Le 57 voci che compongono questo “lessico familiare redentorista di PGVR”
nascono da una intuizione del Segretariato Generale della PGVR.
Questo lessico è destinato sia agli animatori (padri e laici) sia ai giovani
che respirano la spiritualità redentorista.
Esse non hanno la pretesa di essere esaustive o definitive, circa gli
argomenti che trattano, ma vogliono tratteggiare, sinteticamente, alcune
parole che ricorrono di sovente nel linguaggio dei padri e degli animatori
che lavorano con i giovani.
Le voci sono caratterizzate dalla sintetictà a
dall’immediatezza. Non entrano in disquisizioni prettamente “pretesche”, ma
vogliono offrire una prima infarinatura dei concetti del mondo redentorista.
Gli autori nell’elaborarle hanno tenuto presente tre costanti: facilità di
linguaggio; la spiritualità e la storia della nostra famiglia religiosa.
In un certo senso questo lavoro è un cantiere aperto in quanto all’appello
mancano molti vocaboli tipici della nostra storia e tradizione.
Questo lavoro si può considerare di conseguenza come un primo esperimento (da
completare e da affinare negli anni) per creare un background comune.
Potremmo considerare lo sforzo compiuto per questo lessico come una sorta di
enciclopedia wikipedia dove tutti coloro che ne
usufruiranno potranno aggiungere nuove voci e migliorare quelle già
esistenti.
Roma, 12 marzo 2008
Alfonso V. Amarante – Antonio Donato
-Ω- Indice delle Voci
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Abbandonati
e poveri -Ω-
di Sabatino Majorano
L’evangelizzazione degli abbandonati e dei poveri costituisce la ragion
d’essere dei Redentoristi. Il fine infatti della
Congregazione, come ricordano le Costituzioni fin dall’inizio, è
«seguitare l’esempio del nostro Salvatore Gesù Cristo in predicare ai poveri
la divina parola, come egli già disse di se stesso: Evangelizare
pauperibus misit me»
(n. 1).
La spiritualità, la vita fraterna e le stesse strutture dei Redentoristi vogliono essere espressione delle
«inequivocabili parole del Vangelo» che indicano nei poveri una «speciale
presenza» del Cristo ed esigono perciò dai credenti
«un’opzione preferenziale per loro». Cercano così di testimoniare «lo stile
dell’amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia» (of Novo millennio ineunte,
n. 49).
«Chi è chiamato alla Congregazione del Santissimo Redentore – scriveva
Sant’Alfonso ai giovani Redentoristi – non sarà mai
vero seguace di Gesù Cristo né si farà mai santo, se non adempirà il fine
della sua vocazione e non avrà lo spirito dell’Istituto ch’è di salvare le
anime, e le anime più destituite di aiuti spirituali, come sono le povere
genti della campagna» (Opere, vol. IV, Torino 1847, 429‐430).
Il cammino di fondatore percorso da Alfonso costituisce per tutti i Redentoristi un punto di riferimento fondamentale.
Lasciata la carriera forense, fece dell’annunzio del Vangelo il perché della
sua vita, dedicandosi al servizio dei poveri e incarnandosi tra gli
abbandonati del suo tempo. Divenne così, insieme ai primi compagni, comunità
evangelizzatrice tra loro e per loro.
È il cammino che i Redentoristi sono chiamati a
percorrere incessantemente: attraverso una lettura evangelica della realtà
sociale ed ecclesiale, si impegnano a discernere le situazioni e i contesti
di povertà e di abbandono per farsene carico con prontezza fiduciosa. Ne
deriva che il loro apostolato è «caratterizzato, più che da alcune forme di
attività, dal suo dinamismo missionario, cioè dall’evangelizzazione
propriamente detta e dal servizio prestato a quegli uomini e a quei gruppi
che sono più abbandonati e poveri, per le condizioni spirituali e sociali» (Costituzioni,
n. 14).
Si tratta di situazioni oggettive di povertà e di abbandono dovute a fattori
sociali ed ecclesiali che i Redentoristi si
impegnano a denunziare con franchezza: «Il mandato di evangelizzare i poveri,
affidato alla Congregazione, abbraccia tutta la persona umana che deve essere
liberata e salvata. I congregati hanno il dovere di proclamare apertamente il
Vangelo, solidarizzare coi poveri, promuovere i loro diritti fondamentali
alla giustizia e alla libertà,
usando tutti quei mezzi che sono insieme conformi al Vangelo ed efficaci» (Costituzioni,
n. 5).
L’accento è posto sempre sul bisogno di Vangelo. I Redentoristi
infatti si sentono inviati in modo speciale a «coloro che non hanno potuto
avere ancora dalla Chiesa mezzi sufficienti di salvezza; coloro che non hanno
ascoltato mai il suo messaggio, o non lo ascoltano più come “buona novella”;
e infine coloro che sono danneggiati dalla divisione della Chiesa» (n. 3). Si
pongo perciò nella Chiesa come presenza e stimolo perché sia sempre più
fedele al mandato missionario (of. Mt 28,18‐20).
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Alfonso
Maria de Liguori
-Ω-
dal Messale redentorista
Alfonso Maria de Liguori, nacque a Marianella, quartiere di Napoli, il 27 settembre 1696.
Primogenito di una famiglia di aristocratici napoletani, compì in casa gli studi
letterari e scientifici.
Avviato precocemente alla carriera forense, a 16 anni divenne dottore in
diritto civile ed ecclesiastico, e a 20 anni si impose quale brillante
avvocato nel foro napoletano.
La svolta della sua vita arrivò nel 1723 quando la perdita di una importante
causa lo portò a lasciare i Tribunali per diventare sacerdote. Ordinato il 21
dicembre 1726, intraprese subito un intenso apostolato tra i quartieri poveri
di Napoli, con scugnizzi e barboni, impegnandosi particolarmente, con le Cappelle
Serotine, nella catechesi e nella formazione morale della gente più semplice.
Quale membro delle Apostoliche Missioni si dedicò anche alla predicazione
negli altri paesi del Regno di Napoli.
La salute fortemente compromessa dalle fatiche apostoliche lo portò, per
riposo, a Santa Maria dei Monti, sull’altopiano di Amalfi, dove venne a
contatto con i poveri contadini e pastori privi di ogni assistenza
spirituale. Questa esperienza fece nascere nel cuore apostolico di Alfonso il
desiderio di fondare un Istituto tutto dedito alla evangelizzazione dei
poveri, sparsi nelle campagne e nei paesetti rurali.
Il 9 novembre 1732, a Scala (SA) nacque la Congregazione del Santissimo
Redentore. Con i primi compagni Alfonso girò di paese in paese, impegnando i
suoi talenti umani e spirituali per la conversione dei peccatori; la
preghiera e la predicazione formarono i pilastri della sua attività
missionaria. Dove non arrivava con la parola, cercava di arrivare con gli
scritti. Le sue 111 opere raggiunsero un numero straordinario di edizioni. Le
più importanti sono: La Teologia morale, Del gran mezzo della preghiera,
Le massime eterne, Le glorie di Maria, La pratica di amar Gesù Cristo.
Nel 1762 venne nominato vescovo di S. Agata dei Goti, e anche in questo
servizio Alfonso trasmise tutto il suo ardore missionario, lavorando
soprattutto per la formazione del clero. Nel 1775 lasciò la diocesi e si
ritirò a Pagani, dove morì il 1 agosto del 1787, a 91 anni di età.
Venne canonizzato da Gregorio XVI il 26 maggio 1839. Il 23 marzo 1871 Pio IX
lo dichiarò Dottore della Chiesa, e il 26 aprile del 1950 Pio XII lo proclamò
Patrono dei confessori e dei moralisti.
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Animatore -Ω-
di Laureano Del Otero
Responsabile della PGVR in una comunità locale o in un gruppo di giovani.
È una persona che risponde alla chiamata di Dio annunciando il Vangelo ai
giovani, impegnandosi attivamente come rappresentante di pastorale giovanile.
Ovviamente, è un cristiano che ha già completato la sua Iniziazione
Cristiana. Dopo aver ricevuto il dono dello Spirito Santo per la missione e
la testimonianza, sceglie il ministero della Pastorale Giovanile come canale
di approfondimento della fede e di costruzione del Regno di Dio. È una scelta
personale che arricchisce la vita comunitaria e ecclesiale. Però, allo stesso
tempo, è un avvio e una missione che riceve dalla Chiesa, attraverso i
responsabili della comunità. La comunità redentorista affianca il suo lavoro
pastorale, dopo aver verificato la sua idoneità e dopo avergli affidato
questo compito pastorale così specifico.
La missione è quella evangelizzatrice, che annuncia e offre la rivelazione di
Dio ai giovani, attraverso l’amore e la dedizione di Cristo, l’amore e la
dedizione ai giovani. L’Animatore è una persona entusiasta della propria
vocazione verso la missione, innamorata della persona di Gesù Cristo e del
suo volto riflesso nei giovani, mandata a evangelizzare i poveri e
abbandonati, acculturata sul mondo e sul linguaggio dei giovani, dotata della
capacità di camminare affianco a loro, preoccupata della loro formazione e
conversione, inserita nella comunità ecclesiale, aperta al futuro con
speranza. Questo compito è affidato, innanzitutto, agli stessi giovani e,
poi, è animato anche dagli adulti, laici, religiosi e sacerdoti [redentoristi], che li aiutano a realizzarlo.
L’adeguata formazione e capacità dell’Animatore è responsabilità tanto della
propria persona chiamata a questo ministero quanto della comunità redentorista,
che deve vegliare perché la figura dell’Animatore richiede risorse,
conoscenze e abilità necessarie alla missione. Inoltre, è imprescindibile che
sia una persona in sintonia con i giovani e con tutti i “giovani”. Esistono
costanti – proprie della gioventù – che tutti gli Animatori debbono conoscere
affinché l’annuncio di Gesù Cristo sia seme fecondo nella vita dei giovani
che incontra: il valore dell’amore, la questione sul senso della vita, la
forza attrattiva dei progetti. Riconoscere alla gioventù questo valore e
formarli a queste costanti, significa permettere che la passione che sente
per la vita non resti un ideale vuoto; significa aiutare il giovane a
realizzare pienamente la sua esistenza e a trovare il suo posto nella Chiesa
e nella società. In altre parole, significa aiutarlo a scoprire e a vivere la
sua vocazione. Identificato con s. Alfonso come modello evangelizzatore,
l’Animatore assume con fedeltà creativa la sfida di trovare i mezzi opportuni
affinché il giovane, i giovani, si incontrino con il Redentore Risorto.
Seguendo la tradizione redentorista, svolge la
sua missione con semplicità e bellezza, convinto che i giovani sono
abbandonati in molti ambiti ecclesiali.
La missione dell’Animatore richiede che si realizzi con spirito di
comunione, creando vincoli di fraternità con le altre vocazioni e con gli
altri animatori, partecipando a organismi comunitari (centri di Pastorale
Giovanile e/o vocazionale). Il suo lavoro pastorale, pertanto, non si
esaurisce nella propria comunità di origine o di inserimento, giacché, allo
stesso tempo, fa parte della PGVR (vice)provinciale, regionale e generale. In
questo senso, l’Animatore svolge anche il suo impegno nella Missione Popolare
(Parrocchiale) Redentorista, nella Missione Giovane e in altri progetti simili
che possono sorgere in diversi ambiti della Congregazione.
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Basilio
Velykovskyj -Ω-
dal Messale redentorista
Vescovo della Chiesa greco‐cattolica
ucraina «clandestina», nacque il 1° giugno 1903 a Stanislaviv
(Ivano‐Frankivsk).
Entrato nel 1920 nel seminario di Lviv, dopo il
diaconato fu ammesso nella Congregazione del Santissimo Redentore. Ordinato
sacerdote il 9 ottobre 1925, si dedicò per oltre vent’anni alle missioni tra
la gente semplice dei villaggi e delle città anche fuori dell’Ucraina
Occidentale.
L’11 aprile 1945 venne arrestato insieme alla gerarchia greco‐cattolica.
Condannato inizialmente alla fucilazione, la pena gli fu poi commutata in
dieci anni di prigione.
Liberato nel 1955, ritornò a Lviv, dove svolse
clandestinamente l’attività pastorale. Nominato Vescovo nel 1959, poté essere
consacrato solo nel 1963, a Mosca, in una camera d’albergo. Il 2 gennaio 1969
fu arrestato nuovamente e condannato a tre anni di reclusione, ma venne
rilasciato dopo pochi mesi perché malato di cuore.
Il 27 gennaio 1972 le autorità sovietiche non gli permisero di ritornare a Lviv, ma lo invitarono a recarsi dalla sorella in
Jugoslavia. Dopo un breve soggiorno in Jugoslavia si recò a Roma dove fu
ricevuto da Paolo VI (8 aprile 1972).
Il 15 giugno 1972 andò a Winnipeg in Canada, dove morì il 30 giugno 1973 a
seguito di una sostanza velenosa a lento effetto che gli era stata
somministrata prima della sua partenza per la Jugoslavia.
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Canto -Ω-
di Paolo Saturno
Il termine canto è usato in tutte le culture con caratteristiche proprie.
Esso è costituito, nella cultura musicale moderna, da melodia e ritmo.
Queste due componenti lo diversificano da cultura a cultura.
Sotto il profilo storico il canto si è manifestato prima come espressione
sacra legata al culto (egiziani, mesopotamici, ebrei, greci, cristiani) poi
come espressione profana (canto popolare, lirico, liederistico, jazzistico,
pop, ecc.).
Sotto il profilo vocale e tecnico – almeno nelle culture occidentali – esso è
sempre basato sull’appoggio diaframmatico, che ne costituisce la posizione
più naturale.
Sotto il profilo dell’emissione, solo il canto lirico e liederistico
utilizzano il registro di testa. Gli altri tipi utilizzano prevalentemente il
registro di gola o di petto.
La peculiarità di ogni voce, sia umana che di strumento, viene detta timbro,
l’estensione altezza, lo spessore intensità.
Il canto è utile a tutti. Non tutti, però, sanno adoperare l’apparato fonico
per cantare correttamente. L’incapacità ad intonare in maniera corretta viene
indicata con il termine stonatura. Contrariamente a quanto si pensa,
lo stonato può essere facilmente educato ad una retta intonazione. Il più
delle volte, la causa di tale incapacità non è di ordine fisiologico, ma
psicologico. Aiutare un soggetto a superare la difficoltà dell’intonazione,
significa quasi sempre aiutarlo a credere di più in se stesso.
Per ben cantare non è indispensabile la conoscenza della musica. Il canto è
un fenomeno spontaneo come il parlare, può essere migliorato, però, con lo
studio. Si può ben cantare sia conoscendo la musica che ignorandola.
Il canto sacro oggi può essere considerato anche liturgico perché il
Concilio Vaticano II (Sacrosanctum Concilium) ne ha in pratica identificato i ruoli.
Precedentemente c’era differenza tra canto liturgico (utilizzato
esclusivamente nell’ambito della liturgia e il più delle volte con testi
estrapolati dalla Liturgia) e canto sacro di uso prevalentemente extra
liturgico.
Rapportando questi concetti fondamentali al canto redentorista, si potrebbe
affermare che esso – almeno quello alfonsiano o di
sua diretta derivazione – è ricco di melodia; è sobrio nel ritmo che
non è mai eccessivamente marcato o vivacemente popolare; è di limitata
estensione (poco più dell’ottava); è contenuto nella dinamica o intensità;
si presta ugualmente bene sia ad una
vocalità garbatamente lirica che a quella elegantemente popolare; è adatto a
tutti i timbri vocali; è di facile intonazione; si presta bene sia ad una
esecuzione solistica che corale; è utilizzabile sia in contesto liturgico che
semplicemente sacro; è eseguibile sia a pure voci che con strumento musicale.
Questa maniera è preferibile un po’ per la comodità dell’intonazione e del
sostegno, un po’ per la potenzialità polifonico‐imitativa
più facilmente realizzabile sullo strumento polivoco,
quale l’organo, l’armonium o semplice tastiera.
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Clemente
Maria Hofbauer
-Ω-
dal Messale redentorista
Nato a Tasswitz in Moravia (Repubblica Ceca) il
26 dicembre 1751, Clemente Maria Hofbauer fu
costretto, fin da giovanissimo, a seguito della morte del padre, a lavorare
come apprendista fornaio. Divenuto servitore dell’abate premostratense
a Klosterbruck (Znaim),
poté così seguire la chiamata al sacerdozio compiendo prima gli studi
ginnasiali e poi, a Vienna, quelli di catechistica, di filosofia e di
teologia.
In questo tempo si recò ogni anno in pellegrinaggio a Roma, dove cercò di
entrare in qualche istituto religioso.
Di fatto, il 24 ottobre 1784, con l’amico Taddeo Hübl,
fu accolto fra i Redentoristi e ordinato sacerdote
ad Alatri il 29 marzo del 1785.
Dopo alcuni mesi di studio trascorsi nella casa di Frosinone, tornò oltr’Alpe, fondando a Varsavia la prima casa
redentorista, a cui seguirono altre in Polonia, Curlandia,
Germania, Svizzera e Romania, da lui rette in qualità di vicario generale
della Congregazione.
A Varsavia, dove visse dal 1787 al 1808, svolse, con la collaborazione di
giovani di varie nazionalità, un efficacissimo apostolato, promovendo opere
benefiche e rinsaldando la pietà dei fedeli.
Costretto a lasciare Varsavia a causa dell’avanzata delle truppe
napoleoniche, pensò di andare in Canada, ma alcuni eventi lo riportarono a Vienna
dove operò fino alla morte.
Nel 1813 fu nominato rettore della chiesa delle Orsoline e loro confessore.
Da allora con il carisma della direzione spirituale, della predicazione,
della confessione e dell’esercizio della carità convertì e assistette gente
di ogni classe sociale. Con questa sua attività influenzò il congresso di
Vienna, la cultura del suo tempo e tutto il movimento romantico.
Morì a Vienna il 15 Marzo del 1820. Il 19 aprile l’imperatore ammise la
Congregazione negli Stati austro‐ungarici, e proprio da
Vienna, grazie ad uno dei primi compagni di Clemente, il P. Passerat, la Congregazione si diffuse nel Nord Europa.
Fu canonizzato da S. Pio X il 20 maggio 1909. Oggi è compatrono di Vienna e
di Varsavia.
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Comunità -Ω-
di Sabatino Majorano
La comunità è per i Redentoristi esigenza
fondamentale del loro apostolato e irrinunciabile condizione di vita. Le Costituzioni
la presentano come loro leg‐ge fondamentale: «I Redentoristi, per rispondere alla loro missione nella
Chiesa, svolgono l’attività missionaria riuniti in comunità…
Ecco dunque la legge fondamentale per la vita dei congregati: vivere nella
comunità e, per mezzo della comunità, svolgere l’attività apostolica» (n.
21).
Fanno propria la visione comunitaria della salvezza sviluppata dalla Lumen
Gentium: «In ogni tempo e in ogni nazione è
accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cf.
At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non
individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un
popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità»
(n. 9). I Redentoristi si impegnano perciò a
testimoniare che solo «l’esodo dalla prigionia del proprio io» (Spe salvi, n. 14) permette di accogliere
vivere la speranza donataci nel Cristo.
La vita fraterna dei Redentoristi è essenzialmente
apostolica. Non sono tanto le esigenze dei singoli membri a modellare la loro
comunità, ma innanzitutto quelle della missione. Si lasciano costantemente
ispirare dalle parole del Cristo: «Come tu, Padre, sei in me e io in te,
siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai
mandato» (Gv 17,21).
E questo a tutti i livelli, come sottolineano le Costituzioni: «La
vita comunitaria fa sì che i congregati, ad imitazione degli Apostoli (cf. Mc 3, 14; At 2, 42‐45; 4, 22), in un rapporto
di sincera amicizia, mettano insieme preghiere e propositi, lavori e dolori,
successi e insuccessi, e anche i beni materiali, per servire il Vangelo» (n.
22).
Nelle origini della Congregazione la dimensione apostolica della comunità
viene particolarmente sottolineata. Per la Crostarosa,
la comunità è «memoria viva» che deve ricordare a tutti la radicalità
dell’amore del Padre in Cristo e il suo progetto di comunione attuato dallo
Spirito. Per S. Alfonso, la comunità incarnata tra gli abbandonati al fine di
essere totalmente al servizio della loro evangelizzazione, mediante
l’irradiamento e l’accoglienza apostolica, è il «distintivo assoluto» della
Congregazione.
