire gli animi dei fedeli induriti nel peccato. La tradizione della predicazione redentorista ha onorato questo tema, suscitando numerose e sensibili conversioni.
Lo stesso Sant’Alfonso, uomo del suo tempo e non indifferente alla vitalità espressiva del barocco, si indirizzava al popolo semplice e analfabeta con le tecniche “visive” del suo tempo, le quali molte volte tenevano il posto della lettura: per esempio, mostrare l’immagine di un dannato a tutto il popolo dopo la predica sull’inferno; sul finire della predica sulla morte prendere un teschio in mano, non per un “giudizio fittizio” ma per delle constatazioni molto realistiche… (es. Prima eri bello… e adesso?...)
Sant’Alfonso, successivamente, non fu più contento delle “prediche forti” e verso il 1768 diede alle stampe un foglietto di 28 pagine dove chiedeva ai predicatori di parlare più che dei Novissimi dell’amore santo amore che “infiamma i cuori”.

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Novizi  -Ω-
di Antonio Perillo

I novizi sono dei giovani, che dopo un intenso cammino di fede ed un attento discernimento vocazionale chiedono di poter fare esperienza della vita nella Congregazione. Durante il noviziato, che in genere dura un anno, si impegnano ad approfondire e a valutare l’autenticità della loro vocazione a seguire Cristo e ad apprendere la storia, la vita e lo spirito della Congregazione, che imparano ad amare e ad apprezzare.
Aiutati dal Maestro e dalla comunità, seguono un intenso percorso formativo che li impegna a maturare in quelle dimensioni, indispensabili ad un missionario redentorista. Prima fra tutte è la maturità umana: è necessario accettare se stessi, i propri limiti e i propri pregi, per raggiungere un equilibrio psicoaffettivo da cui scaturisca uno stile di responsabilità, di dedizione, di apertura, di dialogo, di condivisione, di servizio umile e disinteressato specie verso i più abbandonati.
Unita e proporzionale alla precedente è la crescita spirituale che il novizio si impegna a perseguire soprattutto attraverso un’autentica preghiera personale e comunitaria, una ricerca continua della volontà di Dio nella propria esistenza e nel rendersi disponibile ad un continuo processo di conversione continua.
Inoltre durante il noviziato, attraverso esperienze di vita comunitaria, si aiutano i novizi a crescere nella vocazione alla vita fraterna. Perché imparino a costruire delle comunità che siano luogo di fede, di servizio e di mutua accettazione per rendere così più credibile ed efficace l’ annuncio della Parola di Salvezza.
Non ultimo, sarà l’approfondimento della vita redentorista attraverso lo studio e la meditazione: delle Costituzioni e degli Statuti della Congregazione, della vita e del messaggio del fondatore Sant’Alfonso Maria de Liguori e dei santi e beati redentoristi, del grande patrimonio spirituale e apostolico che la Congregazione ha maturato nei suoi quasi tre secoli di vita.
Tutto questo cammino ha lo scopo di far crescere i novizi nell’amore di Cristo e di portarli a donare e a dedicare senza riserve la propria vita a Lui, per essere insieme agli altri fratelli redentoristi degli apostoli audaci, semplici e liberi della Parola di Dio, specie tra coloro che sono i più abbandonati del nostro tempo.

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Orazione Mentale  -Ω-
di Antonio Perillo

L’orazione mentale è come l’ossigeno per la “vita nello Spirito”, è il retroterra indispensabile della stessa preghiera, che senza la meditazione alla fine si indebolisce. L’orazione mentale è necessaria a tutti per perseverare nella grazia e per progredire nella carità. «È certo che uno dei mezzi più grandi per farsi santo è l’orazione mentale, come dicono tutti i maestri di spirito… La luce, la forza e il fervore che sono necessari per camminare alla perfezione, nell’orazione si acquistano. Perciò tutti i santi sono stati uomini di orazione» (Riflessione ai Vescovi, in Opere Complete, vol. III, Torino 1847, p. 871).
I contenuti dell’orazione mentale per S. Alfonso sono sempre le verità che sollevano e danno Speranza come: la misericordia di Dio, la sua bontà e il suo amore, i misteri di Gesù Cristo, l’intercessione di Maria. In particolare la Passione perché qui, più che in qualunque altro argomento, si percepisce l’amore di Dio verso gli uomini. La passione di Gesù è “la meditazione buona per tutti”. Riassumiamo brevemente il modo di fare Orazione mentale secondo Sant’Alfonso: 1. Una breve preparazione (atti di fede nella presenza di Dio, di umiltà e di domanda di luce); 2. La meditazione (fermandosi su qualche verità eterna e sui Misteri di Cristo, servendosi abitualmente di qualche libro); 3. Scaturiscono dalla meditazione tre frutti: a.) fare affetti (atti di fede, di ringraziamento, di umiltà, di speranza, ma soprattutto atti di amore e di contrizione); b.) pregare (chiedendo a Dio principalmente amore e perseveranza); c.) risolvere (l’orazione deve terminare con una risoluzione concreta che coinvolga la vita).
E alla fine la conclusione che consiste nel ringraziare Dio dei lumi ricevuti; il proporre di osservare le risoluzioni fatte; e di chiedere a Dio, per amore di Gesù e di Maria, la forza di osservare i propositi fatti. (of Regolamento di vita di un cristiano, in Opere Ascetiche, vol. X, Roma 1968, pp. 282284).
Questo metodo che S. Alfonso suggerisce può essere utile anche a noi oggi, soprattutto se nella meditazione ci disponiamo ad “ascoltare” la Parola, lasciando che essa penetri nella mente e nel cuore, per poi ritornare a lui come preghiera.
Il momento dell’orazione è la risposta dell’uomo che ha così assimilato le potenzialità vitali della Parola, tramite la meditazione. Quando la Parola, letta e meditata, riesce a riscaldare d’amore la mente e il cuore per Dio, è il momento di passare alla contemplazione. Che fa riposare tranquillamente l’animo in Lui, in una comunione di pace e di amore. Da questa semplice e profonda unione, provocata dalla meditazione e dalla preghiera, derivano tanti frutti che condurranno necessariamente ad una conversione continua ed ad una vita vissuta nella carità.

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Passione  -Ω-
di Francesco Visciano

Con il termine passione indichiamo, in genere, l’animo travolto dai sentimenti, dove la razionalità lascia il posto alle emozioni. La psicologia ci mette in guardia dal pericolo di nevrosi: chi è investito dalla passione rischia di diventare pazzo. E di solito è vero che perdiamo la testa, soprattutto quando siamo innamorati.
Nella Sacra Scrittura tutti sono concordi nel dire che la passione è il momento centrale della storia della Salvezza, tanto che molti esegeti affermano che “il Vangelo è la storia della Passione del Signore con una lunga premessa”. Allora perché usare una parola così “inadatta” alla Sapienza di Dio per indicare il suo dono più grande? Perché il Signore ha letteralmente perso la testa per l’uomo, Egli “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 1617). Per dirla con s. Alfonso egli “è pazzo per amore” dell’uomo.
Dio è l’essenza dell’Amore, che desidera toccare e trasformare ogni uomo. Per amore si abbassò, prima nell’incarnazione e poi nella morte in croce, per far sperimentare all’umanità che non c’è amore più grande, più vero di quello donato gratuitamente, non c’è vera pace e felicità finché non diventiamo servi gli uni degli altri.
Donarsi totalmente a qualcuno nella prosperità è semplice, ma quando vengono le avversità torniamo ad essere razionali e fare calcoli. Nella croce noi contempliamo un amore che non conosce limiti, un Dio che è pronto all’offerta totale di sé per darci la prova suprema del suo amore.
Alfonso, nei suoi scritti, insiste sulla dimensione personale della salvezza. Nella Via Crucis dirà: “Considera, come Gesù Cristo camminando in questo viaggio colla croce sulle spalle a te pensava, e per te offriva a Dio la morte, che andava a patire”. Per te… personalmente siamo interpellati da quest’amore così grande.
La via della santità, allora, non è più semplice sforzo per raggiungere alte vette, ma diventa risposta grata e totale ad un amore donato totalmente e senza limiti. Così il termine assume il significato positivo di “appassionarci”, orientare tutte le nostre risorse a rispondere concretamente a questa sconvolgente proposta di amore.
La trasformazione del mondo e del nostro cuore passa attraverso la contemplazione di colui che hanno trafitto. In questo volto sfigurato siamo chiamati a riconoscere il Redentore del mondo. Se, come il Centurione, abbiamo il coraggio di affermare “davvero Costui è il Figlio di Dio” anche il dolore e la sofferenza perderanno i tratti foschi dell’assurdità e della disperazione per riempirsi di luce e di senso. La nostra vita è dono, dono di amore ed ha senso solo se è donata, solo se diveniamo sacrificio vivente in Cristo, solo se diveniamo misericordia e perdono, "dono per", dono gratuito per gli altri.