In coerenza con queste prospettive, la comunità redentorista vuole essere,
nei diversi contesti, la Chiesa che si porta tra gli abbandonati, per fare
loro sperimentare che non sono tali per Dio. Lo fa impegnandosi a tutti i
livelli a «seguitare l’esempio» del Redentore: «I congregati, chiamati a
continuare la presenza e la missione redentrice di Cristo nel mondo, fanno
della sua persona il centro della loro vita, sforzandosi di aderire a lui
sempre più saldamente. Così è presente nel cuore della comunità lo stesso
Redentore col suo Spirito di amore per formarla e sostenerla. Quanto più
stretta è la loro unione con Cristo, tanto maggiore sarà la loro unione
reciproca» (Costituzioni, n. 23).
Tutto questo esige preghiera costante e fiduciosa. La comunità redentorista
si impegna a viverla e a svilupparla nella condivisione con i poveri e gli
abbandonati. Per questo cerca di fondere insieme liturgia e pietà popolare.
La sua ambizione è quella di essere scuola di preghiera per il popolo, stimolando
incessantemente all’ascolto e all’assimilazione della Parola.
Dovendo essere pronta per le nuove situazioni di emergenza, determinate dal
rapido cambiamento della società, le strutture della comunità redentorista
dovranno essere semplici e al tempo stesso efficaci; lo stesso vale per il
suo stile di vita. Tutto dovrà essere pensato in fedeltà a come il Redentore
si è posto tra di noi, in maniera da poter testimoniare a tutti la radicalità
del suo amore.
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Coscienza -Ω-
di
Antonio Donato
Vi chiediamo, per un momento di andare indietro con la mente…
alla vostra infanzia! O dio! a noi capita ancora oggi di vedere i cartoni
animati! Sì proprio quelli. Vi chiediamo di ricordate i cartoni animati.
Magari Tom & Gerry. Avente mai notato che, nei
momenti più difficili, quando c’è da prendere una decisone, appaiono sulle
spalle di Tom o di Gerry due figure simpatiche più
piccole ma uguali a loro, uno vestito da angioletto e l’altro da diavoletto!
Cosa fanno questi due enigmatici personaggi? Sussurrano, nell’orecchio dei
due malcapitati, che cosa fare. Ma la cosa interessante è notare che
il contenuto del messaggio del diavoletto è totalmente opposto al contenuto
del messaggio dell’angioletto!
E allora cosa aiuta Tom e Gerry a decidere? Cosa li
aiuta a capire qual è la cosa migliore da fare?
Proviamo a mettere ordine! Il diavoletto rappresenta ciò che noi definiamo tentazione.
Cioè una vocina esterna, suadente, avvolgente, ammaliante…
insomma qualcosa di accattivante che muove un brivido forte dentro e ci
attira verso di se.
L’angioletto, invece, è anche lui una vocina, ma che sta dentro di noi. Un
suono sussurrato, profondo, dolce, apparentemente più difficile da
ascoltare perché il frastuono che viene dall’esterno, con tutta la sua
forza ammaliatrice, ci disorienta. Ma anche perché, questa voce ci dice, in
modo forte e chiaro, cosa fare e cosa, invece, evitare il che, il più delle
volte, non ci fa piacere. A questa seconda vocina diamo il nome di coscienza.
Per Sant’Alfonso la coscienza «è la regola prossima e formale del nostro
agire». Le nostre azioni secondo, il dottore della Chiesa, sono guidate dalla
legge divina che viene definita Remota o materiale, e da una legge prossima
o formale che è appunto la coscienza.
Detto così sembra difficile… ma proviamo a
ragionare insieme…
Molti di noi hanno già la patente. Sanno, che, per poter guidare, è stato
necessario imparare una teoria, un codice, un insieme di segnali e di regole
che messe insieme aiutano a capire cosa fare e come comportarsi nelle diverse
situazioni. Ad esempio come dare precedenza ad un incrocio, quando fermarsi e
ripartire ad un semaforo, come comportarsi in autostrade etc…
Questa teoria, utilizzando il linguaggio di Sant’Alfonso la definiamo legge materiale
o remota. Nel momento in cui noi ci mettiamo alla guida della nostra
bellissima macchina e ci troviamo ad un incrocio ricordiamo ciò che
“remotamente” abbiamo imparato e lo mettiamo in pratica.
Ma, l’incrocio non è sempre lo stesso; i veicoli non sono sempre uguali; le
persone allo loro guida cambiano. E allora come ci comportiamo? Leggiamo
velocemente la situazione e in modo nuovo e creativo affrontiamo, con
“prudenza” l’incrocio utilizzando sempre quello che abbiamo imparato ma, in
modo diverso a seconda della situazione che ci si presenta davanti.
Questa capacità creativa e prudente, utilizzando il linguaggio alfonsiano, è ciò che definiamo legge prossima o
formale proprio perché questa, da forma, nella situazione concreta che si
sta vivendo, alla legge materiale o remota e al suo contenuto che altrimenti
rimarrebbe morto. Provate a pensare a chi ha preso la patente e non guida.
Questa persona ha imparato una “legge” ma non si sforza di metterla in pratica…
Ci rendiamo allora conto come, per Sant’Alfonso, sia realmente importante
l’impegno della persona a rendere viva, in modo creativo la Legge di Dio, i
suoi comandamenti e i precetti che altrimenti, pur avendo forza e vita in sé,
rimarrebbero lettera morta per l’uomo che non s’impegna a conoscerli e a
viverli.
La capacità creativa della coscienza richiama, quindi, la persona alla
responsabilità della formazione per allontanarsi dal cieco arbitrio e uniformarsi
alla volontà Dio. Il giudizio che esprimiamo sulla realtà e nelle diverse
situazioni della vita deve trovare sempre in Dio, la cui voce risuona dentro
di noi, il criterio per valutare in modo corretto ciò che è bene e ciò che è
male. E, per far si che ciò avvenga e necessario conoscere sempre di più Lui
e la sua legge perché questo è ciò che rende l’uomo, realmente, uomo.
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Confessione -Ω-
di Francesco Visciano
Nel linguaggio comune, confessione significa ammettere, pubblicamente o in
privato, un nostro errore. Nel gergo teologico questo termine per lungo tempo
ha designato il quarto Sacramento, Sacramento della guarigione spirituale.
Ma la confessione non è un atto magico! Se non va adeguatamente preparata e
non ha un seguito, diventa inefficace. Non a caso, Alfonso, proclamato
Patrono dei Confessori nel 1950, ha inserito la confessione al centro del
percorso che tutti i credenti sono chiamati a compiere: la conversione.
Di solito, la prima confessione che facciamo è quella di fede. Ascoltato
l’annuncio di salvezza di un Dio che è pronto a donare la sua vita per
dimostrarci il suo amore, il nostro cuore si apre a una risposta di amore. Ma
subito ci rendiamo conto che siamo lontani da lui. Con l’aiuto della Grazia
siamo chiamati a compiere un percorso che ci conduca alla santità, cioè ad
assomigliare sempre più a Cristo, immagine vivente di Dio.
Questo percorso ha diverse tappe: 1. L’esame di coscienza: mettendo in
controluce la nostra coscienza con quella di Gesù, comprendiamo che in tanti
nostri atteggiamenti, pensieri, azioni, commettiamo il male. 2. Pentimento
e proponimento: ammettere semplicemente i nostri errori non basta.
Cominciamo a cambiare sul serio quando prendiamo coscienza che il male
compiuto ha portato lacerazione e morte dentro di noi, negli altri, nel
mondo. È allora che ci proponiamo di cambiare vita. 3. Confessione:
siamo ormai pronti alla seconda confessione: di fronte al sacerdote,
chiediamo scusa a Dio e ai fratelli per il male commesso, ed egli, da buon
medico ci dona la cura per guarire le nostre ferite, da buon amico ci accorda
il perdono, da padre misericordioso ci ridona l’eredità che ci spetta come
figli. 4. Penitenza: per dimostrare che siamo effettivamente cambiati,
ci preoccupiamo di ricostruire gli aspetti della nostra vita in cui siamo
stati carenti accettando il piccolo impegno concreto che il sacerdote ci
consiglia. 5. Felicità: l’amore di Dio è più forte di ogni nostra
colpa. Egli, con la sua grazia, ci dona una nuova opportunità di vivere la
comunione con Dio e i fratelli. È la terza confessione, la più bella: lodiamo
il Signore perché ci ha reintegrati nella sua casa, possiamo rivolgerci a lui
chiamandolo “Padre”, possiamo di nuovo abbracciare gli altri come fratelli e
costruire insieme la Chiesa.
Rileggendo questo itinerario comprendiamo che non ha senso una confessione
delle colpe, che non sia motivata dalla confessione di fede, e che non ci
apre alla confessione di lode.
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Carisma -Ω-
di Alfonso Amarante
Il carisma (tò chárisma)
è un dono gratuito dello Spirito, un favore, un beneficio per il bene comune,
un servizio della carità, una scelta particolare di vita che edifica la
Chiesa.
L’apostolo Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (12, 4‐7),
parlando dell’unico corpo di Cristo, la Chiesa, ricorda tutta una varietà di
carismi, idonei al suo sviluppo. “Vi sono poi – scrive – diversità di
carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno
solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio che opera
tutto in tutti.
E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per
l’utilità comune”.
Oggi si parla anche – e forse impropriamente – di dialettica “autorità‐libertà”,
“istituzione‐carisma”, dando all’autorità o alla istituzione
il significato di qualcosa che sclerotizza, al carisma il senso di libertà.
I carismi derivano da Cristo, devono riflettere Cristo, esprimersi nel suo
stile di servizio, essere vissuti ed esercitati in lui, tendere a lui,
seguitare lui, cooperare all’unità del suo Corpo.
La struttura organica della Chiesa cresce, quindi, attraverso doni, servizi
particolari, attività pastorali, impegni e compiti ecclesiali di persone, in
tempi diversi. Paolo, infatti, elencando i carismi, lascia la “lista aperta”.
Dà spazio a tutti i doni, anche ai più umili, stabili, ordinari.
La Chiesa è e si sente nella storia, di cui ne avverte mutamenti e
variazioni. Dal suo grembo nascono, secondo le necessità, spiriti grandi,
coraggiosi, aperti a “spinte in avanti” per rispondere alle esigenze e alle
provocazioni dei tempi.
I santi sono quelle persone privilegiate, in cui lo Spirito si esprime. A
loro offre il dono di una particolare sensibilità, attenzione a situazioni di
bisogni e di intervento per alitare soffi di vitalità nelle strutture della
Chiesa.
Avviene così, nel tempo e per opera dello Spirito, una moltiplicazione di
speciali carismi, che rendono i fedeli “adatti e pronti ad assumersi
responsabilità varie ed utili al rinnovamento della Chiesa”(Lumen Gentium, 12).
Particolari vocazioni, congregazioni e ordini religiosi sono sorti, pertanto,
nella Chiesa, in vari tempi della storia per offrire una presenza specifica,
capace di testimoniare il Vangelo, le beatitudini, la misericordia redentiva di Cristo nella Chiesa e nel Mondo.
Nel Settecento – secolo segnato da correnti giansenistiche, rigorismo morale,
pratiche mistiche riservate a pochi privilegiati, scarsa apertura alla
benignità e misericordia di Dio Padre –, lo Spirito Santo ha suscitato
Alfonso de Liguori (1696‐1787),
sensibile al popolo, ai poveri, ai più “destituiti di spirituali soccorsi”,
ai lazzari in attesa di qualche mica caduta dalla
mensa dei ricchi.
Egli si sente investito di un mandato particolare: “Lo Spirito Santo è sopra
di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato ad annunciare
ai poveri un lieto messaggio, a sanare i contriti di cuore” (Lc 4, 18; Is 61, 1).
Seguendo Cristo Redentore, buon samaritano, passa a confortare ogni persona
povera, malata nello spirito, a sanare le ferite con l’olio e il vino della
misericordia, nei luoghi più difficili e dimenticati. Fonda a Scala (SA) il
09 novembre del 1732 la Congregazione del Santissimo Redentore con il fine
dell’evangelizzazione tra i più abbandonati e di favorire la giustizia e la
promozione umana, solidarizzando con loro e promuovendo i loro diritti
fondamentali. L’opzione per i poveri è la ragion d’essere della Congregazione
nella Chiesa, il distintivo della sua fedeltà, il centro unificante della
vita del redentorista (cf. Costituzioni e
Statuti della Congr. del Ss.
Red., Roma 1982, 5).
Questo carisma apostolico alfonsiano (intuizione
originaria), nucleo catalizzatore della vita consacrata redentorista, passa
attraverso la professione dei voti religiosi missionari, l’osservanza delle
regole – espressione della volontà di Dio –, in una comunità apostolica
aperta e organizzata, con i suoi punti nodali: castità, povertà, obbedienza,
perseveranza, preghiera, distacco, amore a Cristo e alla Madonna,
evangelizzazione dei poveri.
Il carisma si concretizza in una comunità che “continua” il Redentore e
diventa centro dinamico di accoglienza e irradiazione missionaria. La
missione di Cristo è la radice profonda della vita missionaria. La
spiritualità va ricercata nel Vangelo e nella voce viva della Chiesa.
La fedeltà alla propria identità va però riletta incessantemente sul registro
della storia, in dialogo con il mondo. I mutamenti culturali sollecitano un
servizio missionario con una risposta puntuale. Aderenza quindi allo spirito
di Alfonso e della tradizione, ma anche apertura e proposta profetica. Si
tratta di una fedeltà dinamica. Così i santi e beati dell’Istituto, modelli
simili e diversi nello stesso tempo, hanno incarnato, in situazioni
particolari il carisma del Fondatore.
Tra questi ricordiamo s. Gerardo Maiella (1726‐1755), sempre accanto alle
mamme, ai bambini, a tutti i bisognosi della misericordia di Dio; s. Clemente
Maria Hofbauer (1751‐1820), primo messaggero
dei redentoristi oltre l’Italia, tra Varsavia e
Vienna vicino ai poveri, ma anche tra gli intellettuali; s.
Giovanni Nepomuceno Neumann
(1811‐1860), evangelizzatore degli emigrati negli
Stati Uniti d’America; beato Gennaro Sarnelli (1702‐1744),
missionario a Napoli tra ammalati, anziani e donne in difficoltà; beato
Pietro Donders (1809‐1887) apostolo tra i
lebbrosi di Batavia (Suriname); beato Gaspare Stanggassinger (1871‐1899), animatore e guida
di giovani a Cristo.
Per chi, quindi, si sente chiamato, pur nello spirito alfonsiano
ad un particolare impegno apostolico, c’è il “carisma nel carisma”: un modo
personale, condiviso dalla comunità, di vivere la chiamata. Chi bussa, con la
mente e il cuore, alla porta dell’Istituto redentorista non entra nel
“passato”, in un ambiente stantio, fuori tempo e fuori moda, anche se i Redentoristi hanno una propria spiritualità, storicamente
configurata, da non sottovalutare o rinnegare.
Il loro carisma non è qualcosa di metafisico, impalpabile. Risulta invece ben
incarnato nella vita di tanti santi, beati e servi di Dio dell’Istituto. Qui
si trovano nobili tradizioni, metodi di preghiera, devozioni solide, esempi
di vita ascetica, stili di vita che corrispondono alle attese, vivibili e
trasmissibili anche ad altri.
Guardando a Cristo e ai poveri, il redentorista si sente investito di carità
pastorale e ardore apostolico; si apre all’inventiva, al dinamismo, al
coraggio (of ibid., 14‐16);
è sorretto dalla fiducia, dalla speranza e dall’amore (ibid.,
10), proteso all’annuncio anche “ad gentes”(ibid.,
3). Si tratta di zelo non fossilizzato, ma aperto all’aggiornamento, alla
ricerca teologico‐pastorale.
Il carisma alfonsiano offre questo. E non è poco. I
poveri del Vangelo sono tanti, troppi, sempre in attesa della Parola e di
gesti di misericordia.
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Discernimento -Ω-
di Pietro Sulkowski
Il termine significa letteralmente saggiare, vagliare, distinguere per
chiarire, valutare in modo giusto prima di decidere, riuscire a
scegliere. Nel mondo greco il termine designava la funzione di saggiare le monete
d’oro e d’argento per provare se erano autentiche e idonee come mezzo
di scambio. Nella cultura cristiana il discernimento indica il dinamismo
vitale per vivere il vangelo di Gesù per valutare con saggezza e prudenza gli
eventi e i fatti per cogliere la volontà di Dio. Il vangelo invita a scrutare
il proprio cuore, per riconoscere che cosa veramente ci muove, se il bene o
ciò che viene dal maligno. Oggi per discernimento intendiamo la capacità di
leggere la propria vita alla luce della Parola di Dio.
Il tema del discernimento si pone a diversi livelli. Comunemente si parla di discernimento
morale, per indicare la capacità di capire che cosa ci è chiesto: che
cosa è bene per noi nelle diverse situazioni e che cosa invece deve essere
evitato. C’è poi il discernimento spirituale, che esprime la vita
sotto la guida dello Spirito. Il suo scopo è la scoperta della volontà di Dio
nella vita e l’acquisizione della mentalità di Cristo. Infine il discernimento
vocazionale il cui oggetto è la chiamata, l’appello di Dio. Esso mira ad
aiutare la persona a scoprire la propria vocazione.
Il discernimento si presenta come un insieme di momenti e di passi articolati
che rendono la persona in grado di comprendere se stessa alla luce di Dio.
Esso esige un ascolto attento, una comprensione approfondita di se stessi e
della realtà, una grande umiltà e chiarezza per poter decodificare i segni
dei tempi e rintracciare i segnali della volontà di Dio.
Sant’Alfonso è convinto che Dio manifesta ad ogni uomo la sua volontà e lo
guida, in modo misterioso, sulle strade della vita, affinché possa discernere
ciò che Dio vuole veramente da lui. Secondo il nostro Santo esiste una
molteplicità di fattori che inducono ad una decisione “secondo il gusto di
Dio”. Alfonso non parla nelle sue opere del «discernimento», ma preferisce
sottolineare l’importanza di “accertarsi della volontà divina” per realizzare
il piano divino di salvezza. Per poter conoscere il volere di Dio bisogna,
dunque, vivere con impegno e fiducia il proprio stato di vita, sopportare le
difficoltà, e pregare per permettere a Dio di agire, per comprendere passo
dopo passo il suo disegno. Per accertare la volontà di Dio è necessario che
il credente stabilisca un dialogo con il proprio padre spirituale e che,
insieme, comprendano il volere di Dio.
La PGVR indica il discernimento come il cammino necessario e ineludibile per
i giovani che sono in cammino di ricerca e per rispondere personalmente alla
chiamata di Dio, qualunque essa sia e per decidere del proprio futuro. Il
giovane per aver chiarezza sul suo compito nella vita è invitato a scoprire
le proprie capacità naturali. Tutto nel rispetto della coscienza e della
libertà della persona. L’animatore redentorista deve far in modo che ogni
tappa del processo di crescita dei giovani sia marcata da una adeguata
opzione fatta in un clima di discernimento.
Ogni Redentorista, quando si trova per ministero apostolico in mezzo agli
uomini, è invitato ad essere attento a scoprire e discernere quei doni che lo
Spirito dispensa a molti giovani. Il mezzo migliore e più efficace per il
discernimento è la preghiera, l’ascolto, la testimonianza di vita e lo zelo
apostolico.
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Dinamismo
Apostolico -Ω-
di Salvatore Brugnano
Quando una persona accetta consapevolmente un compito che gli viene
affidato, subito mette in moto tutte le sue energie per realizzarlo. Non
aspetta in modo fatalistico che ciò si compia, ma dà fondo alle sue personali
risorse per realizzarlo nel migliore dei modi. Se poi il compito lo ha
ricevuto insieme ad altri, dovrà unire le sue risorse personali insieme a
quelle della comunità.
Il Redentorista appartiene ad una Congregazione che si impegna di attuare il mandato
missionario ricevuto con iniziative coraggiose e serio impegno. Infatti
la Congregazione redentorista è chiamata da Dio a compiere fedelmente la sua
opera missionaria e nel modo di realizzarla essa segue l’evoluzione dei
tempi. Mandato missionario per il Redentorista rimane sempre l’annuncio
del Vangelo, in modo speciale ai poveri. La liberazione e salvezza
integrale dell’uomo fanno parte dell’annuncio del Vangelo: è questa l’opera
di salvezza a cui è chiamato.
Questa missione esige piena consapevolezza e libera adesione. Il
Redentorista deve essere libero e pronto a questa missione, sia per i
destinatari a cui dovrà rivolgersi, sia per i mezzi che dovrà impiegare. Con
fantasia e sagacia cercherà di scoprire vie nuove per portare il
Vangelo ad ogni creatura (of. Mc 16, 15).
Resta un dovere, quindi, la ricerca continua di iniziative apostoliche
“sempre nuove”, sotto la guida della legittima autorità; egli sa che non può
lasciarsi vincolare da forme e strutture che non rendono più “missionaria” la
sua attività.
L’apostolato della Congregazione redentorista, infatti, è caratterizzato, più
che da alcune forme di attività, dal suo dinamismo missionario, cioè
dall’evangelizzazione propriamente detta e dal servizio prestato a
quegli uomini e a quei gruppi che sono più abbandonati e poveri, per le condizioni
spirituali e sociali.
Si può dire che il Vangelo è sempre lo stesso, ma il modo di annunciarlo deve
essere “sempre nuovo”, per poter raggiungere la persona nel suo proprio
tempo e nelle sue proprie situazioni. Per poter fare questo il
Redentorista deve mantenere in continuo fermento le sue energie e i doni
ricevuti da Dio, rifiutando ogni logica di appagamento. Il Redentorista
annuncia senza stancarsi, la Parola di Dio perché gli uomini si convertano e
credano al Vangelo.
Questo movimento dinamico esprime lo zelo pastorale del Redentorista.
Dimostra l’ardore missionario di essere annunciatore del Vangelo, perché
primo dovere della Chiesa rimane il predicare il Vangelo a chi ancora non lo
conosce. Sant’Alfonso desiderava ardentemente di predicare il Vangelo agli
infedeli (ai pagani).
Perciò ogni genere di povertà materiale, morale e spirituale, deve stimolare
lo zelo apostolico del Redentorista e il suo dinamismo. Egli deve mettere in
moto tutte le sue capacità, non rifiutando persino di “confrontarsi” con i
figli di questo mondo, i quali «verso i loro pari sono più scaltri dei figli
della luce», secondo il monito di Gesù (Lc 16,8).
Di fronte alle necessità del nostro tempo, il Redentorista è chiamato ad
imitare lo zelo apostolico del santo fondatore, ad aver presente la fluida
fantasia di San Clemente e a considerare come modello di zelo pastorale San
Giovanni Neumann e di tutti gli altri santi, beati
e martiri della Congregazione.
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Eucaristia -Ω-
di Ciro Vitiello
L’Eucaristia è il sacramento del sacrificio di Gesù Cristo, e pertanto
costituisce il culmine e la fonte della vita della Chiesa e
dell’evangelizzazione.
La centralità dell’Eucaristia emerge da tutta la tradizione redentorista, che
attinge alle opere del fondatore Sant’Alfonso Maria de Liguori,
particolarmente dal libretto Del sacrificio di Gesù Cristo con una breve
dichiarazione delle preghiere che si dicono nella Messa, la spiritualità
per conoscere, celebrare e vivere il mistero di Cristo Redentore.
L’Eucaristia è da considerare nel duplice aspetto di sacrificio e di
sacramento.
• Nell’Eucaristia è presente il sacrificio di Gesù Cristo, come memoria del
sacrificio della croce, di cui è “continuazione”.
• Nella conoscenza dell’Eucaristia come sacrificio non vengono trascurati gli
elementi dei sacrifici dell’Antico Testamento, specialmente quello pasquale,
le cui note (oblazione, immolazione, consumazione, partecipazione) si
riscontrano nella celebrazione della Messa.
• La celebrazione della Messa è sacrificio di lode e di ringraziamento ma
soprattutto di propiziazione e di purificazione, dove il Signore perdona le
colpe e riconcilia i peccatori a sé.
• Il sacrificio eucaristico è il compimento del mistero di salvezza.
L’Eucaristia compendia tutti gli interventi di Dio, dall’incarnazione alla
parusia, e all’Eucaristia fanno riferimento tutti gli altri sacramenti.
• L’Eucaristia è il sacro convito che unisce intimamente a Cristo, conserva e
perfeziona la vita spirituale, annunzia e prepara la risurrezione e la
gloria. Perciò la celebrazione è completa con la comunione alla quale
naturalmente tende. La comunione frequente, e anche quotidiana, assicura una
vita sacramentale pienamente partecipata.
• Dall’Eucaristia proviene tutta la perfezione della vita spirituale: per i
sacerdoti che devono sempre degnamente celebrare, per i religiosi che devono
unire al Mistero l’offerta della loro vita, per i laici impegnati nella
famiglia e nella società.
• La celebrazione dell’Eucaristia, per essere fruttuosa, richiede
“devozione”, cioè: preparazione (conoscenza del mistero e apparecchio
immediato) e ringraziamento (meditazione e prolungamento nella giornata).
• La presenza eucaristica di Cristo continua dopo la celebrazione. Da questa
deriva l’adorazione del Sacramento, necessaria per chi vuol condurre una vita
cristiana ispirata alla liturgia, soprattutto per chi è chiamato al
sacerdozio e alla vita consacrata.
• Il sacrificio eucaristico alimenta la grazia del Battesimo: partecipato e
vissuto, impegna il credente nella realtà quotidiana in cui vive.
• Essendo sacramento dell’amore, nell’Eucaristia è contenuto l’essere amati e
l’amare i fratelli con la stessa carità di Cristo, diventando, come lui, pane
spezzato per la vita del mondo.
• Una Chiesa autenticamente eucaristica è una Chiesa missionaria. Per questo
l’Eucaristia non è solo fonte e culmine della vita della Chiesa, lo è anche
della sua missione.
• La prima e fondamentale missione che viene dal Mistero celebrato è la
testimonianza della vita.
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Formazione
Spirituale -Ω-
di Antonio Perillo
La formazione spirituale è prima di tutto un itinerario di continua
assimilazione a Cristo nell’amore, più che un insieme di progetti e
interventi vari.
Sant’Alfonso sintetizza chiaramente questo processo dicendo che: «il vertice
della santità e della perfezione è amare Gesù Cristo…
vera perfezione è amare Dio con tutto il cuore» (Pratica di amare Gesù
Cristo, in Opere Ascetiche, vol. I, Roma 1933, cap. I, p. 1).
Pertanto ogni autentico cammino spirituale deve necessariamente essere una
“vita in Cristo” deve condurre a fare di Lui il “centro e il senso della
propria esistenza”. Solo così si potrà vivere una vita piena, realizzata e
totalmente trasformata nella carità.
Per un Redentorista la formazione spirituale è una priorità di cui non può
fare a meno, perché sa che quanto più si sforzerà di aderire a Cristo, tanto
più sarà chiamato a continuare la Sua presenza e la Sua missione redentrice
nel mondo.
Le nostre Costituzioni invitano a coltivare uno spirito di contemplazione per
sviluppare e rinforzare la fede e per rendersi sempre più docili all’azione
dello Spirito Santo che non cessa mai di operare per conformarci a Cristo (Costituzioni
23‐25).
Naturalmente per alimentare e sostenere questo processo di adesione e di
trasformazione in Cristo è necessario abbeverarsi alla prima sorgente che è
la Parola di Dio. «Proprio perché i Redentoristi
sono i dispensatori della rivelazione del mistero di Cristo in mezzo agli
uomini devono restare in contatto assiduo con questa Parola viva e farla
propria attraverso la meditazione personale e comunitaria» (C 28). Altre
fonti indispensabili sono la preghiera, l’orazione mentale, la liturgia, i
Sacramenti e in modo particolare la Celebrazione Eucaristica sorgente e
culmine di tutta la vita apostolica del Redentorista.
La “vita nello Spirito” è un esigenza primaria, perché in essa il
Redentorista ritrova la propria identità ed una serenità profonda che lo
porterà a ricercare e a difendere i necessari tempi di orazione, di silenzio,
di solitudine e di adorazione… e di tutti quegli
itinerari spirituali che possano nutrire e sostenere lo spirito missionario,
la carità apostolica e la continua ricerca di nuove vie per
l’evangelizzazione degli uomini più abbandonati del nostro tempo.
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Francesco
Saverio Seelos
-Ω-
dal Messale redentorista
Francesco Saverio Seelos nacque l’11 gennaio
1819 a Füssen (Baviera, Germania).
Manifestando fin da ragazzo l’aspirazione al sacerdozio, dopo gli studi
filosofici entrò nel seminario diocesano.
A seguito della conoscenza del carisma e dell’azione missionaria della
Congregazione del SS. Redentore, decise di farne parte e di partire per il
Nord America.
Giunto negli Stati Uniti il 20 aprile 1843, entrò nel noviziato e concluse
gli studi teologici, ricevendo l’ordinazione sacerdotale il 22 dicembre 1844.
Iniziò il suo ministero pastorale a Pittsburgh in Pennsylvania come
viceparroco del confratello S. Giovanni Neumann,
svolgendo al contempo anche il compito di maestro dei novizi e dedicandosi
alla predicazione missionaria.
Negli anni successivi fu parroco in diverse città e formatore degli studenti redentoristi. Considerato un esperto confessore e guida
spirituale e un pastore sempre gioiosamente disponibile e sollecito verso i
bisogni dei poveri e degli abbandonati, nel 1860 fu candidato a vescovo di
Pittsburgh. Ottenuto dal Papa Pio IX di essere esonerato da tale
responsabilità, si dedicò a tempo pieno all’attività missionaria itinerante,
predicando in inglese e in tedesco negli stati del Connecticut, Illinois,
Michigan, Missouri, New Jersey, New York, Ohio, Pennsylvania, Rhode Island e Wisconsin.
Nominato infine parroco della chiesa di S. Maria Assunta a New Orleans in
Louisiana, si spense di febbre gialla, contratta per soccorrere gli ammalati,
il 4 ottobre 1867, all’età di 48 anni e nove mesi.
Sua Santità Giovanni Paolo II lo ha beatificato il 9 aprile 2000.
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Gaspare
Stanggassinger
-Ω-
dal Messale redentorista
Gaspare Stanggassinger nacque il 12 gennaio del
1871 a Berchtesgaden; era il secondogenito di 16 figli. Il padre, uomo
stimato, era contadino e possedeva una cava di pietre.
Gaspare maturò fin da piccolo il desiderio di diventare sacerdote: tratteneva
spesso i fratelli e le sorelle con prediche e processioni.
All’età di dieci anni si recò a Freising per la
scuola, ma trovò notevoli difficoltà, tanto da rischiare di abbandonare gli
studi. Riuscì ad andare avanti con notevole sforzo e preghiera. Durante le
vacanze estive radunava ragazzi intorno a sé con l’intento di formarli alla
vita cristiana.
Nel 1890, dopo l’esame di maturità, entrò nel seminario diocesano di Freising. In questo tempo comprese che il Signore lo
chiamava a vivere la sua vocazione in uno stato diverso da quello diocesano.
Nel 1892, in seguito ad una visita dei Missionari Redentoristi,
decise di seguirli; entrò nel noviziato di Gars lo
stesso anno, malgrado l’opposizione paterna, e nel 1895 ricevette l’ordinazione
sacerdotale.
Il suo intento era di predicare il vangelo ai popoli più abbandonati; i
superiori invece lo vollero formatore dei futuri missionari.
Oltre all’insegnamento, non mancava mai di prestare il suo aiuto pastorale
nei villaggi vicini. Nonostante la mole di lavoro, era sempre disponibile; i
ragazzi in lui non vedevano un superiore, ma un fratello.
Era grande devoto di Gesù Eucaristia; invitava tutti a ricorrere al SS.
Sacramento nei bisogni e nelle ansie; la sua predicazione, a differenza della
pratica del tempo, non incuteva terrore, ma era semplice e stimolava alla
fiducia, alla carità fraterna e a prendere sul serio la vita cristiana.
Nel 1899 fu incaricato come direttore nel nuovo seminario di Gars. Dopo aver predicato un corso di esercizi ai ragazzi
e aver partecipato all’apertura del nuovo anno scolastico, moriva a causa di
una peritonite il 26 settembre dello stesso anno, a 28 anni.
Era solito dire: “I Santi hanno intuizioni speciali; per me che non sono un
santo, ciò che è importante sono le verità semplici di sempre: Incarnazione,
Redenzione e Santissima Eucaristia”.
È stato proclamato beato da Giovanni Paolo II il 24 aprile 1988.
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Gennaro
Maria Sarnelli
-Ω-
dal Messale redentorista
Gennaro Maria Sarnelli nacque a Napoli il 12
settembre 1702. Figlio del Barone di Ciorani, da
fanciullo ebbe una solida formazione culturale e spirituale.
Dedicatosi allo studio della giurisprudenza, a vent’anni si laureò in diritto
civile ed ecclesiastico.
Assistendo gli ammalati dell’ospedale degli Incurabili, avvertì la chiamata
al sacerdozio. In questo tempo fece anche conoscenza con Alfonso Maria de Liguori, che ne fu il primo biografo.
Diventato sacerdote nel 1732, si dedicò particolarmente alla catechesi dei
fanciulli e al recupero e prevenzione delle ragazze esposte al meretricio.
Entrato a far parte, nel giugno dell’anno seguente, della Congregazione del
SS. Redentore, fondata da Alfonso Maria de Liguori
il 9 novembre 1732, si dedicò alla predicazione della Parola di Dio nei paesi
più destituiti di aiuti spirituali.
Per motivi di salute, nel 1736, ritornò ad abitare a Napoli dove, pur
continuando l’attività missionaria nella Congregazione redentorista, riprese
le precedenti attività pastorali e caritative, specialmente tra gli ammalati,
gli anziani, i carcerati e i fanciulli costretti al lavoro di facchini.
Iniziò anche una fervente campagna contro il dilagare della prostituzione e
il vizio della bestemmia.
Fertile scrittore, pubblicò in questo tempo oltre 30 opere di contenuto giuridico‐sociale, di morale,
di mistica, di pedagogia, di pastorale, di mariologia e di ascetica.
Nel 1741, in preparazione alla visita alla Diocesi del cardinale Spinelli,
programmò e partecipò alla grande missione tra i paesi, abbandonati
spiritualmente, nei dintorni di Napoli.
Consumato dal suo ardente zelo per la salvezza delle anime, si spense a
Napoli il 30 giugno 1744 a circa 42 anni.
Sua Santità Giovanni Paolo II lo ha proclamato Beato il 12 maggio 1996.
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Gerardo
Maiella -Ω-
dal Messale redentorista
Gerardo Maiella nacque a Muro Lucano (Potenza) il 6 aprile 1726, in una
famiglia di umili condizioni; il papà Domenico e la mamma Benedetta in compenso
erano ferventi cristiani; alla loro scuola Gerardo imparò l’amore alla
preghiera e al sacrificio. Rimasto ben presto orfano del padre, ed essendo
l’unico figlio maschio, dovette provvedere alle necessità della famiglia
lavorando come sarto. A 14 anni chiese di entrare nel convento dei Cappuccini
dove si trovava lo zio materno, ma venne respinto per la sua malferma salute.
Dopo una breve esperienza come domestico del vescovo di Lacedonia,
tornò a fare il sarto, ma con scarso profitto.
Nell’aprile del 1749, dimostrando una tenacia e una determinazione non
comune, riuscì a farsi accettare dai Redentoristi
che avevano predicato una missione popolare a Muro.
Dopo un periodo di prova e l’anno di noviziato, trascorsi nella casa di Deliceto, emise la professione religiosa, il 16 luglio
1752.
Pur osservando fedelmente la Regola, andò in giro questuando nei paesi
circostanti per sovvenire ai bisogni materiali della comunità.
La sua presenza tra le persone mortificate dalla miseria e dall’ignoranza,
soggette alle epidemie e alle crisi dei raccolti era vista come un segno di
speranza. Gerardo ne capiva lo stato d’animo e dava a tutti un segno di
fiducia nell’amore e nella misericordia di Dio.
Visse nella Congregazione per 5 anni come fratello coadiutore, distinguendosi
per lo zelo apostolico, la pazienza nelle infermità, la carità verso i
poveri, la profonda umiltà nel periodo di una infamante calunnia, l’eroica
obbedienza, le penitenze e la preghiera costante.
Scrisse numerose lettere di direzione spirituale e un “Regolamento di vita”.
Il Signore lo favorì di carismi, tra cui la profezia, l’intelligenza dei
cuori e il dono dei miracoli. Morì il 16 ottobre 1755 a Materdomini
(Avellino).
Fu beatificato da Leone XIII il 29 gennaio 1893 e canonizzato da Pio X l’11
dicembre 1904.
Nell’animo popolare la figura sempre amica di Gerardo Maiella è vista come
segno di patrocinio, particolarmente per le mamme, i bambini e le
partorienti.
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Giovane -Ω-
di Laureano Del Otero
Destinatario della PGVR. Per orientarsi, persona tra i 16 e i 30 anni. Nel
percorso della vita cristiana, persona che accoglie personalmente la fede e
si impegna con essa in modo creativo e coerente, tra la fine della
Iniziazione Cristiana e la scelta vocazionale di vita.
Non tutti i giovani sono uguali. Per evangelizzarli è necessario conoscere y
capire il tipo di società a cui appartengono, giacché la società condiziona
la vita dei giovani, come la vita di tutte le persone che la costituiscono. I
giovani, di tutte le epoche, sono fedele riflesso dei valori che guidano la
società che, non possiamo dimenticare, hanno costruito gli adulti con le loro
scelte. D’altra parte, essere giovane implica sempre una forma di vita
differente da quella degli adulti. Il giovane si caratterizza per una
impostazione di vita peculiare, molto diversa dalle altre tappe di sviluppo
della vita umana. Questa impostazione ha come obiettivo raggiungere una
identità propria e originale.
La vita giovane è sempre un risveglio in tutte le dimensioni che la realtà
offre come cammino di costruzione del proprio futuro. Il suo cuore è aperto
alla vita, all’amicizia e all’amore profondo, all’emozione, alla preparazione
e qualificazione, alle sensazioni, alle esperienze limite e alle impressioni
dei racconti (reali e irreali). Allo stesso tempo, si legano con relativa
facilità a grandi cause e ad offerte di trasformazione sociale, anche se ciò
non garantisce il loro coinvolgimento. Il giovane è idealista per natura,
aperto al futuro e con capacità di rischio. In questa caratteristica si
nasconde, anche, una certa apertura alla trascendenza.
Inoltre, il giovane possiede un altro ritmo vitale, che lo identifica come
tale nell’insieme della società. Le sue priorità, gusti, orari e attività
corrispondono a quella tappa della vita. In generale, si trova a metà cammino
tra l’estetica e l’etica, preoccupato per l’immagine e l’accettazione da
parte degli altri come forma di inserimento nella comunità umana.
Nella Chiesa non sempre trova uno spazio nel quale poter vivere la fede in
accordo con la sua forma di essere e di esprimersi. Anche se in realtà non
mancano giovani nella Chiesa che scoprano nel Dio di Gesù Cristo una chiamata
a essere felice e solidale. Il giovane sente la necessità di Cristo Redentore.
Allora se la sua massima aspirazione è raggiungere una vita piena e felice,
Cristo risponde assolutamente alla sua massima aspirazione.
I giovani ricoprono un ruolo molto importante nella Chiesa: riescono a
rinnovare la comunità cristiana, e a porre in discussione quegli elementi che
rendono meno radicale la sua testimonianza e missione.
Rappresentano, pertanto, per i Redentoristi una
sfida e, allo stesso tempo, un’urgenza. Una sfida perché in essi
l’espressione del Vangelo è spontanea e rivelatrice di una nuova forma di
vita cristiana. Un’urgenza, perché i giovani sono abbandonati dall’attività
pastorale di molte comunità cristiane, e necessitano di spazi per la
riflessione, la convivenza e la preghiera. La PGVR, di conseguenza,
rappresenta uno spazio adeguato perché il giovane scopra il senso della
propria vita e vocazione. Per questa ragione, rappresenta una priorità per i Redentoristi.
Infine, il giovane non solo è destinatario della PGVR; ma è anche chiamato a
essere agente, animatore, missionario. Pertanto, sussistono allo stesso tempo
due modalità di presenza del giovane nella PGVR: una, come destinatario,
l’altra come agente.
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Giovani
e “giovani adulti” -Ω-
di Santo Arrigo
In tutto il mondo, le parole “giovani” e “giovani adulti” hanno un
significato diverso nel contesto pastorale. In Europa, solitamente la parola
“giovani” indica gli uomini e le donne compresi nella fascia di età che va
dai 18 ei 35 anni.