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Pasqua  -Ω-
di Ciro Vitiello

La Pasqua, come evento e come solennità, costituisce il centro intorno a cui si snoda la storia della salvezza e lo svolgimento dell’anno liturgico.
Pasqua, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, segna l’intervento di Dio a favore del suo popolo, significato come “passaggio” per la “liberazione”.
Nell’Antico Testamento la Pasqua si caratterizza in due momenti:
- Dio “passa” e “libera”, e permette agli Ebrei di “passare e di essere “liberati” dalla schiavitù.
- Dio finalizza la sua azione al dono della “legge” che ha il suo vertice nell’”Alleanza” del Sinai.
Questi due momenti di un’unica Pasqua sono menzionati e rivissuti nella celebrazione annuale della Pasqua ebraica.
Nel Nuovo Testamento Gesù porta a compimento il significato antico della Pasqua nella sua persona, fissandola anche in due momenti:
- Egli “passa” attraverso la vita e la morte e “libera” definitivamente l’umanità dalla schiavitù del peccato.
- La sua opera di salvezza viene sancita con il dono dello Spirito Santo a Pentecoste.
Questi due momenti, pur celebrati con solennità liturgiche distinte, fanno parte di una sola Pasqua nuova, costituendo l’inizio e la conclusione del tempo pasquale.
Centro della Pasqua è il Triduo “della beata passione, della morte e della risurrezione del Signore”. Da qui il valore fondamentale delle parole di Paolo: “Cristo è la nostra Pasqua, ed è stato immolato” (1 Cor 5,7).
L’insistenza negli scritti di Sant’Alfonso sul mistero della passione e morte di Gesù, sono il suo punto di forza per conoscere e vivere il mistero pasquale.
Se “la nostra Pasqua è Cristo immolato”, non si può presentare la Pasqua senza riferimento all’immolazione di Gesù, agnello senza macchia, offerto per la salvezza del mondo.
La Pasqua è presente nella celebrazione dei sacramenti della Chiesa, eminentemente nella celebrazione dell’Eucaristia. Durante la celebrazione della Pasqua ebraica, Gesù istituì la Pasqua nuova, anticipando nei riti del pane e del vino, l’offerta del suo corpo e del suo sangue sulla croce. Dicendo ai discepoli: “Fate questo in memoria di me”, prolungò nel tempo, fino a quando egli ritornerà, la sua Pasqua sacrificale.
“La Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente giorno del Signore o domenica” (Sacrosanctum Concilium, 106).

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Pietro Donders  -Ω-
dal Messale redentorista

Pietro Donders nacque a Tilburg in Olanda il 27 ottobre del 1809. Fin dalla prima giovinezza si sentì chiamato al sacerdozio, ma, per la povertà della famiglia, fu costretto a sospendere gli studi e a farsi tessitore come il padre. Ciò non gli impedì di insegnare nel tempo libero il catechismo ai bambini e di esercitare un influsso benefico sui suoi coetanei. Così fino ai 22 anni, quando, con l’aiuto del parroco poté entrare nel seminario minore di St. MichielsGestel come seminaristaoperaio, pagandosi col lavoro la retta mensile.
Diventato sacerdote il 5 giugno 1841, poté seguire la sua vocazione missionaria partendo volontario per il Suriname, allora colonia olandese.
Nei primi 14 anni pose la sua base operativa a Paramaribo, dedicandosi ai circa 2.000 cattolici ivi domiciliati, e portandosi periodicamente tra gli schiavi delle piantagioni (a Paramaribo se ne contavano circa 8.000 e più di 40.000 in tutto il Suriname), tra le guarnigioni dei forti militari, tra gli indiani e i neri.
Nel 1856 si offrì come volontario del lebbrosario governativo di Batavia, dove rimase continuamente, salvo due brevi intervalli, per 28 anni, curando nel corpo e nell’anima quei poveri infelici. Li lasciò, solo per alcuni mesi, nel
1866, quando chiese di entrare tra i Redentoristi ai quali era stato affidato dal Papa Pio IX il vicariato apostolico del Suriname. Vestì l’abito religioso il 1° novembre di quell’anno ed emise i voti il 24 giugno 1867.
La professione religiosa, associandolo ad una congregazione essenzialmente missionaria, gli diede un senso più vivo dell’apostolato comunitario, permettendogli di lasciare più spesso Batavia per dedicarsi alla conversione degli indiani e dei neri.
Ma il nome di Donders resta legato al lebbrosario di Batavia, dove morì, tra i suoi lebbrosi, povero tra i poveri, il 14 gennaio 1887, rimpianto come un benefattore e invocato come un santo.
Sua Santità Giovanni Paolo II lo ha beatificato in San Pietro il 23 maggio 1982, nel 250° anno giubilare della Congregazione del Santissimo Redentore.

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PGVR  -Ω-
di Michael Kelleher – Alfonso V. Amarante

PGVR significa Pastorale Giovanile Vocazionale Redentorista. Il fondatore dei Redentoristi, Alfonso de Liguori, ha speso tutte le energie della sua vita per annunciare ai più abbandonati la gioia immensa della salvezza, la possibilità di una vita nuova, rinnovata dall’amore.
Il carisma redentorista, che incarna l’intuizione fondamentale di Alfonso e della comunità delle origini, poggia su due elementi: 1. Seguire Gesù Cristo, il Redentore; 2. La predicazione della Buona Novella e l’abbondante Redenzione a coloro che sono abbandonati.
E chi più dei giovani, abbandonati e bistrattati dalle grandi agenzie educative, oggi hanno bisogno di accogliere e vivere insieme un progetto ampio di pienezza umana e spirituale?
Con la sigla PGVR la Congregazione dei Redentoristi intende offrire un itinerario che porti i giovani a vivere la gioia di scoprire che Cristo cammina con loro, si dona e offre continuamente un’esperienza di comunione per dirci che la vita ha senso solo se diventa dono per gli altri. Il Ministro ecclesiale della Pastorale giovanile può essere definito come la risposta della comunità cristiana alle necessità dei giovani e in contempo “la condivisione con l’intera comunità del dono unico dei giovani”.
La PGVR si propone fondamentalmente tre obiettivi:
• incoraggiare la crescita completa, umana e spirituale, di ciascun giovane;
• invitare e incoraggiare i giovani a vivere nel mondo contemporaneo come discepoli di Gesù Cristo;
• spronare i giovani ad una partecipazione responsabile alla vita, alla mis- sione e al lavoro della fede cattolica della comunità.
La proposta della PGVR che nasce da questa ispirazione si propone di promuovere una programmazione creativa, partecipativa, flessibile, adattabile e piacevole che sia appropriata alla crescita. La PGVR deve essere caratterizzata dal calore di una famiglia, sarà intergenerazionale, multiculturale e rivolta all’inserimento e promuoverà la collaborazione all’interno della comunità.
Da ciò si comprende che il compito essenziale del ministero della PGVR è di facilitare un incontro personale di offerta e di scambio tra il giovane e l’abbondante pazzia di Dio, ed esplorare come questo incontro possa diventare sorgente di un progetto (o una “vocazione”) di vita per un giovane in questo mondo.
La PGVR avrà particolare attenzione a quei giovani che si trovano ai margini della società. Si propone di strare con loro e sarà per loro una voce.
Su questa base fattivamente la PGVR:
- inviterà i giovani a esperienze di vita e condivisione comunitaria con la comunità apostolica redentorista;
- si impegnerà ad adattarsi e a condividere con i giovani in un modo “familiare” e creativo la Parola di Dio, così che quei giovani potranno vivere questa esperienza come un incontro con l’abbondante e pazzo amore di Dio;
- promuoverà incontri personali con i giovani e ricercherà su come questi momenti possano diventare sorgente di un progetto (vocazione) di vita;
- inviterà i giovani a partecipare ad appropriati programmi di “servizio”;
- si impegnerà per la formazione di giovani animatori e incoraggerà e faciliterà l’esercizio dell’animazione;
- promuoverà la crescita di giovani avendo particolarmente a cuore le situazioni critiche.
La PGVR non è un gruppo ecclesiale o un movimento, ma un percorso formativo umano e spirituale offerto ai giovani che vivono nelle nostre comunità, a quelli che incontriamo durante le missioni e a coloro che liberamente si avvicinano alle nostre realtà.
In sintesi possiamo dire che per PGVR intendiamo:
Per Pastorale intendiamo un percorso che parte dalla fragilità umana che si realizza nell’incontro con Dio.
Per Giovanile intendiamo prevalentemente la fascia di età che va dai 14 ai 23 anni.
Per Vocazionale intendiamo il discernimento della chiamata personale che ci impegna a vivere da veri cristiani.
Per Redentorista intendiamo che lo specifico di quest’itinerario di fede segue i tratti fondamentali della nostra spiritualità dove al centro dell’annuncio c’è il Cristo che dona la sua redenzione gratuitamente ad ogni uomo.

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Preghiera  -Ω-
di Antonio Perillo

«Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, dalla quale si ottiene da Dio l’aiuto a vincere ogni tentazione (...). E dico, e replico, e replicherò sempre sino che ho vita, che tutta la nostra salute sta nel pregare;(…) pregate, pregate, e non lasciate mai di pregare ; perché, se pregherete sarà certa la vostra salvezza; ma se lascerete di pregare sarà certa la vostra dannazione». (Del gran mezzo della preghiera, in Opere Ascetiche, vol. II, Roma 1962, p. l7l).
Queste affermazioni forti e chiare di S. Alfonso possono lasciare perplessi e disorientati. Una domanda allora nasce spontanea: Se non recito le preghiere mi danno per sempre?
Pregare non è dire le preghiere, dire delle parole, magari recitandole a memoria o leggendole… anche distrattamente. Pregare non si riduce a leggere dei libricini, in cui sono già scritte tante preghiere. Pregare non è dire il Padre nostro, l’Ave Maria, il Gloria al Padre prima di addormentarsi…
Ma allora che cos’è la preghiera? In che cosa consiste il pregare?
S. Teresa D’Avila con poche parole ne esprime il contenuto più profondo e genuino: “L’orazione, non è altro, per me, che un intimo rapporto d’amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui dal quale sappiamo di essere amati”.
Questa definizione della preghiera ci dice che il dialogo fra Dio e l’uomo è un’esperienza esistenziale, di vita vissuta, una profonda amicizia, anzi di più è rapporto di figliolanza. La preghiera diventa pertanto il rapporto più alto della realtà umana. Ed è su questa strada che si comprende la vera essenza della preghiera. Che non riguarda né la durata, né la forma o il modo del nostro pregare, ma piuttosto il riconoscimento e la coscienza della presenza di Dio nella nostra vita e nella storia.
Pregare è incontrarsi con Dio, è lasciarsi amare da lui, è amarlo, parlargli; ma soprattutto è ascoltarlo, lodarlo, ringraziarlo, adorarlo; è intercedere per i fratelli, è chiedere con fiducia qualunque cosa, certi del suo amore di Padre. Pregare non è quindi dire parole, ma incontrare Dio. Pregare è voler stare con Dio, come due amici che trascorrono del tempo a dialogare, a conoscersi, a sostenersi. Pregare non si esaurisce nel dire parole, ma coinvolge tutta la vita, perché permette a Dio di entrare nella propria esistenza.
Si comprendono allora i richiami forti di S. Alfonso sulla necessità della preghiera come fonte della salvezza perché pregare è incontrare, accogliere Cristo Gesù ed iniziare con lui un meraviglioso dialogo di amore che necessariamente trasforma e cambia l’esistenza.
La preghiera che non porta alla conversione del cuore, della mente e delle azioni, non è autentica. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt. 7, 21).
“L’incontro autentico con il Cristo cambia la vita”: ecco l’obiettivo della preghiera. Se la preghiera fa incontrare Dio, allora non si può non convertirsi a lui, non si può non riconoscere il proprio peccato e pentirsi di vero cuore.
Inizia un cambiamento radicale della propria esistenza, dove il cammino di fede e la vita cristiana vengono sostenute e nutrite, nella carità e nella misericordia, dalla forza della preghiera.

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Postulanti e studenti redentoristi  -Ω-
di Maurizio Iannuario

Quando un giovane, dopo un primo chiarimento e accompagnamento vocazionale, decide di condividere la vita con i missionari redentoristi deve intraprendere un cammino di formazione che lo aiuti a maturare e a crescere in questo progetto vocazionale. Tale cammino è costituito da varie tappe che scandiscono la graduale scoperta ed assimilazione dell’identità e del carisma redentorista.
All’inizio vi è il periodo cosiddetto del postulato o del postulantato: quella tappa del cammino formativo vocazionale che si colloca immediatamente prima del noviziato. Lo stesso significato del termine indica il clima pedagogico di ricerca: postulare, chiedere, cercare di poter entrare. La sua finalità è accompagnare il giovane nella sua prima esperienza di vita apostolica redentorista.
Il postulantato deve essere un’iniziazione alla vita comunitaria, che rende possibile conoscersi e farsi conoscere in vista di un migliore discernimento vocazionale prima di entrare nel noviziato. Il postulante, con l’accompagnamento del formatore, verifica l’idoneità della sua vocazione. Questa verifica suppone un’indagine delle attitudini e qualità richieste per la vocazione redentorista, nonché delle motivazioni che sostengono tale decisione.
Riguardo alla sua durata, il Codice di diritto canonico si limita a dire che «nessuno sia ammesso al noviziato senza un’adeguata preparazione» (can. 597, 2). Lascia al diritto particolare di ogni Congregazione il precisare i limiti di tempo e di contenuto dei quali hanno bisogno i candidati nelle diverse circostanze per considerarli pronti per l’ammissione al noviziato.
Per questo ogni realtà dei Missionari Redentoristi, presente nelle varie parti del mondo, assicura le condizioni necessarie affinché tale obiettivo si realizzi.
Dopo il noviziato, un’altra tappa importante è quella dello studentato o juniorato. Esso costituisce un nuovo periodo di formazione, che si estende dai primi voti fino alla professione perpetua. È una tappa di approfondimento e di maturazione della iniziazione alla vita redentorista avviata nel noviziato.
Viene denominato studentato perché lo studio della teologia, in preparazione a ricevere il Sacramento del Sacerdozio, ne caratterizza la sua condizione fondamentale.
A tal riguardo al n. 87 delle nostre Costituzioni si legge: «Gli aspiranti al sacerdozio riceveranno una formazione che li renda immagini viventi di Cristo, sommo ed eterno Sacerdote. Impareranno a vivere uniti a lui, a scrutarne tutto il mistero con lo studio scientifico e sistematico delle materie teologiche e una conoscenza approfondita delle scienze umane. Nello stesso tempo vivranno intensamente la vita comunitaria, applicandosi anche ad un apostolato missionario proporzionato alle loro forze».
Lo studente redentorista, in questo periodo di formazione, prosegue la crescita e maturazione del suo impegno con Cristo nella vita apostolica della Congregazione. Attraverso un accompagnamento personalizzato sarà aiutato a coordinare lo studio con la vita, le esperienze apostoliche con la vita comunitaria, integrando tutto nella consacrazione a Cristo Redentore.