In Nord America, invece, il termine “giovane” è spesso applicato alla fascia
di età compresa tra i 14 – 17 anni, mentre coloro che sono di età compresa
tra i 18‐30 sono considerati “giovani adulti”. Negli
Stati Uniti, ad esempio, nella categoria di “Giovani Adulti” si possono
incontrare anche giovani che hanno superato questa età.
Sembra che alcuni “giovani adulti” arrivano alle decisioni fondamentali della
vita in ritardo rispetto ai ragazzi di età più piccola. La classificazione di
“giovani” e “giovani adulti” pare quindi che aiuta ad individuare, sia ai
sociologici sia ai pastoralisti, le esigenze di
entrambi i gruppi in modo tale da trovare risposte per la loro crescita
integrale.
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Giovanni
Nepomuceno Neumann -Ω-
dal Messale redentorista
Giovanni Nepomuceno Neumann
nacque a Prachatitz in Boemia (Repubblica Ceca) il
28 marzo 1811. Studiò teologia nel seminario di Budweís.
Entusiasmato per la vita missionaria e desideroso di portare anime a Cristo,
decise di lasciare la patria per dedicarsi agli emigrati europei residenti in
America, privi di aiuto spirituale.
Fu ordinato sacerdote dal vescovo di New York, e subito si prodigò nella cura
pastorale delle vaste zone che circondano le cascate del Niagara.
Desideroso di vivere in una comunità religiosa che meglio rispondesse alla
sua brama missionaria, entrò nella Congregazione del Santissimo Redentore. Fu
un instancabile missionario, preoccupandosi in particolare degli emigrati
tedeschi prima in Baltimora, poi a Pittsburgh. Svolse il ruolo di viceprovinciale dei Redentoristi
dal 1846 al 1849, quando divenne parroco della chiesa di Sant’Alfonso in
Baltimore. Nel 1852, a 41 anni, fu nominato vescovo di Filadelfia. Incise
fortemente nella vita religiosa degli Stati Uniti fondando scuole cattoliche
e promovendo il culto dell’Eucaristia. In due anni il numero degli alunni
nelle Scuole parrocchiali passò da 500 a 9000. Fondò un nuovo Istituto: le
Suore del terzo Ordine di san Francesco. Nel breve spazio di 7 anni costruì
89 chiese, alcuni Ospedali e Orfanotrofi.
Degno figlio di Sant’Alfonso, fece come lui il voto di non perdere mai tempo.
Fu un vescovo santo e infaticabile. Visitò ininterrottamente la vasta
diocesi; giunse a percorrere fino a 40 km di montagna, a dorso di un mulo,
solo per cresimare una fanciulla inferma.
Il 5 gennaio 1860, a 49 anni, morì improvvisamente di infarto in una strada
di Filadelfia.
Beatificato durante il Concilio Vaticano II il 13 ottobre 1963, fu
canonizzato il 19 giugno 1977. Nella omelia della canonizzazione Paolo VI riassumeva l’attività del nuovo Santo in queste
parole: “Era vicino agli ammalati, amava incontrarsi con i poveri, era amico
dei peccatori e ora costituisce la gloria di tutti gli emigrati”.
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Guida
spirituale -Ω-
di Pietro Sulkowski
Generalmente possiamo indicare con questo termine colui che offre un aiuto
spirituale nel fare la volontà di Dio. L’appellativo guida fa venire
in mente un percorso. Per cui la guida spirituale è una persona che accompagna
per le vie dello Spirito, stimola nella maturazione di fede del diretto,
conduce verso la scoperta della volontà di Dio.
Per il ruolo di guida vengono anche usati gli altri appellativi, come: padre spirituale,
direttore, maestro, accompagnatore… Molti oggi riaffermano che la guida spirituale è
prima di tutto uomo dello Spirito. Il suo ruolo è legato all’azione dello
Spirito Santo nella persona che sta accompagnando.
Il servizio della guida spirituale è uno dei ministeri più delicati che
esistono nella Chiesa. È chiamato “arte delle arti”. Questo ministero di
sostegno spirituale esige precise qualità personali, una certa formazione e
maturità, un’esperienza spirituale rilevante.
Nella visione alfonsiana il mezzo privilegiato del
cammino cristiano è la direzione spirituale. Essa rappresenta un aiuto
necessario nell’itinerario spirituale, un mezzo importante per percorrere la
via della perfezione: una buona guida conduce la persona verso la santità.
Alfonso consiglia la direzione a tutti i laici e la raccomanda fortemente a
tutti i religiosi. Egli è convinto che non si può progredire nella vita
spirituale e raggiungere la santità senza l’aiuto di un altro. Perciò il
compito primario della guida spirituale è quello di accompagnare le anime
dalla conversione alla perfezione della santità.
Il ruolo della guida spirituale consiste nel rendere più sicuro il cammino
del credente verso la santità e nella uniformità alla volontà divina. Per cui
il fine della direzione spirituale, secondo Alfonso, è la santità, la perfezione,
ossia lo sviluppo della vita interiore fino alla sua pienezza; lo scopo
consiste nella crescita dell’amore verso Cristo e nella conquista graduale
della santità. I precetti, le leggi o i consigli delle guide rappresentano i
mezzi tangibili, attraverso i quali è possibile discernere la chiamata di Dio
e realizzare la santità.
Alfonso attribuisce un grande ruolo all’opera della guida spirituale. Anzi
egli ritiene che la guida rappresenti Dio stesso, accerta la volontà divina e
assicura il cammino del fedele e lo aiuta a correggere i difetti.
Per Alfonso le caratteristiche della guida spirituale sono: la scienza,
l’esperienza, la benignità, la santità della vita personale. Il Santo
raccomanda a chi vuole essere guidato, la preghiera per trovare una buona
guida spirituale.
La PGVR ritiene la guida spirituale come colui che è in grado di aiutare i
giovani a prendere coscienza della necessità di un accompagnamento
personalizzato per la maturazione e la realizzazione del Progetto di Vita. Il
Redentorista è chiamato a maturare uno sguardo contemplativo della vita, tale
da far riscoprire nel giovane la ricchezza del suo mondo interiore. Questo
sguardo presuppone occhi buoni, ovvero la capacità di scrutare le anime delle
persone in ricerca delle risposte circa la loro vocazione. Solamente le guide
profonde spiritualmente saranno capaci di aiutare, discernere e orientare
verso la vera decisione vocazionale. Per avere questa vita profonda è
necessario un atteggiamento di preghiera, di riflessione sulla parola di Dio,
di continua conversione, vita virtuosa, ecc. Per i Redentoristi
il ministero di guida spirituale deve essere un incarico luminoso e
apprezzato. Di fronte a tanti interrogativi del mondo di oggi i congregati
sono chiamati a rendersi disponibili in questo servizio (cf.
Statuto 024).
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Incarnazione -Ω-
di Antonio Pupo
Tutto il mistero dell’incarnazione si racchiude per Sant’Alfonso in una
sola parola: Amore.
Dio è follemente innamorato dell’uomo. E quando questi, con la sua
disobbedienza merita di essere allontanato dall’Eden, il cuore di Dio ne
resta lacerato. Per giustizia l’uomo viene allontanato perché ha tradito la
fiducia, l’amicizia, l’alleanza con Dio e, da quel momento, dovrà riscattare
con il sudore, il lavoro e con sacrifici (immolazioni) la sua vita.
Ma chi può rendere piena giustizia a Dio? Solo un altro Dio lo potrebbe
essendo alla sua altezza e di pari dignità. Come potranno quindi i sacrifici
dell’uomo raggiungere la dignità dovuta e rendere giustizia a Dio? Con le sue
sole forze l’uomo non potrà acquistarsi la dignità di essere alla pari con il
suo creatore.
Se l’uomo non può diventare dio è Dio, allora, che si fa uomo per poter
permettere all’oggetto del suo amore (l’uomo) di assolvere alla giustizia ed
essere così riscattato o, come dice il termine latino, redento. A questo
sacrificio d’amore è lo stesso Figlio di Dio che si propone convinto che solo
un donarsi totalmente per amore può riaprire il cuore dell’uomo verso Dio.
Il Figlio di Dio potrebbe incarnarsi in un uomo perfetto, già formato, come
lo fu Adamo e apparire in tutta la sua maestà e potenza come era l’idea del
Messia atteso da Israele. Ma Dio non vuole atterrire l’uomo o attirarlo a sé
con la forza o la paura di punizioni eterne. Vuole che il suo amato ritorni a
Lui in uno slancio di amore, come l’innamorato alla sua sposa.
L’incarnazione, quindi, deve essere l’immagine della tenerezza di Dio. E
quale immagine più tenera se non quella di un bambino che per crescere ha
bisogno di carezze, di affetto e di cura amorosa?
Dio si fa piccolo per fare noi grandi, scende in terra per far salire noi in
cielo. L’incarnazione è il “tempo degli amanti”. Per comprendere
questo mistero è necessario che anche noi ci facciamo fanciulli, perché il cuore
dei fanciulli non sa portare rancore né odio e subito dimentica le offese
subite. E anche se siamo stati a lungo peccatori, accogliendo Cristo siamo
perdonati e redenti perché “l’Eterno Padre non sa disprezzare il sangue di Gesù
Cristo che paga per noi”.
Nell’incarnazione il Figlio di Dio da grande si fa piccolo, povero, servo,
debole, si assume le colpe dell’uomo non solo per riscattare l’uomo con il
suo sangue, con la sua stessa vita immolata sulla croce ma anche per aiutarlo
nel suo cammino di rinascita interiore che lo deve portare ad amare con lo
stesso
amore con cui Dio lo ama. Con il suo esempio vuol far comprendere all’uomo
che un cuore che ama deve darsi tutto a tutti, vincere le proprie passioni
quali la brama di ricchezze, la superbia e l’amore dei piaceri mondani per
poter così aprire il suo cuore verso i propri fratelli e quindi a Dio stesso
che ama tutti in eguale misura.
Dio che nessuno può vincere è stato vinto dall’amore e quest’amore lo ha
portato a farsi uomo e a sacrificarsi per amore dell’uomo.
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Ivan
Ziatyk -Ω-
dal Messale redentorista
Sacerdote e vicario generale della Chiesa greco‐cattolica
ucraina, nacque il 26 dicembre 1899 ad Odrekhova (Sjanok, Sanok) in Galizia. Dopo
il ginnasio a Sjanok, nel 1919 entrò nel seminario
di Peremyshl e nel 1923 fu ordinato sacerdote.
Dal 1925 al 1935 fu prefetto e professore di teologia nel seminario di Peremyshl. Il 15 luglio 1935 entrò tra i Redentoriosti. Dopo il noviziato insegnò teologia e
scrittura nello studentato di Gholosko (Lviv). Nel gennaio 1948 fu nominato vice‐provinciale
e vicario generale di tutta la Chiesa greco‐cattolica
ucraina.
Arrestato il 24 gennaio 1950, per quasi due anni visse nelle carceri di Zolochiv, di Lviv e di Kiev. Il
21 novembre 1951 fu condannato a dieci anni di lavori forzati e trasportato
nei lager di Ozerlag (Ozernyj)
in Siberia.
Il venerdì santo del 1952 fu cruentemente seviziato
a bastonate. Si spense tre giorni dopo, il 17 maggio, in uno degli ospedali
del luogo.
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Laico -Ω-
di Aldo Savo
Nel linguaggio ecclesiale il termine laico indica una persona che
appartiene al popolo di Dio ma ed è “slegato” dalla gerarchia ecclesiale
(vedi voce: religioso). Nei testi del Nuovo Testamento il termine laico non
compare esplicitamente, ma in essi è riportata l’esperienza dei primi
cristiani che danno la loro testimonianza al Vangelo di fronte al mondo.
Nel periodo storico di S. Alfonso abbiamo le confraternite o compagnie:
associazioni di laici, canonicamente erette, con propri statuti. Esse
svolgono opere di carità verso il prossimo, assistendo i confratelli infermi
e suffragando le anime dei defunti. Nei centri maggiori assistono carcerati e
condannati a morte, erigono ospedali per gli ammalati poveri e ricoveri per i
pellegrini diretti in Terra Santa o a Roma, in visita alla tomba di San
Pietro.
Una speciale attenzione al laicato sembra apportarla l’opera svolta dal
nostro san Clemente Maria Hofbauer, in particolare
nell’ultimo periodo della sua vita, quando si stabilisce a Vienna (inizio
dell’800): egli cerca di coinvolgere i laici nel suo molteplice impegno
apostolico per incidere in maniera più profonda e duratura nella società
europea del suo tempo.
Nella seconda metà del XX secolo, grazie al Concilio Vaticano II, i laici
iniziano a trovare una “dimensione vitale” in cui esprimere i loro doni.
L’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Christifideles
laici offre impulsi espliciti che manifestano profonde trasformazioni
capaci di rendere anche i laici protagonisti dell’azione salvifica che la
chiesa manifesta nel suo agire pastorale.
Seguendo questa ventata di novità anche la nostra Congregazione inizia a
pensare e definire la figura del Missionario Laico come collaboratore attivo
e partecipe della vita apostolica della Congregazione redentorista per un
reale arricchimento reciproco. I missionari laici sono fedeli laici (uomini o
donne, sposati o no), dalla fede matura e dalla testimonianza coerente, che,
chiamati dallo Spirito a seguire Cristo Redentore più da vicino, decidono di
condividere la spiritualità e la missione della comunità redentorista;
scelgono una forma stabile di associazione, cioè dì collaborazione e di
partecipazione alla sua vita apostolica; si impegnano ad attuare la missione
redentorista laicalmente, cioè «nelle loro
condizioni di vita, nei loro doveri o circostanze e per mezzo di tutte queste
cose» (cf. LG, n. 41). La comunità redentorista
mette a disposizione dei laici la ricchezza e la fecondità del suo patrimonio
spirituale e materiale.
I missionari Laici iniziano un cammino di discernimento che li porta alla
riscoperta della loro vocazione battesimale con la capacità di rispondervi
con prontezza e generosità; all’esperienza di inabissarsi nella spiritualità
e nella missione redentorista. La comunità dei missionari si impegna a
costruire un proficuo dialogo: ogni Redentorista è stimolato ad accresce
l’interesse per il mondo del laicato affinché egli si possa arricchire di
tutto ciò che lo Spirito Santo gratuitamente dona attraverso la loro persona.
Segno visibile di tale cammino di crescita comunitario sarà il dedicare la
propria vita agli abbandonati, soprattutto a chi è messo ai margini nella
società ed a quelli che vivono una dimensione di vita povera sia materiale
sia spirituale. È impegno della comunità redentorista, insieme con i laici,
ad individuare le “strategie” pastorali più adatte rispondere alle diverse
necessità nel contesto sociale in cui vivono. Essi eviteranno di adattare degli
schemi “preconfezionati”!
Animati tutti dal carisma alfonsiano, ci
s’impegnerà a trovare quei percorsi d’evangelizzazione dei poveri che avranno
il fine di attuare una prassi missionaria dove gli stessi poveri coevangelizzeranno. I missionari e i laici redentoristi, alla scuola del Vangelo, comprenderanno e
vivranno sempre meglio le ricchezze che Dio ha seminato nei solchi
dell’umanità.
Su tale istanze da circa 20 anni nella Congregazione è iniziata un’esperienza
molto stimolante che raggruppi i laici denominati dalla sigla LAR (Laici
Associati Redentoristi). Coloro che appartengono ai
LAR dopo ampio discernimento si associano alla Congregazione in forma
pubblica attraverso un giuramento. Essi condividono con i Redentoristi,
il carisma, la spiritualità e l’apostolato.
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Libertà -Ω-
di Antonio Donato
Mamma, questa sera esco. Posso
rientrare dopo mezzanotte?». «No! È troppo tardi». «Papà, domani mi serve la
macchina! Posso usarla?». «No! Hai preso la patente da poco ed è troppo
pericoloso». «Professore posso andare in bagno?».
«No, sei già uscito la scorsa ora». «Uffa! Non sono libero di fare niente?».
Quante volte è risuonata sulla nostra bocca una frase di questo tipo: Non
sono libero di… c’è sempre qualcuno che mi dice di non… non posso fare niente… se
potessi farei, ma la mamma mi impedisce di…
Il problema riguarda la nostra libertà o per lo meno quello che noi pensiamo
sia libertà. Spesso, intendiamo la libertà come possibilità di appagare i
propri capricci, impulsi, desideri. Fare ciò che ci piace senza
preoccupazioni e senza limiti…
Ma la Libertà è qualcosa di più! In una delle sue opere più
importanti, Bernhard Häring,
teologo redentorista, afferma che la Libertà, quella con la “L” maiuscola non
può confondersi con la licenza di poter fare qualunque cosa trascurando
il fatto che la libertà non è mai il contrario della responsabilità.
Volendo precisare il significato di Libertà, allora, la potremmo
definire come la capacità di disporre creativamente e responsabilmente di
se stessi e del proprio futuro. Creativamente, perché, avendo noi la
ragione, a differenza degli animali che sono guidati dal solo istinto, l’uomo
può agire in modo sempre
«nuovo». Può introdurre nella catena normale degli eventi qualcosa d’imprevedibile
e che non esiste già prima. Responsabilmente perchè
non si può parlare di Libertà senza responsabilità. È infatti la
responsabilità ad aiutare l’uomo a superare il livello dell’istinto e a
cogliere il proprio progetto di vita vivendo da protagonista il proprio
tempo.
La Libertà, dunque, è un valore dinamico. Una realtà in continuo
movimento. Un cammino di “liberazione” dai condizionamenti interni ed
esterni, che gli psicologi chiamano libertà – da, per raggiungere la
pienezza della Libertà cioè la Libertà – per crescere nella
responsabilità in vista di un progetto da realizzare nella vita capace di ricentrare tutta l’esistenza.
Allora non sono i “non” a mettere in discussione la nostra Libertà.
Forse la condizionano o, ancora meglio ci condizionano. Ma sono proprio i “non
e i suoi fralelli” a porci di fronte alla
necessità di decidere e quindi di esercitare in modo responsabile o
irresponsabile la nostra Libertà. Un comando, positivo o negativo esso sia,
ci chiama a decidere della realtà e di noi stessi…
dietro l’espressione «cosa devo fare?» sono sempre messe in gioco sia
la responsabilità del momento che sto vivendo, e in cui sono chiamato a
decidere, il qui ed ora… sia la responsabilità della mia vita nella
sua totalità… il mio futuro… noi, siamo il frutto delle
nostre scelte!
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Madonna
del Perpetuo Soccorso -Ω-
dal Messale redentorista
La beata Vergine Maria, Madre di Dio, intimamente partecipe all’economia
della salvezza, specialmente nel mistero della Redenzione operata da Cristo,
coopera con il Figlio alla salvezza degli uomini. Per conseguenza è per tutti
Madre del Perpetuo Soccorso.
Una sua Immagine sotto questo titolo, secondo un’antica tradizione, fu
portata a Roma dall’isola di Creta verso la fine del secolo XV e collocata
nella chiesa di S. Matteo in via Merulana durante
il pontificato di Alessandro VI. Ivi fu venerata
dai fedeli per circa tre secoli. In seguito, distrutta la chiesa sotto il
governo napoleonico, anche quella icona scomparve: finché, provvidenzialmente
ritrovata nel 1866, fu affidata, per interessamento del Sommo Pontefice Pio
IX, ai Redentoristi che la esposero alla pubblica
venerazione nella chiesa del Santissimo Redentore dedicata a Sant’Alfonso.
Da allora il culto di quest’immagine miracolosa è andato sempre crescendo tra
i fedeli, e ora è largamente diffuso in tutto il mondo.
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Maria -Ω-
di Alfonso Amarante
La devozione alla Madonna, Madre di Dio (theotókos)
e madre nostra, è radicata nel cuore della Congregazione del Santissimo
Redentore e integralmente ereditata dalla tradizione della Chiesa, dalla
dottrina e dal cuore di Alfonso de Liguori,
espressione della sua pietà ed esperienza religiosa. Pertanto la Congregazione
ha una fisionomia tutta cristologico‐mariana.
Alfonso con la vita, la predicazione, gli scritti ha cantato dovunque Le
glorie di Maria (Napoli 1750), insieme all’annuncio gioioso
dell’abbondante redenzione.
Come Maria, madre di misericordia, ogni Redentorista è chiamato a svelare ai
poveri il volto di Dio, ricco di misericordia, in un rapporto di amore
fiducioso, filiale e insieme timoroso.
Nel Settecento, secolo attraversato dal giansenismo e da un culto riduttivo
alla Madonna (of Della regolata devozione de’
cristiani di L. A. Muratori del
1747), Alfonso è stato apostolo generoso e “massimalista” del culto mariano.
“Non oscura la gloria del Figlio, – era solito dire – chi onora molto la
Madre”.
Nel 1730 a Scala (SA), nella “Grotta delle rivelazioni”, ascolta la voce di
Maria che lo chiama a fondare un Istituto per la evangelizzazione dei più
abbandonati. E nell’Istituto redentorista la Madonna è venerata
particolarmente sotto due titoli:
* Immacolata, verità alla quale Alfonso credeva fermamente già cento anni prima
della definizione del dogma e che sostenne nel suo primo e più celebre dei Discorsi
(cf. Le Glorie di Maria,
in Opere ascetiche, VII, 9‐43). Fece anche
voto di difenderla fino al sangue e la dichiarò celeste patrona
dell’Istituto;
* Madonna del Perpetuo Soccorso (Madonna della
Passione), la cui immagine è stata affidata ai Redentoristi
da Pio IX nel 1865 per farla conoscere e amare nel mondo. Il titolo
interpreta in modo emblematico il carisma del Missionario Redentorista,
costantemente impegnato nella evangelizzazione.
“Le sante missioni altro non sono che una continuata redenzione che il Figlio
di Dio sta facendo nel mondo per mezzo dei suoi ministri…”
(Costitu zioni
del 1764, I, 1).
Per rispondere a questo sublime mandato interpongano i meriti e
l’intercessione potentissima di Maria e dei ss. Apostoli i quali, con la
beata Vergine, sono i principali protettori di tutti i missionari,
specialmente del nostro Istituto” (ibid., I, 5).
Eternamente predestinata, Maria ha abbracciato, dal sì dell’Annunciazione
fino al Calvario, il progetto redentivo di Dio,
diventando Corredentrice e soccorritrice del genere umano. I Redentoristi, come Maria, sono liberi e pronti “a
servizio” della redenzione, in piena disponibilità per i più poveri, per i più
peccatori.
Nelle missioni popolari itineranti, accanto al predicatore, non deve mai
mancare la statua della Madonna, né la predica sul suo materno patrocinio. “È
lei che predica la missione” – ricordava spesso Alfonso.
Lo stesso stemma della Congregazione porta i monogrammi di Gesù e di Maria (Statuti
Generali del 1982, 6). Anche lo stile di vita del Redentorista richiama
questo culto mariano. In ogni stanza, abitata dai confratelli dell’Istituto,
ci deve essere una immagine di Maria.
L’abito religioso, crocifisso al petto e corona del rosario al fianco
sinistro (Costituzioni del 1982, 45, 4) è segno di identificazione
della spiritualità redentorista (ibid.). Così la meditazione assidua
su testi mariani, la recita quotidiana del rosario, le piccole astinenze il
sabato e nelle vigilie delle feste liturgiche della Madonna (ibid.,
32), recita di un’Ave Maria, prima dell’inizio di un lavoro, confermano la
solida e insieme tenera devozione alla Madonna. Alfonso indossava con
devozione l’abitino della Madonna del Carmine e ne diffondeva la pratica.
Inoltre raccomandava ai congregati di predicare ogni sabato sulla Madonna (sabatino). Questa tradizione in seguito è stata
alquanto condizionata dalla liturgia della messa vespertina prefestiva.
Maria, perfettamente unita a Cristo Redentore, solidale con le persone da
salvare, vera icona e inizio della Chiesa, modello di perfezione e di vita
per tutti, speranza viva, mediatrice di tutte le grazie, avvocata presso Dio,
è l’immagine che compendia la vita dell’apostolo redentorista.
Maria, infine, si pone ai giovani, particolarmente oggi, “Madre più madre”
come risposta alla crisi che avvolge la loro vita, con tutti i pericoli.
Maria non è qualcosa di superato o irraggiungibile, fragile, irreale, ma più
che mai giovane unica e speciale della famiglia umana. Vera giovinezza è
l’innocenza del cuore.
Maria, invocata Immacolata, piena di Grazia, pronta al Perpetuo Soccorso, si
rivela costantemente protesa ad accogliere, a proteggere e confortare
chiunque entra a far parte della grande famiglia redentorista.
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Metodij Dominik Trčka -Ω-
dal Messale redentorista
Nacque il 6 luglio 1886 a Frýdlant nad Ostravicí in Moravia
(attuale Repubblica Ceca). Nel 1902 entrò nell’educandato dei Redentoristi della provincia di Praga e il 25 agosto 1904
emise la professione religiosa. A compimento degli studi fu ordinato a Praga
il 17 luglio 1910.
Impiegò i primi anni di sacerdozio nelle missioni popolari. Nel 1919 fu
mandato a lavorare fra i greco‐cattolici
nella zona di Halic in Galizia, e quindi in
Slovacchia, nell’eparchia di Prešov, dove svolse un
intenso lavoro missionario. Nel marzo del 1935, dalla Congregazione per le
Chiese Orientali fu nominato visitatore apostolico delle monache basiliane a Prešov e a Užhorod.
Con l’erezione della Vice‐Provincia redentorista greco‐cattolica di Michalovce,
il p. Trčka, fu nominato vice‐provinciale
(23 marzo 1946). Subito si impegnò per la fondazione di nuove case religiose
e la formazione dei giovani redentoristi.
Nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1950 il governo cecoslovacco soppresse
tutte le comunità religiose. Dopo un processo sommario, il 21 aprile 1952, fu
condannato a 12 anni di carcere, durante i quali subì estenuanti
interrogatori e terribili torture.
Trasferito nell’aprile del 1958 nella prigione di Leopoldov,
a seguito di una polmonite contratta nella cella di rigore dove era stato
rinchiuso per aver cantato un inno natalizio, morì il 23 marzo 1959.
Sepolto nel cimitero della prigione, dopo la restaurazione della Chiesa grecocattolica, il 17 ottobre 1969, il corpo fu traslato
dai confratelli a Michalovce, dove attualmente
riposa nella chiesa redentorista dello “Spirito Santo”.
Sua Santità Giovanni Paolo II il 4 novembre del 2001 lo ha proclamato beato
in piazza San Pietro.
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Missione -Ω-
di Alfonso V. Amarante
Il temine missione significa letteralmente “inviato”. Nel mondo antico per
missionario si intendeva il soldato che saltando a cavallo percorreva miglia
e miglia per portare una lettera o semplicemente delle notizie. L’origine
teologica del termine, invece, è la traduzione latina della parola greca
apostolo. L’apostolo era colui che una volta recepito ed interiorizzato
l’insegnamento di Cristo, veniva mandato tra gli ebrei e i pagani ad
annunciare il “Regno di Dio”.
Nel progetto di S. Alfonso e dei suoi primi compagni la comunità redentorista
è comunità apostolica che “seguita” il Redentore tra gli abbandonati
predicando la Parola. L’evangelizzazione degli abbandonati è la chiave
interpretativa di tutte le scelte della Congregazione anche oggi. La missione
nel senso classico termine, cioè come forma di apostolato, è una forma di
fedeltà a questa intuizione.
Per Alfonso, tutti gli uomini sono chiamati alla santità. Essa consiste
nell’amore verso Dio e nell’uniformità alla sua volontà. L’uomo nella sua
fragilità durante il cammino terreno può allontanarsi da Dio. Nell’ottica
redentorista la missione è una forma di apostolato che permette, attraverso
la predicazione della Parola, di ritornare a Dio. Missione è quindi ogni
forma di apostolato per gli abbandonati.
La metodologia missionaria è sviluppata in modo da andare incontro alle
attese ed alle necessità degli abbandonati. La missione redentorista è un
incontro pastorale con gli abbandonati laddove essi vivono. Essa è un
intervento pastorale straordinario dove non arriva la pastorale ordinaria.
L’attività missionaria redentorista è incentrata intorno ad alcune parole,
come: 1. Missioni: le quali sono finalizzate all’annuncio della
parola di Dio tra i più abbandonati. Tra coloro che sono privi di aiuto
spirituale, particolarmente il popolo delle campagne e dei casali. 2. Missione
popolare: si parla di missione “popolare” poiché il linguaggio, lo stile
utilizzato dai missionari, l’orario delle funzioni devono adattarsi alle
esigenze degli “ultimi”. 3. Missio
ne parrocchiale: con questa espressione si intende l’apostolato che i redentoristi attuano nelle proprie comunità. Esse devono
essere centro di accoglienza, di catechesi e di preghiera. 4. Predicazione:
è incentrata principalmente intorno all’amore redentivo
donato di Dio attraverso suo figlio Cristo Gesù.
5. Vita devota: i missionari insegnano alcuni atti per
conservare la fede ed i frutti della missione, come la visita al Santissimo
Sacramento, la recita del santo rosario etc. 6. Ritorno missionario:
una volta annuncia la salvezza in una città i redentoristi
a distanza di tempo vi ritorno per consolidare il bene operato e le conversioni.
Ogni religioso redentorista, sia che operi in terra di missione (città o
nazione di un altro continente), sia che esplica il suo ministero in una
comunità, è mosso dalla consapevolezza di dover evangelizzare i
più abbandonati.
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Morte -Ω-
di
Francesco Ansalone
Nel lessico moderno la parola morte è essenzialmente negativa ed evoca con
tristezza la fine di ogni cosa e di ogni vita. Molteplici le riflessioni
filosofiche che lungo la storia hanno tentato una razionalizzazione di essa.
Nella visione alfonsiana della morte possiamo
notare subito ed apparentemente l’aspetto negativo della stessa e di
conseguenza, ciò che questa negatività comporta, ossia la conclusione, voluta
o non voluta, della esistenza terrena, che talvolta sembra negli scritti del
Santo avere una valenza solo negativa, descrivendola come la triste
conclusione della vicenda umana.
Nel linguaggio alfonsiano essa implica anche un
altro aspetto, ossia la conversione e la fugace opportunità per il cristiano
di far tesoro del tempo, del presente per potersi preparare all’incontro con
il suo Signore. È noto tra l’altro come il Santo abbia scritto un opera che
porta il titolo “Apparecchio alla morte”. In essa mentre il Santo sembra
indugiare nella descrizione di un uomo sul punto di morte, almeno questo
nella prima parte, subito dopo passa alla necessità di un totale ravvedimento
e quindi di un pronto ritorno a Dio.
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Musica -Ω-
di Paolo Saturno
La definizione del termine musica presenta non poche difficoltà
determinate dalla complessità della natura stessa della materia musicale. In
linea di massima è ancora accettabile quella che recita: “La musica è l’arte
del suono e del canto”. Oggi nel concetto di musica rientra anche quello di
linguaggio. Anzi la musica è presentata come linguaggio universale non
verbale. L’accostamento del linguaggio musicale a quello parlato è basato sul
comune denominatore di analoghe grammatiche e sintassi linguistiche.
La musica varia da popolo a popolo, da epoca ad epoca. In rapporto al suo
contenuto – almeno in occidente – normalmente essa viene divisa in gregoriano,
polifonia (a sua volta divisa in antica, nuova, fiamminga e rinascimentale),
melodramma (includiamo in esso anche le varie forme di musica vocale)
e musica strumentale. In rapporto ai periodi, essa viene catalogata in
musica medioevale, rinascimentale, barocca, classica, romantica e moderna.
Canto gregoriano e Polifonia hanno in comune
la base modale in quanto costruiti su quelle particolari scale dette modi
gregoriani o toni ecclesiastici. Melodramma e musica
strumentale, invece, sono etichettati come musiche armonico-tonali in quanto
costruite sulla base delle tonalità (maggiori e minori) e dell’armonia, che si
sono sviluppate dal XVII sec. in poi. Nel Novecento si è frantumata la
grammatica tonale‐armonica,
determinando la nascita dell’ato nalità e della serialità o dodecafonia
conseguente alla saturazione dell’armonia, grazie all’accordo di
ventitreesima teorizzato da A. Vitale C.Ss.R.
Nel complesso panorama storico della musica rimane ancora da
lumeggiare l’aspetto popolare e, in particolare, quello sacro, di cui fa
parte il filone alfonsiano‐redentorista. Di
questo si sta delineando il percorso storico e se ne sta riconoscendo
l’intimo legame con la specifica evangelizzazione. Con il termine filone alfonsiano‐redentorista
intendiamo la produzione che, nata dai canti di Sant’Alfonso – Canzoncine
e Duetto tra l’anima e Gesù Cristo –, si è sviluppata fino ad oggi in
Italia e in tutti i paesi del mondo, in cui operano i Redentoristi.
La musica alfonsiano‐redentorista
abbraccia forme popolari e colte. Sostanzialmente essa nasce come supporto
alle attività apostoliche liguorine. In tal senso,
ha svolto e svolge un ruolo pedagogico‐didattico
o di strategia missionaria (cf Convegno
internazionale Musica e Strategie pastorali di età moderna –
Università di Roma “La Sapienza” 17‐18/02/2006). A tal
proposito va detto che essa, tra tutte le musiche prodotte nei sec. XVII‐XIX
per lo stesso scopo, al momento rimane l’unico repertorio conosciuto e
studiato. Pur non essendo liturgica in senso stretto, essa è utilizzabile
anche per la liturgia.
Le canzoncine della tradizione alfonsiano‐redentorista
sono rapportabili, idealmente e per contenuto, agl’inni didascalico‐laudativi della
tradizione cristiana orientale e occidentale, alla lauda francescana duo‐trecentesca,
a quella giustinianea quattrocentesca e a quella filippina dei
sec. XVI‐XVIII.
La Canzoncina alfonsiana, in particolare, ha
rappresentato il modello formale dell’analoga produzione, che si è sviluppata
su scala internazionale fino ad oggi. Essa canta i momenti fondamentali della
vita cristiana e devozionale (Natività, Passione, Eucaristia, Maria, santi,
ecc.).
In quanto risultato di una tradizione orale, essa rientra nel settore dell’Etnomusicologia.
Ha determinato anche la produzione di opere musicali di considerevole
spessore quali, ad es., le cantate oratoriali di A. Vitale. Il suo studio ha
incentivato la ricerca musicologica relativa alla cantata sacra italiana
del Settecento. Il canto alfonsiano Tu scendi
dalle stelle rimane la melodia per eccellenza del Natale cristiano‐cattolico.
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Natale -Ω-
di Antonio Pupo
Il luogo più proprio e qualificato della «apparizione» dell’amore di Dio
è, per Sant’Alfonso, il Natale di Gesù Cristo. Ed è chiaro per lui che tra la
greppia (Praesepium) di Betlemme e il Golgota di Gerusalemme c’è una linea diretta e continua,
quindi una perfetta identità di contenuti: la gloria cantata dagli angeli
nella notte di Natale è la stessa annunciata dal Vangelo di Giovanni il
Venerdì santo.
Davanti al bambino Gesù Sant’Alfonso è come fuori di sé, in estasi, colmo di
gioia. Manifesta tutta la sua delicatezza senza misura, in cui si coglie
anche il suo tipo di approccio a Dio. Lo si vede, propriamente,
dall’atteggiamento affettuoso che assume. Chi vuol sapere chi è Dio l’osservi
davanti al bambino nella culla: il puro amore. Un S. Alfonso così,
libero e incantato, forse non lo si incontra mai nei suoi scritti tranne in
quelli sul Natale e appunto nelle sue poesie natalizie (Tu scendi dalle
stelle, Quanno nascette
Ninno, Bambino mio bellissimo, Fermarono i cieli, Ti voglio tanto bene).
Possiamo cogliere quattro «sentimenti» che sembrano caratterizzare
l’atteggiamento di Sant’Alfonso davanti al presepio: il primo sentimento alfonsiano davanti al bambino Gesù è lo stupore.
Stupore, anzitutto, per ciò che Alfonso vede: un bambino «dint’i panni... arravugliato» sul
cui volto splende quello di Dio. Un bambino‐Dio sceso «dalle stelle
al freddo e al gelo», che ha abbandonato la forma divina e ha assunto,
come si esprime l’apostolo Paolo, quella di «servo». Ma perché tutto questo?
Cosa può spingere Dio a
«farsi uomo»? L’amore, risponde Sant’Alfonso. Quel bambino‐Dio
che giace nella mangiatoia insieme agli animali è l’espressione incantevole
del fatto che Dio ama (v. Incarnazione).
L’altro sentimento di Alfonso è la tenerezza: la sua affettuosa
delicatezza per il bambino. Una nascita, dunque, per attrarre, per sedurre: «I
bambini per se stessi si fanno amare e si tiran
l’amore di ciascuno che li guarda» (Novena del Santo Natale, Disc.
II). La tenerezza alfonsiana non è un sentimento
contemplativo, spinge alla risposta, sfocia nella iniziativa da parte
dell’uomo nell’adorare il Dio che si è fatto bambino.
Ma la tenerezza alfonsiana si fa più profonda in un
terzo sentimento, questa volta doloroso: la compassione. E legata alla croce,
la cui ombra si stende già sulla culla del bambino. L’amore di Dio non è
un’esibizione. Nella greppia di Betlemme si svolge il primo atto di una
storia d’amore che si concluderà drammaticamente sul Golgota,
nella sconfitta della morte. In realtà, quella culla è sovrastata dall’idea della
missione, del compito di cui si è fatto carico il bambino per ricondurre
tutto nell’ordine dell’amore. Compatire è abitare
con la persona amata facendo proprio il suo dolore: «la compassione comporta
pena», scrive. L’amore non è questione di parole.
Infine, la gratitudine: la risposta all’amore trascendente. Per
Sant’Alfonso è questione di logica e di coerenza: a chi ama non può negarsi
l’amore. L’appello alfonsiano, come quello
evangelico, è rivolto al cuore, ossia alla libertà. Solo con la libertà si
può rispondere a Dio. Alfonso ne è convinto: mai l’amore può essere forzato.
Ma se Dio non può costringere, può attendere. Può aspettare che gli uomini si
persuadano dell’amore. Il Natale di Cristo è, per Alfonso de Liguori, l’inizio fiducioso di questa attesa.
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Nicholas
Charnetsky -Ω-
dal Messale redentorista
Vescovo, esarca apostolico di Volyn’ e Pidljashja, nacque il 14 dicembre 1884 nel villaggio di Semakivtsi (Ucraina Occidentale).
Alunno del Collegio Ucraino a Roma dal 1903 al 1909, conseguì il dottorato in
teologia presso la Pontificia Università Urbaniana.
Ordinato sacerdote il 2 ottobre 1909, insegnò filosofia e teologia nel
Seminario di Stanislaviv. Nel 1919 entrò nella
Congregazione del SS. Redentore. Dal 1926 fu missionario fra i greco‐cattolici in Volyn.
Nominato vescovo titolare di Lebed e visitatore
apostolico per gli ucraini cattolici di Volyn e Podlachia, fu consacrato l’8 febbraio 1931 nella chiesa
di Sant’Alfonso a Roma.
Espulso da Volyn nel 1939 a seguito
dell’occupazione sovietica, si trasferì a Lviv.
L’11 aprile 1945 fu arrestato insieme a tutti i vescovi greco‐cattolici.
Condannato inizialmente a cinque anni ai lavori forzati in Siberia, in
seguito la pena fu aumentata di altri dieci anni. Dal 1945 al 1956 visse in
una trentina di lager e prigioni sovietiche, subendo un totale di 600 ore di
torture e di interrogatori.
Scarcerato nel 1956, fu riportato a Lviv quasi
moribondo. Ripresosi inaspettatamente, guidò dal suo letto la Chiesa cattolica
ucraina che sopravviveva nelle catacombe. Morì a Lviv
il 2 aprile 1959, all’età di 75 anni. E’ sepolto nella chiesa redentorista di
san Giosafat a Lviv.
Sua Santità Giovanni Paolo II il 27 giugno 2001, durante la visita apostolica
a Lviv lo ha proclamato Beato insieme ad altri 24
martiri della Chiesa grecocattolica ucraina.
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Novissimi -Ω-
di Salvatore Brugnano
Andando al catechismo, abbiamo imparato a conoscere questa parola “i
novissimi” e poi l’abbiamo dimenticata, forse l’abbiamo rimossa dal
nostro inconscio. Nel catechismo ci hanno spiegato che i novissimi sono: morte,
giudizio, inferno e paradiso. La parola “novissimi” in qualsiasi lingua
non si comprende molto tanto bene se alle spalle non si ha un background;
infatti è una parola latina che vuole dire: le ultime realtà, quelle che
stanno alla fine di tutta la storia.