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Redentorista  -Ω-
di Laureano Del Otero

Come nome, si riferisce a tutte le persone che appartengono alla Congregazione (CSsR) o all’Ordine (OSsR) del Santissimo Redentore, o ancora a ognuno dei diversi modi di consacrazione o aggregazione: religioso, sacerdote, suora o laico.
Secondo le Costituzioni CSsR, il religioso si definisce come servitore umile e audace del Vangelo di Cristo Redentore, fedele al magistero della Chiesa, che proclama in modo speciale l’abbondante Redenzione. Testimone del vangelo della grazia di Dio, riconosce la grandezza della vocazione di tutto l’essere umano e di tutto il genere umano, e va incontro al Signore lì dove Lui è presente e agisce in modo misterioso. Annuncia la Buona Novella del Signore o con la testimonianza silente della sua presenza fraterna, orante e servizievole, o con l’annuncio esplicito e coraggioso della Parola di Dio.
Si considera apostolo della conversione, che con la sua predicazione cerca di portare le persone a una scelta radicale di Cristo, che suscita e forma allo stesso tempo comunità che siano segno della presenza di Dio nel mondo. Libero e disponibile, divincolato da qualsiasi situazione o contorno, si incarica della ricerca incessante di nuove iniziative apostoliche all’interno della Congregazione del Santissimo Redentore, al servizio delle necessità della Chiesa, universale o particolare. Cerca di interpretare i segni della presenza di Dio e della sua volontà attraverso un’adeguata conoscenza ed esperienza del mondo, un dialogo fiducioso con le culture e l’interpretazione solidale degli interrogativi dell’uomo.
Le suore redentoriste, invece, sono religiose contemplative chiamate a trasformarsi in Gesù Cristo in maniera radicale, per giungere ad essere in maniera personale e comunitaria, una memoria vivente del Mistero Pasquale di Cristo Redentore. Il loro stile di vita è differente da quello dei missionari, poiché è segnato dal carattere monastico e dall’impronta della loro fondatrice, Maria Celeste Crostarosa. Tuttavia, svolgono la loro missione nel mondo in intima unione con i membri della Congregazione del Santissimo Redentore, poiché condividono origine, nome, spiritualità e vera fraternità.
In terzo luogo, i laici sono persone vincolate alla comunità redentorista in modo particolare, in generale, in base al loro impegno nella Chiesa e alla loro intensa partecipazione nella loro vita apostolica. Sono persone che arricchiscono la loro identità laica al servizio della Chiesa con la dimensione missionaria e la spiritualità redentorista. Il loro impegno consiste nel partecipare alla missione della Congregazione, concretizzata nelle priorità pastorali di ogni unità.
Come aggettivo, coincide con l’azione evangelizzatrice dei Redentoristi, è sinonimo di “missionario” e manifesta il carisma che Sant’Alfonso apportò alla Chiesa universale a partire del 1732. Esprime una forma di evangelizzazione specifica: dinamica, creativa, profetica, coraggiosa, semplice e raggiungibile, che risponde alle urgenze pastorali della Chiesa e si dirige in modo particolare ai più poveri e abbandonati. Redentorista, pertanto, più che una determinata attività, indica un dinamismo missionario, l’evangelizzazione propriamente detta, al servizio degli uomini e dei gruppi che per la Chiesa e per le condizioni sociali sono più poveri e bisognosi.

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Responsabilità  -Ω-
di Francesco Visciano

Letteralmente, il termine responsabilità indica la risposta e la capacità di rispondere ad una parola che ci viene rivolta. Non è certamente come rispondere al campanello o al telefono perché questa parola è un appello posto alla nostra coscienza che non ci lascia indifferenti, ma coinvolge tutto il nostro essere ed esige una contro­parola, una risposta appunto. Infatti, in ambito civile, definiamo responsabile una persona che si fa carico di un impegno e, attraverso le sue scelte, è capace di realizzare dei progetti. In ambito teologico l’appello che ci viene proposto lo indichiamo col termine chiamata o vocazione. E la risposta ci crea responsabili in un duplice senso: come colui che può rispondere e colui che deve rispondere. Questa distinzione, anche se sottile, non è di lana caprina, perché pone due grossi problemi:
Il grande dramma di Dio: la risposta dell’uomo: anche se siamo creature, Dio non ci ha creato come dei pupazzi con cui gingillarsi, ma ci ha da sempre voluto come partner, come persone capaci effettivamente di entrare in un dialogo di amore con Lui. A tal fine ci ha donato la libertà, l’intelligenza, la coscienza, i sentimenti, la volontà. Allora, nel rispondere, siamo realmente capaci di entrare in relazione con Lui. Il progetto di Dio fin dalla creazione è di “passeggiare al nostro fianco” nel giardino dell’Eden. Ma la risposta dell’uomo spesso rinnega tale relazione. Tutta la storia della salvezza è un continuo appello di Dio che, nella sua fedeltà, grida in ogni momento e in tutti i modi possibili lo stesso appello: “Adamo (= uomo), dove sei?”. E, come un innamorato, attende trepidante da ciascuno di noi una risposta, che cioè siamo responsabili.
Il grande dramma dell’uomo: il peccato: l’uomo, però, spesso equivoca la libertà. Dalla possibilità di essere di fronte a Dio, ne abbiamo creato un’altra, quella di essere contro Dio, lontano da Lui, senza di Lui. Così nasce l’assurdo dell’uomo, il peccato. Dio è Vita, Amore, Felicità… lontano da Lui siamo votati alla morte come il figlio prodigo che, esaurite le sue sostanze, diventa schiavo e non ha neanche più la possibilità di nutrirsi (=rimanere vivo) come il più impuro degli animali.
Da quest’ultima affermazione deduciamo che la vera responsabilità va intesa come obbedienza: infatti, la nostra libertà non è mai assoluta (=sciolta). Nel momento in cui si attiva in una scelta, diventa sempre responsabilità. Insomma, nel momento in cui scegliamo, ci rendiamo conto di rispondere sempre ad un appello di Dio.

Ma come caratterizzare la responsabilità? Essa è il risultato di due coscienze e due libertà che si incontrano per scegliersi in un dialogo d’amore (questo si può tagliare, forse…). La sintesi di questo percorso la troviamo nella persona di Gesù Cristo. Egli è, da un lato, Verbo eterno del Padre, chiamata radicale al progetto di vivere nell’amore; e, dall’altro, risposta nell’obbedienza totale che realizza tale progetto. Non solo: Cristo, nell’assumere la nostra carne mortale, libera la nostra libertà, perché umanizza il divino e divinizza l’umano, dunque ci rende realmente capaci di rispondere all’amore di Dio.

Gesù diventa, dunque, il modello da seguire per costruire la nostra responsabilità. Il sì rivolto a Dio non è mai un atto puntuale. Non rispondo all’amore Dio una volta per tutte. La risposta da l’orientamento (=opzione fondamentale), ma deve essere continuamente confermata e accresciuta nella fedeltà alla parola data (=opzioni particolari). Gesù (=Dio salva) attua un circolo virtuoso, alternando incessantemente parole e opere di salvezza alla ricerca del dialogo intimo con Dio. E la preghiera riorienta e radicalizza sempre più le sue scelte fino al momento in cui, nel Getsemani, comprende fino in fondo che realizzare l’amore costa il sacrificio totale di sé. Se l’Amore è dono totale, bisogna fare della propria vita un dono, divenire Eucaristia, pane spezzato per la salvezza di molti.
Scegliere responsabilmente è inevitabile perché diventiamo ciò che scegliamo di essere. Possiamo scegliere “per” (Dio e gli altri) e diventare responsabili; possiamo scegliere “contro” e diventiamo incoerenti. Ma se non scegliamo affatto diventiamo delle nullità.

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Redentore  -Ω-
di Sabatino Majorano