Noi normalmente viviamo sperimentando le verità penultime: il nostro
studio, il nostro lavoro, la vita familiare, l’impegno culturale, la politica… Tutte queste cose fanno parte delle realtà
penultime. Le realtà ultime sono quelle che diventano definitive. La
morte è una realtà definitiva perché è senza appello, non c’è la possibilità
di rimandarla o di ripeterla; così il giudizio, così l’inferno e il paradiso
sono realtà ultime, definitive, sono i “Novissimi”. Sostanzialmente
corrispondono a quella che in teologia si chiama l’escatologia cristiana. (“escatologia”
vuole dire la stessa cosa che “Novissimi”; è una parola greca invece che
latina).
A prima vista questo tema non sembra proprio un bell’approccio al dialogo
d’amore che ci unisce al nostro Dio. Tuttavia queste parole racchiudono il nucleo
essenziale della speranza cristiana. Ma per comprendere il loro
significato fondamentale bisogna evitare di cadere nell’atteggiamento di vana
curiosità: per es. sapere quali saranno i segni che annunciano la fine degli
uomini, quanti saranno i salvati e quanti i dannati…
ecc.
La Bibbia non risponde a queste curiosità, non ci presenta una cronaca degli
eventi futuri. Oggi c’è ancora chi vorrebbe leggere il libro dell’Apocalisse
(che è il libro della rivelazione finale) come se fosse una ripresa filmata
in anticipo degli avvenimenti della fine... Questi eventi finali rimangono
per noi un mistero: essi costituiscono l’incontro finale con Dio, e siccome
Dio è un mistero, l’incontro con Lui rimane avvolto nel velo del mistero.
Come del volto di Dio noi conosciamo molti (ma non tutti) lineamenti
(l’amore, la misericordia, la santità) così sul nostro futuro possiamo sapere
alcune cose; ma soprattutto possiamo dare un contenuto valido alla speranza
per quello che riguarda il nostro futuro.
Ecco cosa deve interessarci: l’atteggiamento della speranza. Non è tanto
importante sapere le cose, quanto sperare nel modo giusto. La Bibbia non ci
dà delle informazioni sul futuro, ma delle esortazioni a camminare verso un
futuro di salvezza.
I novissimi erano il nucleo fermo delle prediche “forti”, adatte a smuovere
il cuore e convertire gli animi dei fedeli induriti nel peccato. La
tradizione della predicazione redentorista ha onorato questo tema, suscitando
numerose e sensibili conversioni.
Lo stesso Sant’Alfonso, uomo del suo tempo e non indifferente alla vitalità
espressiva del barocco, si indirizzava al popolo semplice e analfabeta con le
tecniche “visive” del suo tempo, le quali molte volte tenevano il posto della
lettura: per esempio, mostrare l’immagine di un dannato a tutto il popolo
dopo la predica sull’inferno; sul finire della predica sulla morte prendere un
teschio in mano, non per un “giudizio fittizio” ma per delle constatazioni
molto realistiche… (es. Prima eri bello… e adesso?...)
Sant’Alfonso, successivamente, non fu più contento delle “prediche forti” e
verso il 1768 diede alle stampe un foglietto di 28 pagine dove chiedeva ai
predicatori di parlare più che dei Novissimi dell’amore santo amore che
“infiamma i cuori”.
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Novizi -Ω-
di Antonio Perillo
I novizi sono dei giovani, che dopo un intenso cammino di fede ed un
attento discernimento vocazionale chiedono di poter fare esperienza della
vita nella Congregazione. Durante il noviziato, che in genere dura un anno,
si impegnano ad approfondire e a valutare l’autenticità della loro vocazione
a seguire Cristo e ad apprendere la storia, la vita e lo spirito della
Congregazione, che imparano ad amare e ad apprezzare.
Aiutati dal Maestro e dalla comunità, seguono un intenso percorso formativo
che li impegna a maturare in quelle dimensioni, indispensabili ad un missionario
redentorista. Prima fra tutte è la maturità umana: è necessario accettare se
stessi, i propri limiti e i propri pregi, per raggiungere un equilibrio psico‐affettivo da cui scaturisca uno stile di
responsabilità, di dedizione, di apertura, di dialogo, di condivisione, di
servizio umile e disinteressato specie verso i più abbandonati.
Unita e proporzionale alla precedente è la crescita spirituale che il novizio
si impegna a perseguire soprattutto attraverso un’autentica preghiera
personale e comunitaria, una ricerca continua della volontà di Dio nella
propria esistenza e nel rendersi disponibile ad un continuo processo di
conversione continua.
Inoltre durante il noviziato, attraverso esperienze di vita comunitaria, si
aiutano i novizi a crescere nella vocazione alla vita fraterna. Perché
imparino a costruire delle comunità che siano luogo di fede, di servizio e di
mutua accettazione per rendere così più credibile ed efficace l’ annuncio
della Parola di Salvezza.
Non ultimo, sarà l’approfondimento della vita redentorista attraverso lo
studio e la meditazione: delle Costituzioni e degli Statuti della
Congregazione, della vita e del messaggio del fondatore Sant’Alfonso Maria de
Liguori e dei santi e beati redentoristi,
del grande patrimonio spirituale e apostolico che la Congregazione ha
maturato nei suoi quasi tre secoli di vita.
Tutto questo cammino ha lo scopo di far crescere i novizi nell’amore di
Cristo e di portarli a donare e a dedicare senza riserve la propria vita a
Lui, per essere insieme agli altri fratelli redentoristi
degli apostoli audaci, semplici e liberi della Parola di Dio, specie tra
coloro che sono i più abbandonati del nostro tempo.
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Orazione
Mentale -Ω-
di Antonio Perillo
L’orazione mentale è come l’ossigeno per la “vita nello Spirito”, è il
retroterra indispensabile della stessa preghiera, che senza la meditazione
alla fine si indebolisce. L’orazione mentale è necessaria a tutti per
perseverare nella grazia e per progredire nella carità. «È certo che uno dei
mezzi più grandi per farsi santo è l’orazione mentale, come dicono tutti i
maestri di spirito… La luce, la forza e il fervore
che sono necessari per camminare alla perfezione, nell’orazione si
acquistano. Perciò tutti i santi sono stati uomini di orazione» (Riflessione
ai Vescovi, in Opere Complete, vol. III, Torino 1847, p. 871).
I contenuti dell’orazione mentale per S. Alfonso sono sempre le verità che
sollevano e danno Speranza come: la misericordia di Dio, la sua bontà e il
suo amore, i misteri di Gesù Cristo, l’intercessione di Maria. In particolare
la Passione perché qui, più che in qualunque altro argomento, si percepisce
l’amore di Dio verso gli uomini. La passione di Gesù è “la meditazione buona
per tutti”. Riassumiamo brevemente il modo di fare Orazione mentale secondo
Sant’Alfonso: 1. Una breve preparazione (atti di fede nella presenza
di Dio, di umiltà e di domanda di luce); 2. La meditazione (fermandosi
su qualche verità eterna e sui Misteri di Cristo, servendosi abitualmente di
qualche libro); 3. Scaturiscono dalla meditazione tre frutti: a.) fare
affetti (atti di fede, di ringraziamento, di umiltà, di speranza, ma
soprattutto atti di amore e di contrizione); b.) pregare (chiedendo a
Dio principalmente amore e perseveranza); c.) risolvere (l’orazione
deve terminare con una risoluzione concreta che coinvolga la vita).
E alla fine la conclusione che consiste nel ringraziare Dio dei lumi
ricevuti; il proporre di osservare le risoluzioni fatte; e di chiedere a Dio,
per amore di Gesù e di Maria, la forza di osservare i propositi fatti. (of Regolamento di vita di un cristiano, in Opere
Ascetiche, vol. X, Roma 1968, pp. 282‐284).
Questo metodo che S. Alfonso suggerisce può essere utile anche a noi oggi,
soprattutto se nella meditazione ci disponiamo ad “ascoltare” la Parola,
lasciando che essa penetri nella mente e nel cuore, per poi ritornare a lui
come preghiera.
Il momento dell’orazione è la risposta dell’uomo che ha così assimilato le
potenzialità vitali della Parola, tramite la meditazione. Quando la Parola,
letta e meditata, riesce a riscaldare d’amore la mente e il cuore per Dio, è
il momento di passare alla contemplazione. Che fa riposare tranquillamente
l’animo in Lui, in una comunione di pace e di amore. Da questa semplice e
profonda unione, provocata dalla meditazione e dalla preghiera, derivano
tanti frutti che condurranno necessariamente ad una conversione continua ed
ad una vita vissuta nella carità.
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Passione -Ω-
di Francesco Visciano
Con il termine passione indichiamo, in genere, l’animo travolto dai
sentimenti, dove la razionalità lascia il posto alle emozioni. La psicologia
ci mette in guardia dal pericolo di nevrosi: chi è investito dalla passione
rischia di diventare pazzo. E di solito è vero che perdiamo la testa,
soprattutto quando siamo innamorati.
Nella Sacra Scrittura tutti sono concordi nel dire che la passione è il
momento centrale della storia della Salvezza, tanto che molti esegeti
affermano che “il Vangelo è la storia della Passione del Signore con una
lunga premessa”. Allora perché usare una parola così “inadatta” alla Sapienza
di Dio per indicare il suo dono più grande? Perché il Signore ha letteralmente
perso la testa per l’uomo, Egli “ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito, perché crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16‐17). Per dirla con s.
Alfonso egli “è pazzo per amore” dell’uomo.
Dio è l’essenza dell’Amore, che desidera toccare e trasformare ogni uomo. Per
amore si abbassò, prima nell’incarnazione e poi nella morte in croce, per far
sperimentare all’umanità che non c’è amore più grande, più vero di quello
donato gratuitamente, non c’è vera pace e felicità finché non diventiamo
servi gli uni degli altri.
Donarsi totalmente a qualcuno nella prosperità è semplice, ma quando vengono
le avversità torniamo ad essere razionali e fare calcoli. Nella croce noi
contempliamo un amore che non conosce limiti, un Dio che è pronto all’offerta
totale di sé per darci la prova suprema del suo amore.
Alfonso, nei suoi scritti, insiste sulla dimensione personale della salvezza.
Nella Via Crucis dirà: “Considera, come Gesù Cristo camminando in questo
viaggio colla croce sulle spalle a te pensava, e per te offriva a Dio la
morte, che andava a patire”. Per te… personalmente
siamo interpellati da quest’amore così grande.
La via della santità, allora, non è più semplice sforzo per raggiungere alte
vette, ma diventa risposta grata e totale ad un amore donato totalmente e
senza limiti. Così il termine assume il significato positivo di
“appassionarci”, orientare tutte le nostre risorse a rispondere concretamente
a questa sconvolgente proposta di amore.
La trasformazione del mondo e del nostro cuore passa attraverso la
contemplazione di colui che hanno trafitto. In questo volto sfigurato siamo
chiamati a riconoscere il Redentore del mondo. Se, come il Centurione,
abbiamo il coraggio di affermare “davvero Costui è il Figlio di Dio” anche il
dolore e la sofferenza perderanno i tratti foschi dell’assurdità e della
disperazione per riempirsi di luce e di senso. La nostra vita è dono, dono di
amore ed ha senso solo se è donata,
solo se diveniamo sacrificio vivente in Cristo, solo se diveniamo
misericordia e perdono, "dono per", dono gratuito per gli altri.
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Pasqua -Ω-
di Ciro Vitiello
La Pasqua, come evento e come solennità, costituisce il centro intorno a
cui si snoda la storia della salvezza e lo svolgimento dell’anno liturgico.
Pasqua, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, segna l’intervento di Dio a
favore del suo popolo, significato come “passaggio” per la “liberazione”.
Nell’Antico Testamento la Pasqua si caratterizza in due momenti:
- Dio “passa” e “libera”, e permette agli Ebrei di “passare e di essere
“liberati” dalla schiavitù.
- Dio finalizza la sua azione al dono della “legge” che ha il suo vertice
nell’”Alleanza” del Sinai.
Questi due momenti di un’unica Pasqua sono menzionati e rivissuti nella
celebrazione annuale della Pasqua ebraica.
Nel Nuovo Testamento Gesù porta a compimento il significato antico della
Pasqua nella sua persona, fissandola anche in due momenti:
- Egli “passa” attraverso la vita e la morte e “libera” definitivamente
l’umanità dalla schiavitù del peccato.
- La sua opera di salvezza viene sancita con il dono dello Spirito Santo a
Pentecoste.
Questi due momenti, pur celebrati con solennità liturgiche distinte, fanno
parte di una sola Pasqua nuova, costituendo l’inizio e la conclusione del
tempo pasquale.
Centro della Pasqua è il Triduo “della beata passione, della morte e della
risurrezione del Signore”. Da qui il valore fondamentale delle parole di
Paolo: “Cristo è la nostra Pasqua, ed è stato immolato” (1 Cor 5,7).
L’insistenza negli scritti di Sant’Alfonso sul mistero della passione e morte
di Gesù, sono il suo punto di forza per conoscere e vivere il mistero
pasquale.
Se “la nostra Pasqua è Cristo immolato”, non si può presentare la Pasqua
senza riferimento all’immolazione di Gesù, agnello senza macchia, offerto per
la salvezza del mondo.
La Pasqua è presente nella celebrazione dei sacramenti della Chiesa,
eminentemente nella celebrazione dell’Eucaristia. Durante la celebrazione
della Pasqua ebraica, Gesù istituì la Pasqua nuova, anticipando nei riti del
pane e del vino, l’offerta del suo corpo e del suo sangue sulla croce.
Dicendo ai discepoli: “Fate questo in memoria di me”, prolungò nel tempo,
fino a quando egli ritornerà, la sua Pasqua sacrificale.
“La Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si
chiama giustamente giorno del Signore o domenica” (Sacrosanctum
Concilium, 106).
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Pietro
Donders -Ω-
dal Messale redentorista
Pietro Donders nacque a Tilburg
in Olanda il 27 ottobre del 1809. Fin dalla prima giovinezza si sentì
chiamato al sacerdozio, ma, per la povertà della famiglia, fu costretto a
sospendere gli studi e a farsi tessitore come il padre. Ciò non gli impedì di
insegnare nel tempo libero il catechismo ai bambini e di esercitare un
influsso benefico sui suoi coetanei. Così fino ai 22 anni, quando, con
l’aiuto del parroco poté entrare nel seminario minore di St. MichielsGestel come seminarista‐operaio,
pagandosi col lavoro la retta mensile.
Diventato sacerdote il 5 giugno 1841, poté seguire la sua vocazione
missionaria partendo volontario per il Suriname, allora colonia olandese.
Nei primi 14 anni pose la sua base operativa a Paramaribo, dedicandosi ai circa
2.000 cattolici ivi domiciliati, e portandosi periodicamente tra gli schiavi
delle piantagioni (a Paramaribo se ne contavano circa 8.000 e più di 40.000
in tutto il Suriname), tra le guarnigioni dei forti militari, tra gli indiani
e i neri.
Nel 1856 si offrì come volontario del lebbrosario governativo di Batavia, dove rimase continuamente, salvo due brevi
intervalli, per 28 anni, curando nel corpo e nell’anima quei poveri infelici.
Li lasciò, solo per alcuni mesi, nel
1866, quando chiese di entrare tra i Redentoristi
ai quali era stato affidato dal Papa Pio IX il vicariato apostolico del
Suriname. Vestì l’abito religioso il 1° novembre di quell’anno ed emise i
voti il 24 giugno 1867.
La professione religiosa, associandolo ad una congregazione essenzialmente
missionaria, gli diede un senso più vivo dell’apostolato comunitario,
permettendogli di lasciare più spesso Batavia per
dedicarsi alla conversione degli indiani e dei neri.
Ma il nome di Donders resta legato al lebbrosario
di Batavia, dove morì, tra i suoi lebbrosi, povero
tra i poveri, il 14 gennaio 1887, rimpianto come un benefattore e invocato
come un santo.
Sua Santità Giovanni Paolo II lo ha beatificato in San Pietro il 23 maggio
1982, nel 250° anno giubilare della Congregazione del Santissimo Redentore.
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PGVR -Ω-
di Michael Kelleher
– Alfonso V. Amarante
PGVR significa Pastorale Giovanile Vocazionale Redentorista. Il fondatore
dei Redentoristi, Alfonso de Liguori,
ha speso tutte le energie della sua vita per annunciare ai più abbandonati la
gioia immensa della salvezza, la possibilità di una vita nuova, rinnovata
dall’amore.
Il carisma redentorista, che incarna l’intuizione fondamentale di Alfonso e
della comunità delle origini, poggia su due elementi: 1. Seguire Gesù Cristo,
il Redentore; 2. La predicazione della Buona Novella e l’abbondante
Redenzione a coloro che sono abbandonati.
E chi più dei giovani, abbandonati e bistrattati dalle grandi agenzie
educative, oggi hanno bisogno di accogliere e vivere insieme un progetto
ampio di pienezza umana e spirituale?
Con la sigla PGVR la Congregazione dei Redentoristi
intende offrire un itinerario che porti i giovani a vivere la gioia di
scoprire che Cristo cammina con loro, si dona e offre continuamente un’esperienza
di comunione per dirci che la vita ha senso solo se diventa dono per gli
altri. Il Ministro ecclesiale della Pastorale giovanile può essere definito
come la risposta della comunità cristiana alle necessità dei giovani e in
contempo “la condivisione con l’intera comunità del dono unico dei giovani”.
La PGVR si propone fondamentalmente tre obiettivi:
• incoraggiare la crescita completa, umana e spirituale, di ciascun giovane;
• invitare e incoraggiare i giovani a vivere nel mondo contemporaneo come
discepoli di Gesù Cristo;
• spronare i giovani ad una partecipazione responsabile alla vita, alla mis- sione e al lavoro della
fede cattolica della comunità.
La proposta della PGVR che nasce da questa ispirazione si propone di
promuovere una programmazione creativa, partecipativa, flessibile, adattabile
e piacevole che sia appropriata alla crescita. La PGVR deve essere
caratterizzata dal calore di una famiglia, sarà intergenerazionale,
multiculturale e rivolta all’inserimento e promuoverà la collaborazione
all’interno della comunità.
Da ciò si comprende che il compito essenziale del ministero della PGVR è di
facilitare un incontro personale di offerta e di scambio tra il giovane e
l’abbondante pazzia di Dio, ed esplorare come questo incontro possa diventare
sorgente di un progetto (o una “vocazione”) di vita per un giovane in questo
mondo.
La PGVR avrà particolare attenzione a quei giovani che si trovano ai margini
della società. Si propone di strare con loro e sarà per loro una voce.
Su questa base fattivamente la PGVR:
- inviterà i giovani a esperienze di vita e condivisione comunitaria con la
comunità apostolica redentorista;
- si impegnerà ad adattarsi e a condividere con i giovani in un modo
“familiare” e creativo la Parola di Dio, così che quei giovani potranno
vivere questa esperienza come un incontro con l’abbondante e pazzo amore di
Dio;
- promuoverà incontri personali con i giovani e ricercherà su come questi
momenti possano diventare sorgente di un progetto (vocazione) di vita;
- inviterà i giovani a partecipare ad appropriati programmi di “servizio”;
- si impegnerà per la formazione di giovani animatori e incoraggerà e
faciliterà l’esercizio dell’animazione;
- promuoverà la crescita di giovani avendo particolarmente a cuore le
situazioni critiche.
La PGVR non è un gruppo ecclesiale o un movimento, ma un percorso formativo
umano e spirituale offerto ai giovani che vivono nelle nostre comunità, a
quelli che incontriamo durante le missioni e a coloro che liberamente si
avvicinano alle nostre realtà.
In sintesi possiamo dire che per PGVR intendiamo:
Per Pastorale intendiamo un percorso che parte dalla fragilità umana
che si realizza nell’incontro con Dio.
Per Giovanile intendiamo prevalentemente la fascia di età che va dai
14 ai 23 anni.
Per Vocazionale intendiamo il discernimento della chiamata personale
che ci impegna a vivere da veri cristiani.
Per Redentorista intendiamo che lo specifico di quest’itinerario di
fede segue i tratti fondamentali della nostra spiritualità dove al centro
dell’annuncio c’è il Cristo che dona la sua redenzione gratuitamente ad ogni
uomo.