Sono molteplici le strade attraverso le quali la Chiesa cerca di penetrare il mistero del Cristo, Signore e Redentore. Il Redentorista è convinto che tutte hanno bisogno di confluire nell’amore. «Ogni Redentorista – ricordano le Costituzioni – sempre docile al magistero della Chiesa, deve essere in mezzo al mondo un servo umile e audace della buona novella di Cristo, Redentore e Signore, principio e modello dell’umanità rinnovata. Questa buona novella ha per oggetto peculiare “l’abbondanza della Redenzione”, cioè l’amore di Dio Padre che “ci ha amati per primo e ha mandato il suo Figlio nel mondo come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4, 10) e che, per mezzo dello Spirito Santo, vivifica ognuno che crede in lui» (n. 6).
È un amore che non si lascia bloccare neppure dal rifiuto più assurdo: quello della croce. Guardando il Crocifisso, il Redentorista trova non la sconfitta ma la vittoria pasquale dell’amore. Fa sua la prospettiva ribadita da Sant’Alfonso nella Pratica di amar Gesù Cristo: «Ebbe a dire il grande amante di Gesù Cristo, San Paolo: Caritas... Christi urget nos (1Cor 5, 14). E volle dire l’Apostolo che non tanto ciò che ha patito Gesù Cristo, quanto l’amore che ci ha dimostrato nel patire per noi, ci obbliga e quasi ci costringe ad amarlo» (in Opere ascetiche, vol. I, Roma 1933, cap. I, n. 8, 5).
Perché espressione di amore, la «redenzione raggiunge tutto l’uomo, perfeziona e trasfigura tutti i valori umani per ricapitolare in Cristo tutte le cose (of. Ef 1, 10; 1Cor 3, 23) e tutte condurle al loro fine: una nuova terra e un nuovo cielo (of. Ap 21, 1)» (Costituzioni, n. 6).
Per questo i Redentoristi non si stancano di annunziare che solo nel Redentore «trova vera luce il mistero dell’uomo… rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, n. 22).
Il Redentore è amore, che vuole irradiarsi, comunicarsi, portando tutti alla pienezza e alla felicità. La sua “kenosis”, fino all’assurdità della croce (cf. Fil 2,611), smentisce tutti i “sospetti” nei riguardi di Dio che la nostra cultura ha accumulato: Dio non limita l’uomo, ma si fa dono incondizionato, che carica di speranza tutta la nostra storia.
Dedicandosi con tutte le sue forze all’annuncio della copiosa redemptio, ogni Redentorista sa, come ripeteva Sant’Alfonso, che è suo «impegno principale» quello di «lasciare in ogni predica che fa i suoi uditori infiammati del santo amore» (Opere Complete, vol. III, Torino 1847, 288).
Per questo i Redentoristi cercano di comprendere il mistero del Redentore ponendosi sempre dall’angolazione di coloro che più hanno bisogno di lui, perché più segnati dalle conseguenze nefaste del peccato. Il Redentore non è solo chi devono annunziare, ma anche chi devono «seguitare» perché l’annunzio sia autentico. Condividere le difficoltà di chi fa più fatica ad aprirsi all’amore del Redentore, è sempre il primo passo per ogni autentica evangelizzazione.
La vita quotidiana verrà indicata come il luogo in cui l’amore del Redentore raggiunge ogni persona: per quanto dura, potrà aprirsi alla speranza. I poveri e gli abbandonati riscopriranno la dignità di battezzati e la vocazione alla santità.

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Religioso  -Ω-
di Aldo Savo

Termine che indica l’appartenenza di una persona ad una religione. A partire dal VI secolo in poi, in ambito cattolico, l’utilizzo da tale titolo serviva per far riferimento a quelle persone che professano in forma solenne e pubblica i voti di povertà, castità ed obbedienza in un Ordine religioso divenendo monaci (monache) o frati.
In seguito, il termine religioso, è utilizzato facendo riferimento a coloro che appartengono a delle Congregazioni religiose come la nostra che è denominata del Santissimo Redentore.
Volendo fare una distinzione abbiamo due tipi di Congregazioni: clericali e laicali. Questa suddivisione è espressa in base ai membri se sono prevalentemente sacerdoti o laici.
Le Congregazioni religiose nascono dal XVII secolo in poi. Esse inizialmente non erano obbligate a vivere uno stile di vita monastico tipico degli Ordini religiosi. Questa sostanziale caratteristica Sant’Alfonso la riteneva molto importante per la sua Congregazione nascente perché permetteva ai suoi membri di essere più liberi dalla “rigidità monastica” in moda da svolgere, con più “elasticità”, il loro ministero sacerdotalemissionario.
Nel linguaggio ecclesiastico comune, la categoria di religioso, identifica le suore e fratelli coadiutori – laici ovvero coloro che non possono accedere al sacramento dell’ordine o perché donne oppure perché la loro vocazione non è orientata verso l’ordinazione sacerdotale.
Nella nostra famiglia religiosa un fratello coadiutore di particolare importanza è San Gerardo Maiella. Egli a 23 anni decide di incamminarsi sulla via della santità vivendo nella Congregazione dei Missionari Redentoristi.
Per approfondire questo termine ti rinviamo alle voci: postulanti, studenti redentoristi e novizi.

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Sacerdote redentorista  -Ω-
di Maurizio Iannuario

Dal suo popolo il Signore sceglie alcuni uomini e li riserva per sé, rinnovando in loro l’effusione dello Spirito Santo: essi sono i sacerdoti. Il sacerdote è chiamato ad essere la presenza vivente di Gesù il Salvatore, vivendo nella propria esistenza gli stessi suoi sentimenti e atteggiamenti. Ricevendo il sacramento dell’Ordine, egli diventa segno di Cristo Risorto. Rende visibile la sua Presenza invisibile.
La grandezza di essere segno appare in certi momenti particolari del suo ministero, come la celebrazione dell’Eucaristia: quando egli spezza il pane, è Cristo che lo spezza e lo offre con le sue mani. Così, quando assolve dai peccati, è lo stesso Cristo che accoglie e riconcilia il peccatore. Cristo si serve di lui come strumento vivo di amore e di misericordia per l’umanità. Tutto questo il sacerdote redentorista lo vive e lo attua con un grande dinamismo missionario, che gli deriva dal suo carisma. Egli forte nella fede, gioioso nella speranza e ardente nella carità, pieno di zelo, fa dell’annuncio esplicito del Vangelo la sua ragion d’essere.
Nutrito abbondantemente della Parola di Dio che deve annunciare, esamina i problemi e gli appelli del mondo con la quale la Chiesa è chiamata a confrontarsi, cercando di darvi, insieme ai suoi confratelli, una risposta adeguata. Si preoccupa di essere vicino alla gente, realizzando, una concreta accoglienza e apertura al popolo. Pertanto, si rende presente con la semplicità di vita e di parola laddove la persona è abbandonata a se stessa. Egli vive sempre la scelta pastorale per i poveri. Accanto a questo annunzio sente come importante il dedicarsi al ministero del sacramento della Riconciliazione.
Nel contatto con gli abbandonati spiritualmente, il sacerdote redentorista, come Sant’Alfonso, è convinto che il predicare sostanzioso e semplice e il confessare misericordioso e paziente costituiscono i cardini di tutta l’azione pastorale. Scrive, infatti, Sant’Alfonso: «Col predicare si gettano le reti, ma col confessare si tirano al lido e si pigliano i pesci». Il sacramento della Confessione diviene per lui, così, il momento particolarmente intenso della formazione della coscienza dei fedeli, in cui viene annunziato e celebrato, in modo meraviglioso, il Vangelo della Misericordia di Dio in Cristo Gesù. Perseverante nella preghiera e nel dono di sé, il sacerdote redentorista, da uomo apostolico, è sempre pronto ad affrontare ogni prova per portare agli uomini l’abbondanza della Redenzione di Cristo (cf Costituzione n. 20).

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Sequela  -Ω-
di Alfonso V. Amarante

Seguimi”, “Seguitemi” è la parola che caratterizza la chiamata dei primi discepoli, a cominciare da Pietro ed Andrea: Gesù «Vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono» (Mt 4,1822). Gradualmente questo vivere con Gesù, si trasforma in pensare come lui, valutare come lui, decidere come lui, agire come lui.
Questo invito alla sequela continua a caratterizzare la vita di ogni battezzato. La fede infatti non significa semplice assenso ad una dottrina, tanto meno ad una ideologia, ma comunione di amore con il Cristo, che, per la forza dello Spirito, plasma gradualmente tutta la vita, facendoci pensare ed agire come lui e rendendoci suoi gioiosi testimoni.
La vocazione alla vita religiosa è stata sempre vista dalla chiesa come una chiamata ad una sequela del Cristo più radicale. Con i voti, il religioso ne condivide la scelta di povertà, castità ed obbedienza, ponendosi, con lui e come lui, al servizio del Regno: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21).
Lungo la storia sono stati diversi i modelli, in cui è stata espressa la sequela: a volte l’accento è stato posto sulla concretezza dei gesti del Cristo (imitazione), altre volte si è insistito sugli atteggiamenti; per alcuni era prevalente la prospettiva morale e ascetica, per altri quella mistica e di partecipazione; la preoccupazione di fondo è stata a volte quella della perfezione personale, altre volte il servizio caritativo e l’apostolato. Questa diversità si spiega non solo per la ricchezza e complessità della sequela, ma anche per l’esigenza di dover testimoniare il suo valore fondamentale in risposta alle possibilità e alle sfide dei contesti sociali, sempre in evoluzione.
Nella storia della famiglia redentorista, a cominciare dalle origini, queste diverse accentuazioni si intrecciano e si arricchiscono reciprocamente. La prospettiva unificante è quella alfonsiana della sequela del Cristo missionario per gli abbandonati, condividendone atteggiamenti, stile di vita, scelte concrete. In questa maniera la sequela diventa “continuare” nella storia la modalità in cui Cristo si posto tra noi e per noi, a cominciare dai poveri, come annunzio e dono di salvezza. Si tratta perciò di un imitare, che è frutto di partecipazione, in totale apertura allo Spirito che ci fa continuare, nella novità delle situazioni, lo stesso cammino del Cristo (cf Lumen Gentium, n. 8).
Il respiro missionario della sequela si fonde perciò con la sua profondità personale di assimilazione e di comunione, come sintetizza la cost. 20: «Forti nella fede, lieti nella speranza, ferventi nella carità, ardenti nello zelo, coscienti della propria debolezza, perseveranti nella preghiera, i Redentoristi, da uomini apostolici e veri figli di Sant’Alfonso, seguendo con gioia il Salvatore Gesù, partecipano al suo mistero, lo annunziano con semplicità evangelica di vita e di parola e, rinnegando se stessi, sono sempre pronti ad affrontare ogni prova per portare agli uomini l’abbondanza della Redenzione».

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Spiritualità redentorista  -Ω-
di Maurizio Iannuario

Che cosa si intende per spiritualità? Per rispondere a tale domanda dobbiamo farci guidare da un brano di S. Paolo ai Romani, laddove parla di una «vita secondo lo Spirito» (cf Rm 8, 112). Per il cristiano «vivere secondo lo Spirito» è lasciarsi muovere, ispirare, condurre da quello Spirito che ha mosso, ispirato, condotto Gesù Cristo.
La spiritualità cristiana ha il suo punto di riferimento principale e preciso nella persona di Gesù Cristo. È essenzialmente un esperienza personale e comunitaria di Dio in Cristo per opera dello Spirito Santo. Non si dà, quindi, vita cristiana senza vita spirituale.
Come si può capire, per spiritualità innanzitutto non s’intende qualcosa di astratto e di teorico, ma è espressione di vita e di coinvolgimento personale nella storia della Chiesa e del mondo. Nel contesto di continui mutamenti culturali e religiosi della società il Vangelo si esprime storicamente in una varietà di proposte che hanno dato origine a diversi modi di viverlo e testimoniarlo. Tra questi vi è la spiritualità redentorista.
Dalla sua fondazione, la Congregazione del Santissimo Redentore, ha intravisto e diffuso alcuni aspetti peculiari della sua vita spirituale lasciandosi guidare e sostenere dalla testimonianza e dagli insegnamenti del fondatore Sant’Alfonso.
Centro della spiritualità redentorista è Cristo Redentore, così come si presenta soprattutto nel Mistero dell’Incarnazione, Passione e Risurrezione celebrato nell’Eucaristia: «I congregati, chiamati a continuare la presenza e la missione redentrice di Cristo nel mondo, fanno della sua persona il centro della loro vita, sforzandosi di aderire a lui sempre più saldamente» (Costituzione n. 23).
La centralità di Cristo Redentore spinge i Redentoristi ad essere testimonianza viva nel continuare la Sua missione di salvezza nel mondo. Pertanto, la missione dà unità a tutta la loro vita.
Questa forza unificante è chiamata «vita apostolica che fonde insieme la vita di speciale dedicazione a Dio e l’attività missionaria» (Costituzione n. 1). La finalità apostolica impregna tutta la vita dei congregati: tutto è in funzione dell’annuncio del Vangelo caratterizzato da un forte dinamismo missionario verso quegli uomini e quei gruppi che sono più abbandonati e poveri, per le condizioni spirituali e sociali (Costituzione n. 14). I Redentoristi, dunque, si rendo presenti laddove l’abbandono spirituale della gente è più grave.
Il cuore di questo annuncio è l’abbondante Redenzione: la proclamazione dell’amore misericordioso di Dio che in Cristo raggiunge ogni uomo. Esso mira alla conversione, alla radicale decisione per Cristo, esprimendosi in un cammino di fede proteso alla maturazione della vita cristiana, sia personale sia comunitario.
I Redentoristi vivono in comunità, una realtà essenziale per la loro missione: vivere in comunità e svolgere l’attività apostolica per insieme alla comunità. La comunità non è soltanto un luogo dove essi pregano e vivono insieme, ma è essa stessa una proclamazione continua del Vangelo. Sull’esempio di S. Alfonso, la loro scelta degli abbandonati si realizza vivendo, con zelo apostolico, in mezzo al popolo e avvicinando la gente con la semplicità di vita e di parola. La Vergine Maria, procedendo nel cammino di fede e abbracciando con tutta se stessa il progetto di salvezza di Dio, è il modello di ogni redentorista. Ella ha sempre collaborato e continua a collaborare alla Redenzione, soccorrendo perpetuamente, in Cristo, il popolo di Dio (Costituzione n. 32).
Una rappresentazione simbolica della spiritualità redentorista si può vedere nello stemma della Congregazione: la croce con la lancia e la spugna posta su tre monti; ai lati della croce, le abbreviazioni dei nomi di Gesù e Maria; sopra la croce, un occhio con raggi luminosi; in alto la corona. Intorno allo stemma si legge: «Copiosa apud Eum Redemptio» (Salmo, 129: Abbondante presso di lui la Redenzione).

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Santità  -Ω-
di Ciro Vitiello

La santità è Dio. Egli è il solo Santo.
L’uomo è stato creato a immagine del “Santo”, a immagine di Dio. Per questo l’uomo è un segno, il più vivo e immediato, della santità di Dio. Dice il Signore: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,3).
L’uomo, quindi, più si avvicina a Dio, più è santo.
La santità non è una virtù, è l’entità costitutiva dell’uomo. Ciò che deturpa l’impronta della santità di Dio nella sua anima e degrada la dignità della sua persona, è il peccato.
Il peccato è “empietà”, è il rifiuto di riconoscere Dio come Dio. Il peccato crea una barriera di separazione che non permette a Dio di trasmettere all’uomo il suo alito di vita.
Gesù ha riannodato il legame interrotto dal peccato, e ha garantito una stabilità di rapporto infondendo nel cuore dell’uomo riconciliato lo Spirito Santo. Lo Spirito, perché Santo, opera la santità.
Perciò, tutti siamo chiamati alla santità. Lo afferma solennemente Paolo: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts 4,3). Perché:
• siamo creati a immagine di Dio;
• Dio ci trasmette la sua vita;
• siamo redenti dal sangue di Gesù Cristo;
• abita in noi lo Spirito Santo.
Sant’Alfonso raccoglie tutta la dottrina biblica sulla santità nel suo libro Pratica di amar Gesù Cristo: “Iddio vuol tutti santi, ed ognuno nello stato suo, il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante da mercadante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato”.
Qual è la pratica concreta per farsi santi? Sant’Alfonso, raccogliendo l’ascetica dei Santi e Dottori della Chiesa, la concentra sull’amore: “Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore”.
L’amore verso Gesù Cristo si pone come il valore che fonda, sostiene, avvalora, presiede, rettifica, finalizza l’intera vita cristiana. È dall’amore a Gesù Cristo che scaturisce tutto ciò che riveste il carattere di autentica componente
della santità e della perfezione. Perciò chi ama Gesù Cristo ama il patire; chi ama Gesù Cristo ama la dolcezza, la benignità, la mansuetudine; chi ama Gesù Cristo non desidera altro che fare sempre quello che egli vuole; chi ama Gesù Cristo rifugge dalla tiepidezza e accresce il desiderio di essere totalmente di Dio; chi ama Gesù Cristo vive la comunione con lui nella preghiera; chi ama Gesù Cristo rifugge dall’amor proprio e si mantiene nell’umiltà; chi ama Gesù Cristo ama il prossimo con lo stesso amore di Gesù Cristo; chi ama Gesù Cristo vive una vita di grande fede e di ferma speranza; chi ama Gesù Cristo non si lascia mai travolgere dalle tentazioni ed abbattere dalla debolezza dello spirito.
Conclude Sant’Alfonso: “Da tutto ciò che si è detto vedete quanto è necessaria la virtù della carità per farsi santi”.