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Preghiera -Ω-
di Antonio Perillo
«Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, dalla quale si ottiene
da Dio l’aiuto a vincere ogni tentazione (...). E dico, e replico, e
replicherò sempre sino che ho vita, che tutta la nostra salute sta nel
pregare;(…) pregate, pregate, e non lasciate mai di pregare ; perché, se
pregherete sarà certa la vostra salvezza; ma se lascerete di pregare sarà certa
la vostra dannazione». (Del gran mezzo della preghiera, in Opere
Ascetiche, vol. II, Roma 1962, p. l7l).
Queste affermazioni forti e chiare di S. Alfonso possono lasciare perplessi e
disorientati. Una domanda allora nasce spontanea: Se non recito le preghiere
mi danno per sempre?
Pregare non è dire le preghiere, dire delle parole, magari recitandole a
memoria o leggendole… anche distrattamente. Pregare
non si riduce a leggere dei libricini, in cui sono già scritte tante
preghiere. Pregare non è dire il Padre nostro, l’Ave Maria, il Gloria al
Padre prima di addormentarsi…
Ma allora che cos’è la preghiera? In che cosa consiste il pregare?
S. Teresa D’Avila con poche parole ne esprime il contenuto più profondo e
genuino: “L’orazione, non è altro, per me, che un intimo rapporto
d’amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui dal quale
sappiamo di essere amati”.
Questa definizione della preghiera ci dice che il dialogo fra Dio e l’uomo è un’esperienza
esistenziale, di vita vissuta, una profonda amicizia, anzi di più è rapporto
di figliolanza. La preghiera diventa pertanto il rapporto più alto della
realtà umana. Ed è su questa strada che si comprende la vera essenza della
preghiera. Che non riguarda né la durata, né la forma o il modo del nostro
pregare, ma piuttosto il riconoscimento e la coscienza della presenza di Dio
nella nostra vita e nella storia.
Pregare è incontrarsi con Dio, è lasciarsi amare da lui, è amarlo, parlargli;
ma soprattutto è ascoltarlo, lodarlo, ringraziarlo, adorarlo; è intercedere
per i fratelli, è chiedere con fiducia qualunque cosa, certi del suo amore di
Padre. Pregare non è quindi dire parole, ma incontrare Dio. Pregare è
voler stare con Dio, come due amici che trascorrono del tempo a dialogare, a
conoscersi, a sostenersi. Pregare non si esaurisce nel dire parole, ma
coinvolge tutta la vita, perché permette a Dio di entrare nella propria
esistenza.
Si comprendono allora i richiami forti di S. Alfonso sulla necessità della
preghiera come fonte della salvezza perché pregare è incontrare, accogliere
Cristo Gesù ed iniziare con lui un meraviglioso dialogo di amore che
necessariamente trasforma e cambia l’esistenza.
La preghiera che non porta alla conversione del cuore, della mente e delle
azioni, non è autentica. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel
Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»
(Mt. 7, 21).
“L’incontro autentico con il Cristo cambia la vita”: ecco l’obiettivo della
preghiera. Se la preghiera fa incontrare Dio, allora non si può non
convertirsi a lui, non si può non riconoscere il proprio peccato e pentirsi
di vero cuore.
Inizia un cambiamento radicale della propria esistenza, dove il cammino di
fede e la vita cristiana vengono sostenute e nutrite, nella carità e nella
misericordia, dalla forza della preghiera.
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Postulanti
e studenti redentoristi -Ω-
di Maurizio Iannuario
Quando un giovane, dopo un primo chiarimento e accompagnamento
vocazionale, decide di condividere la vita con i missionari redentoristi deve intraprendere un cammino di formazione
che lo aiuti a maturare e a crescere in questo progetto vocazionale. Tale
cammino è costituito da varie tappe che scandiscono la graduale scoperta ed
assimilazione dell’identità e del carisma redentorista.
All’inizio vi è il periodo cosiddetto del postulato o del postulantato:
quella tappa del cammino formativo vocazionale che si colloca immediatamente
prima del noviziato. Lo stesso significato del termine indica il clima pedagogico
di ricerca: postulare, chiedere, cercare di poter entrare. La sua finalità è
accompagnare il giovane nella sua prima esperienza di vita apostolica
redentorista.
Il postulantato deve essere un’iniziazione alla
vita comunitaria, che rende possibile conoscersi e farsi conoscere in vista
di un migliore discernimento vocazionale prima di entrare nel noviziato. Il
postulante, con l’accompagnamento del formatore, verifica l’idoneità della
sua vocazione. Questa verifica suppone un’indagine delle attitudini e qualità
richieste per la vocazione redentorista, nonché delle motivazioni che
sostengono tale decisione.
Riguardo alla sua durata, il Codice di diritto canonico si limita a dire che
«nessuno sia ammesso al noviziato senza un’adeguata preparazione» (can. 597,
2). Lascia al diritto particolare di ogni Congregazione il precisare i limiti
di tempo e di contenuto dei quali hanno bisogno i candidati nelle diverse
circostanze per considerarli pronti per l’ammissione al noviziato.
Per questo ogni realtà dei Missionari Redentoristi,
presente nelle varie parti del mondo, assicura le condizioni necessarie
affinché tale obiettivo si realizzi.
Dopo il noviziato, un’altra tappa importante è quella dello studentato o juniorato. Esso costituisce un nuovo periodo di formazione,
che si estende dai primi voti fino alla professione perpetua. È una tappa di
approfondimento e di maturazione della iniziazione alla vita redentorista
avviata nel noviziato.
Viene denominato studentato perché lo studio della teologia, in preparazione
a ricevere il Sacramento del Sacerdozio, ne caratterizza la sua condizione
fondamentale.
A tal riguardo al n. 87 delle nostre Costituzioni si legge: «Gli aspiranti al
sacerdozio riceveranno una formazione che li renda immagini viventi di
Cristo, sommo ed eterno Sacerdote. Impareranno a vivere uniti a lui, a
scrutarne tutto il mistero con lo studio scientifico e sistematico delle
materie teologiche e una conoscenza approfondita delle scienze umane. Nello
stesso tempo vivranno intensamente la vita comunitaria, applicandosi anche ad
un apostolato missionario proporzionato alle loro forze».
Lo studente redentorista, in questo periodo di formazione, prosegue la
crescita e maturazione del suo impegno con Cristo nella vita apostolica della
Congregazione. Attraverso un accompagnamento personalizzato sarà aiutato a
coordinare lo studio con la vita, le esperienze apostoliche con la vita
comunitaria, integrando tutto nella consacrazione a Cristo Redentore.
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Redentorista -Ω-
di Laureano Del Otero
Come nome, si riferisce a tutte le persone che appartengono alla
Congregazione (CSsR) o all’Ordine (OSsR) del Santissimo Redentore, o ancora a ognuno dei
diversi modi di consacrazione o aggregazione: religioso, sacerdote, suora o
laico.
Secondo le Costituzioni CSsR, il religioso si
definisce come servitore umile e audace del Vangelo di Cristo Redentore,
fedele al magistero della Chiesa, che proclama in modo speciale l’abbondante
Redenzione. Testimone del vangelo della grazia di Dio, riconosce la grandezza
della vocazione di tutto l’essere umano e di tutto il genere umano, e va
incontro al Signore lì dove Lui è presente e agisce in modo misterioso.
Annuncia la Buona Novella del Signore o con la testimonianza silente della
sua presenza fraterna, orante e servizievole, o con l’annuncio esplicito e
coraggioso della Parola di Dio.
Si considera apostolo della conversione, che con la sua predicazione cerca di
portare le persone a una scelta radicale di Cristo, che suscita e forma allo
stesso tempo comunità che siano segno della presenza di Dio nel mondo. Libero
e disponibile, divincolato da qualsiasi situazione o contorno, si incarica
della ricerca incessante di nuove iniziative apostoliche all’interno della
Congregazione del Santissimo Redentore, al servizio delle necessità della
Chiesa, universale o particolare. Cerca di interpretare i segni della
presenza di Dio e della sua volontà attraverso un’adeguata conoscenza ed
esperienza del mondo, un dialogo fiducioso con le culture e l’interpretazione
solidale degli interrogativi dell’uomo.
Le suore redentoriste, invece, sono religiose
contemplative chiamate a trasformarsi in Gesù Cristo in maniera radicale, per
giungere ad essere in maniera personale e comunitaria, una memoria vivente
del Mistero Pasquale di Cristo Redentore. Il loro stile di vita è differente
da quello dei missionari, poiché è segnato dal carattere monastico e
dall’impronta della loro fondatrice, Maria Celeste Crostarosa.
Tuttavia, svolgono la loro missione nel mondo in intima unione con i membri
della Congregazione del Santissimo Redentore, poiché condividono origine,
nome, spiritualità e vera fraternità.
In terzo luogo, i laici sono persone vincolate alla comunità redentorista in
modo particolare, in generale, in base al loro impegno nella Chiesa e alla
loro intensa partecipazione nella loro vita apostolica. Sono persone che
arricchiscono la loro identità laica al servizio della Chiesa con la
dimensione missionaria e la spiritualità redentorista. Il loro impegno
consiste nel partecipare alla missione della Congregazione, concretizzata
nelle priorità pastorali di ogni unità.
Come aggettivo, coincide con l’azione evangelizzatrice dei Redentoristi, è sinonimo di “missionario” e manifesta il
carisma che Sant’Alfonso apportò alla Chiesa universale a partire del 1732.
Esprime una forma di evangelizzazione specifica: dinamica, creativa,
profetica, coraggiosa, semplice e raggiungibile, che risponde alle urgenze
pastorali della Chiesa e si dirige in modo particolare ai più poveri e abbandonati.
Redentorista, pertanto, più che una determinata attività, indica un dinamismo
missionario, l’evangelizzazione propriamente detta, al servizio degli uomini
e dei gruppi che per la Chiesa e per le condizioni sociali sono più poveri e
bisognosi.
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Responsabilità -Ω-
di Francesco Visciano
Letteralmente, il termine responsabilità indica la risposta e la capacità
di rispondere ad una parola che ci viene rivolta. Non è certamente come
rispondere al campanello o al telefono perché questa parola è un appello
posto alla nostra coscienza che non ci lascia indifferenti, ma coinvolge
tutto il nostro essere ed esige una controparola, una risposta
appunto. Infatti, in ambito civile, definiamo responsabile una persona che si
fa carico di un impegno e, attraverso le sue scelte, è capace di realizzare
dei progetti. In ambito teologico l’appello che ci viene proposto lo
indichiamo col termine chiamata o vocazione. E la risposta ci crea responsabili
in un duplice senso: come colui che può rispondere e colui che deve rispondere.
Questa distinzione, anche se sottile, non è di lana caprina, perché pone due
grossi problemi:
• Il grande dramma di Dio: la risposta dell’uomo: anche se siamo
creature, Dio non ci ha creato come dei pupazzi con cui gingillarsi, ma ci ha
da sempre voluto come partner, come persone capaci effettivamente di entrare
in un dialogo di amore con Lui. A tal fine ci ha donato la libertà,
l’intelligenza, la coscienza, i sentimenti, la volontà. Allora, nel
rispondere, siamo realmente capaci di entrare in relazione con Lui. Il
progetto di Dio fin dalla creazione è di “passeggiare al nostro fianco” nel
giardino dell’Eden. Ma la risposta dell’uomo spesso rinnega tale relazione.
Tutta la storia della salvezza è un continuo appello di Dio che, nella sua
fedeltà, grida in ogni momento e in tutti i modi possibili lo stesso appello:
“Adamo (= uomo), dove sei?”. E, come un innamorato, attende trepidante da
ciascuno di noi una risposta, che cioè siamo responsabili.
• Il grande dramma dell’uomo: il peccato: l’uomo, però, spesso
equivoca la libertà. Dalla possibilità di essere di fronte a Dio, ne abbiamo
creato un’altra, quella di essere contro Dio, lontano da Lui, senza di Lui.
Così nasce l’assurdo dell’uomo, il peccato. Dio è Vita, Amore, Felicità… lontano da Lui siamo votati alla morte come il
figlio prodigo che, esaurite le sue sostanze, diventa schiavo e non ha
neanche più la possibilità di nutrirsi (=rimanere
vivo) come il più impuro degli animali.
Da quest’ultima affermazione deduciamo che la vera responsabilità va intesa
come obbedienza: infatti, la nostra libertà non è mai assoluta (=sciolta). Nel momento in cui si attiva in una scelta,
diventa sempre responsabilità. Insomma, nel momento in cui scegliamo, ci
rendiamo conto di rispondere sempre ad un appello di Dio.
Ma come caratterizzare la
responsabilità? Essa è il risultato di due coscienze e due libertà che si
incontrano per scegliersi in un dialogo d’amore (questo si può tagliare, forse…). La sintesi di questo percorso la
troviamo nella persona di Gesù Cristo. Egli è, da un lato, Verbo eterno del
Padre, chiamata radicale al progetto di vivere nell’amore; e, dall’altro,
risposta nell’obbedienza totale che realizza tale progetto. Non solo: Cristo,
nell’assumere la nostra carne mortale, libera la nostra libertà, perché
umanizza il divino e divinizza l’umano, dunque ci rende realmente capaci di
rispondere all’amore di Dio.
Gesù diventa, dunque, il modello da seguire per costruire la nostra responsabilità.
Il sì rivolto a Dio non è mai un atto puntuale. Non rispondo all’amore Dio
una volta per tutte. La risposta da l’orientamento (=opzione
fondamentale), ma deve essere continuamente confermata e accresciuta nella
fedeltà alla parola data (=opzioni particolari).
Gesù (=Dio salva) attua un circolo virtuoso,
alternando incessantemente parole e opere di salvezza alla ricerca del
dialogo intimo con Dio. E la preghiera riorienta e
radicalizza sempre più le sue scelte fino al momento in cui, nel Getsemani, comprende fino in fondo che realizzare l’amore
costa il sacrificio totale di sé. Se l’Amore è dono totale, bisogna fare
della propria vita un dono, divenire Eucaristia, pane spezzato per la
salvezza di molti.
Scegliere responsabilmente è inevitabile perché diventiamo ciò che scegliamo
di essere. Possiamo scegliere “per” (Dio e gli altri) e diventare
responsabili; possiamo scegliere “contro” e diventiamo incoerenti. Ma se non
scegliamo affatto diventiamo delle nullità.
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Redentore -Ω-
di Sabatino Majorano
Sono molteplici le strade attraverso le quali la Chiesa cerca di penetrare
il mistero del Cristo, Signore e Redentore. Il Redentorista è convinto che
tutte hanno bisogno di confluire nell’amore. «Ogni Redentorista – ricordano
le Costituzioni – sempre docile al magistero della Chiesa, deve essere
in mezzo al mondo un servo umile e audace della buona novella di Cristo,
Redentore e Signore, principio e modello dell’umanità rinnovata. Questa buona
novella ha per oggetto peculiare “l’abbondanza della Redenzione”, cioè
l’amore di Dio Padre che “ci ha amati per primo e ha mandato il suo Figlio
nel mondo come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4, 10) e che,
per mezzo dello Spirito Santo, vivifica ognuno che crede in lui» (n. 6).
È un amore che non si lascia bloccare neppure dal rifiuto più assurdo: quello
della croce. Guardando il Crocifisso, il Redentorista trova non la sconfitta
ma la vittoria pasquale dell’amore. Fa sua la prospettiva ribadita da Sant’Alfonso
nella Pratica di amar Gesù Cristo: «Ebbe a dire il grande amante di
Gesù Cristo, San Paolo: Caritas... Christi urget nos (1Cor 5, 14). E
volle dire l’Apostolo che non tanto ciò che ha patito Gesù Cristo, quanto
l’amore che ci ha dimostrato nel patire per noi, ci obbliga e quasi ci
costringe ad amarlo» (in Opere ascetiche, vol. I, Roma 1933, cap. I,
n. 8, 5).
Perché espressione di amore, la «redenzione raggiunge tutto l’uomo,
perfeziona e trasfigura tutti i valori umani per ricapitolare in Cristo tutte
le cose (of. Ef
1, 10; 1Cor 3, 23) e tutte condurle al loro fine: una nuova terra
e un nuovo cielo (of. Ap
21, 1)» (Costituzioni, n. 6).
Per questo i Redentoristi non si stancano di
annunziare che solo nel Redentore «trova vera luce il mistero dell’uomo… rivelando il mistero del Padre e del suo amore
svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima
vocazione» (Gaudium et
spes, n. 22).
Il Redentore è amore, che vuole irradiarsi, comunicarsi, portando tutti alla
pienezza e alla felicità. La sua “kenosis”, fino
all’assurdità della croce (cf. Fil 2,6‐11),
smentisce tutti i “sospetti” nei riguardi di Dio che la nostra cultura ha
accumulato: Dio non limita l’uomo, ma si fa dono incondizionato, che carica
di speranza tutta la nostra storia.
Dedicandosi con tutte le sue forze all’annuncio della copiosa redemptio, ogni Redentorista sa, come ripeteva
Sant’Alfonso, che è suo «impegno principale» quello di «lasciare in ogni
predica che fa i suoi uditori infiammati del santo amore» (Opere Complete,
vol. III, Torino 1847, 288).
Per questo i Redentoristi cercano di comprendere il
mistero del Redentore ponendosi sempre dall’angolazione di coloro che più
hanno bisogno di lui, perché più segnati dalle conseguenze nefaste del
peccato. Il Redentore non è solo chi devono annunziare, ma anche chi devono
«seguitare» perché l’annunzio sia autentico. Condividere le difficoltà di chi
fa più fatica ad aprirsi all’amore del Redentore, è sempre il primo passo per
ogni autentica evangelizzazione.
La vita quotidiana verrà indicata come il luogo in cui l’amore del Redentore
raggiunge ogni persona: per quanto dura, potrà aprirsi alla speranza. I
poveri e gli abbandonati riscopriranno la dignità
di battezzati e la vocazione alla santità.
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Religioso -Ω-
di Aldo Savo
Termine che indica l’appartenenza di una persona ad una religione. A
partire dal VI secolo in poi, in ambito cattolico,
l’utilizzo da tale titolo serviva per far riferimento a quelle persone che
professano in forma solenne e pubblica i voti di povertà, castità ed
obbedienza in un Ordine religioso divenendo monaci (monache) o frati.
In seguito, il termine religioso, è utilizzato facendo riferimento a coloro
che appartengono a delle Congregazioni religiose come la nostra che è
denominata del Santissimo Redentore.
Volendo fare una distinzione abbiamo due tipi di Congregazioni: clericali e
laicali. Questa suddivisione è espressa in base ai membri se sono
prevalentemente sacerdoti o laici.
Le Congregazioni religiose nascono dal XVII secolo in poi. Esse inizialmente
non erano obbligate a vivere uno stile di vita monastico tipico degli Ordini
religiosi. Questa sostanziale caratteristica Sant’Alfonso la riteneva molto
importante per la sua Congregazione nascente perché permetteva ai suoi membri
di essere più liberi dalla “rigidità monastica” in moda da svolgere, con più
“elasticità”, il loro ministero sacerdotale‐missionario.
Nel linguaggio ecclesiastico comune, la categoria di religioso, identifica le
suore e fratelli coadiutori – laici ovvero coloro che non possono accedere al
sacramento dell’ordine o perché donne oppure perché la loro vocazione non è
orientata verso l’ordinazione sacerdotale.
Nella nostra famiglia religiosa un fratello coadiutore di particolare
importanza è San Gerardo Maiella. Egli a 23 anni decide di incamminarsi sulla
via della santità vivendo nella Congregazione dei Missionari Redentoristi.
Per approfondire questo termine ti rinviamo alle voci: postulanti,
studenti redentoristi e novizi.
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Sacerdote
redentorista -Ω-
di Maurizio Iannuario
Dal suo popolo il Signore sceglie alcuni uomini e li riserva per sé,
rinnovando in loro l’effusione dello Spirito Santo: essi sono i sacerdoti. Il
sacerdote è chiamato ad essere la presenza vivente di Gesù il Salvatore,
vivendo nella propria esistenza gli stessi suoi sentimenti e atteggiamenti.
Ricevendo il sacramento dell’Ordine, egli diventa segno di Cristo Risorto.
Rende visibile la sua Presenza invisibile.
La grandezza di essere segno appare in certi momenti particolari del suo
ministero, come la celebrazione dell’Eucaristia: quando egli spezza il pane,
è Cristo che lo spezza e lo offre con le sue mani. Così, quando assolve dai
peccati, è lo stesso Cristo che accoglie e riconcilia il peccatore. Cristo si
serve di lui come strumento vivo di amore e di misericordia per l’umanità.