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Teologia morale  -Ω-
di Sabatino Majorano

L’approfondimento della teologia morale è stato sempre visto dai Redentoristi come una componente importante della loro missione. Non si può annunciare l’amore misericordioso di Dio in Cristo, senza annunciare al tempo stesso come accoglierlo e come rispondergli.
Negli Statuti Generali viene chiesto a tutti i Redentoristi di applicarsi «in modo particolare allo studio della teologia morale e pastorale e della spiritualità, secondo la storia e l’indole della Congregazione» (n. 023). S. Alfonso riteneva che chi era deputato all’insegnamento della teologia morale «ha da essere il migliore soggetto della Congregazione, perché a noi la Morale è la scienza più necessaria» (Lettere I, Roma 1887, 598). Del resto gran parte della sua vita è stata dedicata proprio all’approfondimento della teologia morale, fondendo insieme le esigenze della verità con quelle storicità spesso drammatica dell’uomo.
Il far teologia morale per i Redentoristi si caratterizza per una chiara impronta pastorale. Questo non significa accantonamento delle istanze scientifiche proprie del discorso teologico, ma lasciarsi interpellare costantemente dalla realtà per discernere in essa la presenza dello Spirito, che sta portando a pienezza il piano di salvezza del Padre in Cristo. È il cammino delineato dal Vaticano II nella Gaudium et spes.
Anche nella teologia morale i Redentoristi sono convinti di dover «seguitare l’esempio» del Redentore evangelizzatore dei poveri: condividendone gioie e speranze al pari delle sofferenze e delle sconfitte, vogliono loro annunziare la possibilità di liberazione e di pienezza che il Cristo ci dona con il suo Spirito.
Di qui la caratteristica di benignità pastorale con cui viene elaborata la proposta morale: «la gioia e le esigenze della via del Cristo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1697) vengono specificate dall’angolazione della persona chiamata a viverle, cominciando da coloro che più sono deboli. E questo non per relativizzarle, ma perché possano essere accolte come gioia ed esigenze rese possibili dalla grazia: «Siccome Dio ci ha amati per primo (of. 1Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un “comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, n. 1).
Riportando ogni cosa al comandamento dell’amore, i Redentoristi si impegnano a far sì che la proposta morale faccia sperimentare che «il “comandamento” dell’amore diventa possibile perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere “comandato” perché prima è donato» (ivi, n. 14).
La verità morale verrà proposta come “medicina” per l’uomo ferito dal peccato: vuole guarirlo, ridargli slancio, proiettarlo verso la santità. Il punto di riferimento sarà sempre la «condotta del redentore», come non si stancava di ripetere Sant’Alfonso: «considerando la presente fragilità della condizione umana, non è sempre vero che sia più sicuro avviare le anime per la via più stretta, mentre vediamo che la chiesa ha più volte condannato sia l’eccessiva libertà che l’eccessivo rigore» (Teologia moralis, II, Roma 1907). Giovanni Paolo nella lettera Spiritus Domini riporta queste affermazioni per sottolineare che Alfonso è stato «il rinnovatore della morale» e aggiunge che si tratta di «mirabili parole» [AAS 79 (1987) 13671368].
Nella proposta alfonsiana, tutta la vita morale scaturisce dalla memoria, rinnovata costantemente soprattutto nella preghiera, dello “anticipo” di amore di Dio in Cristo. Basta leggere i primi capitoli della Pratica di amar Gesù Cristo con il loro insistere sulla economia di «dono» con cui Dio cerca di «cattivarsi» il cuore dell’uomo. Allora l’imperativo morale potrà essere sperimentato come cuore che spinge a rispondere. Perché riconosciuta e detta dalla coscienza. la legge morale non si opporrà alla libertà, ma le indicherà la via dell’autentica realizzazione in solidarietà con gli altri.

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Uniformità alla volontà di Dio  -Ω-
di Francesco Ansalone

Il tema dell’uniformità alla volontà divina fa parte, nella teologia spirituale di un tema ancor più vasto e quanto mai difficile, come l’unione con Dio, come si raggiunge, quando avviene, itinerario, meta, mezzi ecc., ecc.
Il tema dell’uniformità alla volontà di Dio è uno dei più peculiari nel linguaggio del Santo Dottore, abbondantemente usato, soprattutto nella “Pratica di Amar Gesù Cristo”, ma anche nell’”Apparecchio alla morte” esso indica la perfetta unione della volontà umana a quella divina, per cui non vi sono due volontà ma una sola. E questa, insegna il Dottore Zelantissimo è la pienezza dell’amore.
Nell’Apparecchio”al cap. XXXVI cosi scrive: «tutta la nostra salute e tutta la perfezione consiste nell’amar Dio. Chi non ama non ha vita (I Gv 3,14). L a carità è il vincolo della perfezione (Col 3,14). Ma la perfezione dell’amore consiste poi nell’uniformare la nostra alla divina volontà; poiché questo è l’effetto principale dell’amore: unire la volontà degli amanti».

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Vita Apostolica  -Ω-
di Salvatore Brugnano

Guardandoci attorno scopriamo (a volte con sorpresa) che ciascuno di noi è impegnato a costruirsi uno stile di vita, influenzato magari dai messaggi che ci vengono dall’esterno. Sempre più spesso si incontrano ragazzi e giovani che impostano il loro stile di vita ispirandosi ai divi del momento o dei campioni maggiormente in vista. Prima manifestazione di questo stile di vita, in genere, è adottare un look esterno (abiti, acconciatura…) che si rifà a questi personaggi.
Con il termine di «vita apostolica» il Redentorista intende essenzialmente uno stile di vita che «séguiti (continui) l’esempio di Cristo Redentore»: una vita che comprende e fonde insieme la vita di speciale dedicazione a Dio (= il Redentorista si consacra a Dio attraverso i voti religiosi) e l’attività missionaria con le mille forme possibili.
Scopo della vita apostolica è l’annuncio del Vangelo, in modo speciale ai poveri con i quali Cristo ha voluto identificarsi e vivere lo stesso spirito che animava la prima comunità degli apostoli, come si legge nel libro degli Atti (cf cap. 2). Questo riferimento biblico è passaggio obbligato per la riflessione personale e comunitaria del Redentorista.
Pertanto la missione di Cristo Redentore è la ragione di vita del Redentorista. Con la professione dei voti religiosi egli si associa alla missione di Cristo e la professione religiosa resta l’atto decisivo di tutta la sua vita missionaria: sceglie il celibato, abbraccia la povertà e si sottomette all’obbedienza per dedicarsi “con piena libertà” alla missione di Cristo. Per la povertà il Redentorista si sente obbligato alla legge del lavoro e, insieme ai suoi confratelli, testimonia la povertà evangelica personale e comunitaria, mantenendo un tenore di vita conforme a quello dei poveri. Ha inoltre il dovere di solidarizzare con i poveri, promuovendo i loro diritti fondamentali e facendone proprie le loro legittime aspirazioni.
Chiaramente è uno stile di vita influenzato dall’eventoCristo, avendo necessariamente ha al centro la persona di Cristo: vivere come Gesù, fare come Gesù. Sull’esempio di Cristo, quindi, il Redentorista annuncia l’abbondanza della Redenzione, vivendo in fraterna solidarietà i problemi dell’uomo.
Vivendo questo stile di vita il Redentorista finisce col diventare a pieno titolo socio e ministro di Gesù Cristo nell’opera della Redenzione e partecipa alla missione della Chiesa che è «sacramento universale di salvezza».
L’aspetto della sequela di Cristo (seguire Cristo, continuare a fare come ha fatto Cristo) propone quindi la stessa via battuta da Cristo: via della castità
per il Regno, della povertà e dell’obbedienza, via dell’annuncio diretto ed esplicito del Vangelo o – quando questo non è possibile – della testimonianza silenziosa.
L’annuncio e la testimonianza di Cristo segnano lo stile apostolico della vita del Redentorista: egli si impegna ad essere un umile e audace servo del Vangelo, consacrando a questo fine ogni sua energia e mettendo in comune i doni e carismi personali.
Non si può parlare di vita apostolica nel Redentorista se egli si estranea dal mondo e dalle sue attese o se si rifugia in uno devozionismo fine a se stesso. È necessario che egli dia testimonianza: la testimonianza della parola, la testimonianza della speranza che è in lui, la testimonianza della conversione (il primo chiamato a convertirsi è proprio lui), testimonianza dello zelo apostolico verso i fedeli…
Questo stile di vita apostolica trova la sua sorgente e il suo culmine nella liturgia e specialmente nell’Eucaristia: in essa il Redentorista trova presente, per riviverlo, il mistero di Cristo Salvatore degli uomini e trova quelle energie necessarie per la solidarietà missionaria che lo spinge verso i fratelli. Il Redentorista considera l’Eucaristia segno della solidarietà missionaria e con la preghiera personale e comunitaria accresce lo spirito missionario.
Lo stile di vita apostolica comporta il vivere e lavorare in comune, una semplicità di vita e di parola, una semplicità e sincerità di cuore. I Redentoristi svolgono la loro missione nella Chiesa riuniti in comunità e sono tutti responsabili di questa missione.

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Vocazione  -Ω-
di Pietro Sulkowski

Il termine significa letteralmente chiamare, convocare, invitare. Comunemente con questa parola intendiamo la risposta da parte dell’uomo alla chiamata di Dio.
Nella Bibbia con questo termine si vuole descrivere una relazione profonda tra Dio e il suo popolo. La vocazione richiama soprattutto la chiamata alla vita. È un invito divino a continuare l’opera della creazione. Nell’Antico Testamento la vocazione indica che un uomo è stato scelto da Dio per un compito o una missione. Nei Vangeli Gesù chiama i suoi discepoli a seguirlo e a continuare la sua missione.
Oggi la concezione della vocazione ricorda che tutti sono chiamati ed ognuno risponde secondo le proprie capacità. La vocazione non è mai un fatto compiuto. Ogni scelta autentica obbliga la persona ogni giorno a riscoprire i motivi della scelta e a rimotivarli.
Dal punto di vista teologico si ricorda che la parola vocazione va attribuita a ogni stile di vita. Ogni persona è oggetto dell’amore personale di Dio che lo chiama alla santità. L’uomo non solo ha una vocazione, ma è vocazione. Su tale base il discorso ‘vocazione’ è articolato in maniera diversificata:
la vocazione alla vita: è la chiamata universale. Ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione.
la vocazione cristiana: la chiamata a realizzare la propria vita in Cristo e nella Chiesa a livello personale e comunitario.
le vocazioni specifiche: la chiamata particolare segnata dalla radicalità della risposta al dono di Dio (sacerdotale o religiosa).
Gli elementi costitutivi della vocazione possono essere così sintetizzati: l’elezione, la chiamata, la missione, l’assistenza. Quando Dio chiama realizza un’elezione. Essa si esprime attraverso una parola rivolta all’uomo. Con la chiamata Dio affida una missione. Questa missione ha bisogno dell’assistenza divina, che consiste nel venire incontro da parte di Dio ai dubbi e ai bisogni dell’uomo nel cammino esigente della risposta.
Nel pensiero alfonsiano Dio chiama ogni persona alla santità e gli conferisce una vocazione specifica, e il modo di realizzarla. Il Santo invita, quindi, ciascuno a scoprire il progetto di vita che Dio ha per ogni persona e realizzarlo ascoltando la volontà di Dio. Invita anche a ringraziare Dio e ad amare la propria vocazione. Secondo Alfonso la vocazione è la manifestazione della volontà di Dio nella vita dell’uomo e necessita del dono della perseveranza per realizzarla. Egli ribadisce che il posto privilegiato spetta alla vocazione religiosa. Lo stato religioso è più conforme alla vita di Gesù. Per cui chi si sente chiamato e non risponde alla vocazione compromette la propria salvezza.
La PGVR ricorda che la vocazione non è un qualcosa di esterno all’uomo, ma è piuttosto qualcosa che spiega alla radice il mistero della sua esistenza. La nostra vocazione e la nostra felicità consistono nel portare a pienezza l’amore. La vocazione dell’uomo è definita da tre realtà: Dio che lo chiama alla vita, la comunità nella quale nasce e la sua stessa persona che è il mezzo per compiere la vocazione affidatagli da Dio.
Nel suo apostolato la PGVR cerca di far scoprire, ai giovani, che la vocazione cristiana è l’essere discepolo di Gesù Cristo. La PGVR nel processo di accompagnamento dei giovani vuole aiutarli affinché essi comprendono attraverso il discernimento le differenti vocazioni specifiche nelle quali si concretizza la vocazione cristiana. Dentro questo processo, giunto il momento, si presterà speciale attenzione alla vocazione specifica redentorista. Nel porre nella sigla PGVR la “V” di “vocazione”, si vuole dire che questa è una pastorale che cerca di rispondere alla chiamata e alla ricerca che nasce dal battesimo cristiano. Difatti, un segno del carisma redentorista è aiutare a scoprire la vocazione e ad incarnare il vangelo in un progetto di vita.
In questa linea i Redentoristi sono chiamati da Dio a compiere la loro opera missionaria. La nostra Regola di vita illustra dunque il volto del vero Redentorista, la sua vocazione, la sua formazione, ma anche la sua preoccupazione per aiutare i giovani a discernere la loro vocazione.
Il Redentorista si pone accanto ai giovani in prospettiva di annuncio, ma anche di ascolto. Non si dimentica però che il modo migliore per promuovere le vocazioni è la preghiera, l’esempio della vita e la testimonianza fraterna. Occorre anche sottolineare il fatto della comune responsabilità per la promozione delle vocazioni. Potremmo dire che tutti i congregati sono animatori vocazionali.

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Zelo  -Ω-
di Francesco Ansalone

La parola zelo sta ad indicare nel lessico comune entusiasmo, fervore, ardore che spinge ad adoperarsi per un fine o la diffusione di un ideale. Nell’ambito cristiano indica lo slancio e l’impegno che spinge una persona o un gruppo alla glorificazione di Dio attraverso l’annunzio o la propagazione e diffusione di opere o altro.
Questo sostantivo se inquadrato nell’ambito redentorista si colora di un accento del tutto particolare, infatti nel corso del XIX secolo, allorché S. Alfonso venne dichiarato Dottore della Chiesa, gli fu attribuito l’appellativo di “Dottore Zelantissimo”, indicando con esso ciò che più di tutto distinse la sua esistenza, ossia l’ansia missionaria, l’annuncio della buona novella.
Nei suoi scritti questo termine ricorre di sovente in quanto vuole i suoi missionari sì preparati mo soprattutto zelanti. E alla morte di Clemente XIV nel 1774, consultato dal cardinale Castelli, sulle qualità che il nuovo vescovo di Roma dovesse possedere, Alfonso così scriveva: «E perciò bisogna pregar Gesù Cristo che ci dia un Capo della Chiesa, il quale, più che di dottrina e di prudenza umana, sia dotato di spirito e di zelo per l’onore di Dio, sia totalmente distaccato da ogni partito e rispetto umano; perché se mai, per nostre disgrazia, succedesse un Papa che non ha solamente la gloria di Dio davanti agli occhi, il Signore poco lo assisterà, e le cose, come stanno nelle presenti circostanze, andranno di male in peggio» (Lettere, II, 307).
Da questa sua particolarissima sensibilità egli desiderava che il missionario redentorista consumasse tutte le sue energie intellettuali e fisiche per far giungere a tutti gli uomini l’annuncio dell’abbondante redenzione donataci da Cristo.
Le stesse Costituzioni della Congregazione spingono i congregati ad essere ardenti nello zelo apostolico (n. 20), in quanto «ogni genere di povertà, materiale, morale e spirituale, deve stimolare il loro zelo apostolico» (Statuto n. 044).

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Zenone Kovalyk  -Ω-
dal Messale redentorista

Sacerdote, nacque il 18 agosto 1903 a Ivatsciv Horiscnij (Ternopil). Entrato nella Congregazione del Santissimo Redentore, emise i voti religiosi il 28 agosto 1926. Completati gli studi di filosofia e teologia in Belgio, fu ordinato sacerdote il 9 agosto 1932. Dal 1932 svolse l’apostolato missionario tra gli ortodossi in Volynia. Inviato a Lviv, ricoprì la carica di economo della comunità e della metropolia di Lviv.
Arrestato dai bolscevichi il 20 dicembre 1940, subì torture e brutali interrogatori. Quando il 29 giugno 1941 la città di Lviv fu presa dalle truppe tedesche e furono aperte le prigioni sovietiche, il beato fu trovato crocifisso alla parete di un corridoio della prigione di Brihidchy.

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