Tutto questo il sacerdote redentorista lo vive e lo attua con un grande
dinamismo missionario, che gli deriva dal suo carisma. Egli forte nella fede,
gioioso nella speranza e ardente nella carità, pieno di zelo, fa
dell’annuncio esplicito del Vangelo la sua ragion d’essere.
Nutrito abbondantemente della Parola di Dio che deve annunciare, esamina i
problemi e gli appelli del mondo con la quale la Chiesa è chiamata a
confrontarsi, cercando di darvi, insieme ai suoi confratelli, una risposta
adeguata. Si preoccupa di essere vicino alla gente, realizzando, una concreta
accoglienza e apertura al popolo. Pertanto, si rende presente con la
semplicità di vita e di parola laddove la persona è abbandonata a se stessa.
Egli vive sempre la scelta pastorale per i poveri. Accanto a questo annunzio
sente come importante il dedicarsi al ministero del sacramento della
Riconciliazione.
Nel contatto con gli abbandonati spiritualmente, il sacerdote redentorista,
come Sant’Alfonso, è convinto che il predicare sostanzioso e semplice e il
confessare misericordioso e paziente costituiscono i cardini di tutta
l’azione pastorale. Scrive, infatti, Sant’Alfonso: «Col predicare si gettano
le reti, ma col confessare si tirano al lido e si pigliano i pesci». Il
sacramento della Confessione diviene per lui, così, il momento
particolarmente intenso della formazione della coscienza dei fedeli, in cui
viene annunziato e celebrato, in modo meraviglioso, il Vangelo della
Misericordia di Dio in Cristo Gesù. Perseverante nella preghiera e nel dono
di sé, il sacerdote redentorista, da uomo apostolico, è sempre pronto ad
affrontare ogni prova per portare agli uomini l’abbondanza della Redenzione
di Cristo (cf Costituzione n. 20).
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Sequela -Ω-
di Alfonso V. Amarante
“Seguimi”, “Seguitemi” è la parola che
caratterizza la chiamata dei primi discepoli, a cominciare da Pietro ed
Andrea: Gesù «Vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo
fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse
loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Ed essi subito, lasciate le
reti, lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme
con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti; e
li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono» (Mt
4,18‐22). Gradualmente questo vivere con Gesù, si
trasforma in pensare come lui, valutare come lui, decidere come lui, agire
come lui.
Questo invito alla sequela continua a caratterizzare la vita di ogni
battezzato. La fede infatti non significa semplice assenso ad una dottrina,
tanto meno ad una ideologia, ma comunione di amore con il Cristo, che, per la
forza dello Spirito, plasma gradualmente tutta la vita, facendoci pensare ed
agire come lui e rendendoci suoi gioiosi testimoni.
La vocazione alla vita religiosa è stata sempre vista dalla chiesa come una
chiamata ad una sequela del Cristo più radicale. Con i voti, il religioso ne
condivide la scelta di povertà, castità ed obbedienza, ponendosi, con lui e
come lui, al servizio del Regno: «Se
vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai
un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt
19,21).
Lungo la storia sono stati diversi i modelli, in cui è stata espressa la
sequela: a volte l’accento è stato posto sulla concretezza dei gesti del
Cristo (imitazione), altre volte si è insistito sugli atteggiamenti; per
alcuni era prevalente la prospettiva morale e ascetica, per altri quella
mistica e di partecipazione; la preoccupazione di fondo è stata a volte
quella della perfezione personale, altre volte il servizio caritativo e
l’apostolato. Questa diversità si spiega non solo per la ricchezza e
complessità della sequela, ma anche per l’esigenza di dover testimoniare il
suo valore fondamentale in risposta alle possibilità e alle sfide dei
contesti sociali, sempre in evoluzione.
Nella storia della famiglia redentorista, a cominciare dalle origini, queste
diverse accentuazioni si intrecciano e si arricchiscono reciprocamente. La
prospettiva unificante è quella alfonsiana della
sequela del Cristo missionario per gli abbandonati, condividendone
atteggiamenti, stile di vita, scelte concrete. In questa maniera la sequela
diventa “continuare” nella storia la modalità in cui Cristo si posto tra noi
e per noi, a cominciare dai poveri, come annunzio e dono di salvezza. Si
tratta perciò di un imitare, che è frutto di partecipazione, in totale
apertura allo Spirito che ci fa continuare, nella novità delle situazioni, lo
stesso cammino del Cristo (cf Lumen Gentium, n. 8).
Il respiro missionario della sequela si fonde perciò con la sua profondità
personale di assimilazione e di comunione, come sintetizza la cost. 20:
«Forti nella fede, lieti nella speranza, ferventi nella carità, ardenti nello
zelo, coscienti della propria debolezza, perseveranti nella preghiera, i Redentoristi, da uomini apostolici e veri figli di
Sant’Alfonso, seguendo con gioia il Salvatore Gesù, partecipano al suo
mistero, lo annunziano con semplicità evangelica di vita e di parola e,
rinnegando se stessi, sono sempre pronti ad affrontare ogni prova per portare
agli uomini l’abbondanza della Redenzione».
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Spiritualità
redentorista -Ω-
di Maurizio Iannuario
Che cosa si intende per spiritualità? Per rispondere a tale domanda
dobbiamo farci guidare da un brano di S. Paolo ai Romani, laddove parla di
una «vita secondo lo Spirito» (cf Rm 8, 1‐12). Per il cristiano
«vivere secondo lo Spirito» è lasciarsi muovere, ispirare, condurre da quello
Spirito che ha mosso, ispirato, condotto Gesù Cristo.
La spiritualità cristiana ha il suo punto di riferimento principale e preciso
nella persona di Gesù Cristo. È essenzialmente un esperienza personale e
comunitaria di Dio in Cristo per opera dello Spirito Santo. Non si dà,
quindi, vita cristiana senza vita spirituale.
Come si può capire, per spiritualità innanzitutto non s’intende qualcosa di
astratto e di teorico, ma è espressione di vita e di coinvolgimento personale
nella storia della Chiesa e del mondo. Nel contesto di continui mutamenti
culturali e religiosi della società il Vangelo si esprime storicamente in una
varietà di proposte che hanno dato origine a diversi modi di viverlo e
testimoniarlo. Tra questi vi è la spiritualità redentorista.
Dalla sua fondazione, la Congregazione del Santissimo Redentore, ha
intravisto e diffuso alcuni aspetti peculiari della sua vita spirituale
lasciandosi guidare e sostenere dalla testimonianza e dagli insegnamenti del
fondatore Sant’Alfonso.
Centro della spiritualità redentorista è Cristo Redentore, così come si
presenta soprattutto nel Mistero dell’Incarnazione, Passione e Risurrezione
celebrato nell’Eucaristia: «I congregati, chiamati a continuare la presenza e
la missione redentrice di Cristo nel mondo, fanno della sua persona il centro
della loro vita, sforzandosi di aderire a lui sempre più saldamente»
(Costituzione n. 23).
La centralità di Cristo Redentore spinge i Redentoristi
ad essere testimonianza viva nel continuare la Sua missione di salvezza nel
mondo. Pertanto, la missione dà unità a tutta la loro vita.
Questa forza unificante è chiamata «vita apostolica che fonde insieme la vita
di speciale dedicazione a Dio e l’attività missionaria» (Costituzione n. 1).
La finalità apostolica impregna tutta la vita dei congregati: tutto è in
funzione dell’annuncio del Vangelo caratterizzato da un forte dinamismo
missionario verso quegli uomini e quei gruppi che sono più abbandonati e
poveri, per le condizioni spirituali e sociali (Costituzione n. 14). I Redentoristi, dunque, si rendo presenti laddove
l’abbandono spirituale della gente è più grave.
Il cuore di questo annuncio è l’abbondante Redenzione: la proclamazione
dell’amore misericordioso di Dio che in Cristo raggiunge ogni uomo. Esso mira
alla conversione, alla radicale decisione per Cristo, esprimendosi in un
cammino di fede proteso alla maturazione della vita cristiana, sia personale
sia comunitario.
I Redentoristi vivono in comunità, una realtà
essenziale per la loro missione: vivere in comunità e svolgere l’attività
apostolica per insieme alla comunità. La comunità non è soltanto un luogo
dove essi pregano e vivono insieme, ma è essa stessa una proclamazione
continua del Vangelo. Sull’esempio di S. Alfonso, la loro scelta degli
abbandonati si realizza vivendo, con zelo apostolico, in mezzo al popolo e
avvicinando la gente con la semplicità di vita e di parola. La Vergine Maria,
procedendo nel cammino di fede e abbracciando con tutta se stessa il progetto
di salvezza di Dio, è il modello di ogni redentorista. Ella ha sempre
collaborato e continua a collaborare alla Redenzione, soccorrendo
perpetuamente, in Cristo, il popolo di Dio (Costituzione n. 32).
Una rappresentazione simbolica della spiritualità redentorista si può vedere
nello stemma della Congregazione: la croce con la lancia e la spugna posta su
tre monti; ai lati della croce, le abbreviazioni dei nomi di Gesù e Maria;
sopra la croce, un occhio con raggi luminosi; in alto la corona. Intorno allo
stemma si legge: «Copiosa apud Eum Redemptio»
(Salmo, 129: Abbondante presso di lui la Redenzione).
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Santità -Ω-
di Ciro Vitiello
La santità è Dio. Egli è il solo Santo.
L’uomo è stato creato a immagine del “Santo”, a immagine di Dio. Per questo
l’uomo è un segno, il più vivo e immediato, della santità di Dio. Dice il
Signore: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,3).
L’uomo, quindi, più si avvicina a Dio, più è santo.
La santità non è una virtù, è l’entità costitutiva dell’uomo. Ciò che deturpa
l’impronta della santità di Dio nella sua anima e degrada la dignità della
sua persona, è il peccato.
Il peccato è “empietà”, è il rifiuto di riconoscere Dio come Dio. Il peccato
crea una barriera di separazione che non permette a Dio di trasmettere
all’uomo il suo alito di vita.
Gesù ha riannodato il legame interrotto dal peccato, e ha garantito una
stabilità di rapporto infondendo nel cuore dell’uomo riconciliato lo Spirito
Santo. Lo Spirito, perché Santo, opera la santità.
Perciò, tutti siamo chiamati alla santità. Lo afferma solennemente Paolo:
“Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts
4,3). Perché:
• siamo creati a immagine di Dio;
• Dio ci trasmette la sua vita;
• siamo redenti dal sangue di Gesù Cristo;
• abita in noi lo Spirito Santo.
Sant’Alfonso raccoglie tutta la dottrina biblica sulla santità nel suo libro
Pratica di amar Gesù Cristo: “Iddio vuol tutti santi, ed ognuno nello stato
suo, il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da
sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante
da mercadante, il soldato da soldato, e così
parlando d’ogni altro stato”.
Qual è la pratica concreta per farsi santi? Sant’Alfonso, raccogliendo
l’ascetica dei Santi e Dottori della Chiesa, la concentra sull’amore: “Tutta
la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro
Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore”.
L’amore verso Gesù Cristo si pone come il valore che fonda, sostiene,
avvalora, presiede, rettifica, finalizza l’intera vita cristiana. È
dall’amore a Gesù Cristo che scaturisce tutto ciò che riveste il carattere di
autentica componente
della santità e della perfezione. Perciò chi ama Gesù Cristo ama il patire;
chi ama Gesù Cristo ama la dolcezza, la benignità, la mansuetudine; chi ama
Gesù Cristo non desidera altro che fare sempre quello che egli vuole; chi ama
Gesù Cristo rifugge dalla tiepidezza e accresce il desiderio di essere
totalmente di Dio; chi ama Gesù Cristo vive la comunione con lui nella
preghiera; chi ama Gesù Cristo rifugge dall’amor proprio e si mantiene
nell’umiltà; chi ama Gesù Cristo ama il prossimo con lo stesso amore di Gesù
Cristo; chi ama Gesù Cristo vive una vita di grande fede e di ferma speranza;
chi ama Gesù Cristo non si lascia mai travolgere dalle tentazioni ed
abbattere dalla debolezza dello spirito.
Conclude Sant’Alfonso: “Da tutto ciò che si è detto vedete quanto è
necessaria la virtù della carità per farsi santi”.
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Teologia
morale -Ω-
di Sabatino Majorano
L’approfondimento della teologia morale è stato sempre visto dai Redentoristi come una componente importante della loro
missione. Non si può annunciare l’amore misericordioso di Dio in Cristo,
senza annunciare al tempo stesso come accoglierlo e come rispondergli.
Negli Statuti Generali viene chiesto a tutti i Redentoristi
di applicarsi «in modo particolare allo studio della teologia morale e
pastorale e della spiritualità, secondo la storia e l’indole della
Congregazione» (n. 023). S. Alfonso riteneva che chi era deputato
all’insegnamento della teologia morale «ha da essere il migliore soggetto della
Congregazione, perché a noi la Morale è la scienza più necessaria» (Lettere
I, Roma 1887, 598). Del resto gran parte della sua vita è stata dedicata
proprio all’approfondimento della teologia morale, fondendo insieme le
esigenze della verità con quelle storicità spesso drammatica dell’uomo.
Il far teologia morale per i Redentoristi si
caratterizza per una chiara impronta pastorale. Questo non significa
accantonamento delle istanze scientifiche proprie del discorso teologico, ma
lasciarsi interpellare costantemente dalla realtà per discernere in essa la
presenza dello Spirito, che sta portando a pienezza il piano di salvezza del
Padre in Cristo. È il cammino delineato dal Vaticano II nella Gaudium et spes.
Anche nella teologia morale i Redentoristi sono convinti
di dover «seguitare l’esempio» del Redentore evangelizzatore dei poveri:
condividendone gioie e speranze al pari delle sofferenze e delle sconfitte,
vogliono loro annunziare la possibilità di liberazione e di pienezza che il
Cristo ci dona con il suo Spirito.
Di qui la caratteristica di benignità pastorale con cui viene elaborata la
proposta morale: «la gioia e le esigenze della via del Cristo» (Catechismo
della Chiesa Cattolica, n. 1697) vengono specificate dall’angolazione
della persona chiamata a viverle, cominciando da coloro che più sono deboli.
E questo non per relativizzarle, ma perché possano essere accolte come gioia
ed esigenze rese possibili dalla grazia: «Siccome Dio ci ha amati per primo (of. 1Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un “comandamento”,
ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus
caritas est, n. 1).
Riportando ogni cosa al comandamento dell’amore, i Redentoristi
si impegnano a far sì che la proposta morale faccia sperimentare che «il
“comandamento” dell’amore diventa possibile perché non è soltanto esigenza:
l’amore può essere “comandato” perché prima è donato» (ivi, n. 14).
La verità morale verrà proposta come “medicina” per l’uomo ferito dal
peccato: vuole guarirlo, ridargli slancio, proiettarlo verso la santità. Il
punto di riferimento sarà sempre la «condotta del redentore», come non si
stancava di ripetere Sant’Alfonso: «considerando la presente fragilità della
condizione umana, non è sempre vero che sia più sicuro avviare le anime per
la via più stretta, mentre vediamo che la chiesa ha più volte condannato sia
l’eccessiva libertà che l’eccessivo rigore» (Teologia moralis,
II, Roma 1907). Giovanni Paolo nella lettera Spiritus
Domini riporta queste affermazioni per sottolineare che Alfonso è stato
«il rinnovatore della morale» e aggiunge che si tratta di «mirabili parole»
[AAS 79 (1987) 1367‐1368].
Nella proposta alfonsiana, tutta la vita morale
scaturisce dalla memoria, rinnovata costantemente soprattutto nella
preghiera, dello “anticipo” di amore di Dio in Cristo. Basta leggere i primi
capitoli della Pratica di amar Gesù Cristo con il loro insistere sulla
economia di «dono» con cui Dio cerca di «cattivarsi» il cuore dell’uomo.
Allora l’imperativo morale potrà essere sperimentato come cuore che spinge a
rispondere. Perché riconosciuta e detta dalla coscienza. la legge morale non
si opporrà alla libertà, ma le indicherà la via dell’autentica realizzazione
in solidarietà con gli altri.
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Uniformità
alla volontà di Dio -Ω-
di Francesco Ansalone
Il tema dell’uniformità alla volontà divina fa parte, nella teologia
spirituale di un tema ancor più vasto e quanto mai difficile, come l’unione
con Dio, come si raggiunge, quando avviene, itinerario, meta, mezzi ecc.,
ecc.
Il tema dell’uniformità alla volontà di Dio è uno dei più peculiari nel
linguaggio del Santo Dottore, abbondantemente usato, soprattutto nella
“Pratica di Amar Gesù Cristo”, ma anche nell’”Apparecchio alla morte” esso
indica la perfetta unione della volontà umana a quella divina, per cui non vi
sono due volontà ma una sola. E questa, insegna il Dottore Zelantissimo è la
pienezza dell’amore.
Nell’Apparecchio”al cap. XXXVI cosi scrive: «tutta la nostra salute e tutta
la perfezione consiste nell’amar Dio. Chi non ama non ha vita (I Gv 3,14). L a carità è il vincolo della perfezione (Col
3,14). Ma la perfezione dell’amore consiste poi nell’uniformare la nostra
alla divina volontà; poiché questo è l’effetto principale dell’amore: unire
la volontà degli amanti».
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Vita
Apostolica -Ω-
di Salvatore Brugnano
Guardandoci attorno scopriamo (a volte con sorpresa) che ciascuno di noi è
impegnato a costruirsi uno stile di vita, influenzato magari dai messaggi che
ci vengono dall’esterno. Sempre più spesso si incontrano ragazzi e giovani
che impostano il loro stile di vita ispirandosi ai divi del momento o dei
campioni maggiormente in vista. Prima manifestazione di questo stile di vita,
in genere, è adottare un look esterno (abiti, acconciatura…)
che si rifà a questi personaggi.
Con il termine di «vita apostolica» il Redentorista intende essenzialmente
uno stile di vita che «séguiti (continui) l’esempio di Cristo Redentore»:
una vita che comprende e fonde insieme la vita di speciale dedicazione a Dio
(= il Redentorista si consacra a Dio attraverso i voti religiosi) e
l’attività missionaria con le mille forme possibili.
Scopo della vita apostolica è l’annuncio del Vangelo, in modo speciale ai
poveri con i quali Cristo ha voluto identificarsi e vivere lo stesso spirito
che animava la prima comunità degli apostoli, come si legge nel libro degli
Atti (cf cap. 2). Questo riferimento biblico è
passaggio obbligato per la riflessione personale e comunitaria del
Redentorista.
Pertanto la missione di Cristo Redentore è la ragione di vita del
Redentorista. Con la professione dei voti religiosi egli si associa alla
missione di Cristo e la professione religiosa resta l’atto decisivo di tutta
la sua vita missionaria: sceglie il celibato, abbraccia la povertà e si
sottomette all’obbedienza per dedicarsi “con piena libertà” alla missione di
Cristo. Per la povertà il Redentorista si sente obbligato alla legge del
lavoro e, insieme ai suoi confratelli, testimonia la povertà evangelica
personale e comunitaria, mantenendo un tenore di vita conforme a quello dei
poveri. Ha inoltre il dovere di solidarizzare con i poveri, promuovendo i
loro diritti fondamentali e facendone proprie le loro legittime aspirazioni.
Chiaramente è uno stile di vita influenzato dall’evento‐Cristo,
avendo necessariamente ha al centro la persona di Cristo: vivere come
Gesù, fare come Gesù. Sull’esempio di Cristo, quindi, il Redentorista
annuncia l’abbondanza della Redenzione, vivendo in fraterna solidarietà i
problemi dell’uomo.
Vivendo questo stile di vita il Redentorista finisce col diventare a pieno
titolo socio e ministro di Gesù Cristo nell’opera della Redenzione e
partecipa alla missione della Chiesa che è «sacramento universale di
salvezza».
L’aspetto della sequela di Cristo (seguire Cristo, continuare a fare
come ha fatto Cristo) propone quindi la stessa via battuta da Cristo: via
della castità
per il Regno, della povertà e dell’obbedienza, via dell’annuncio diretto ed
esplicito del Vangelo o – quando questo non è possibile – della testimonianza
silenziosa.
L’annuncio e la testimonianza di Cristo segnano lo stile apostolico della
vita del Redentorista: egli si impegna ad essere un umile e audace servo del
Vangelo, consacrando a questo fine ogni sua energia e mettendo in comune i
doni e carismi personali.
Non si può parlare di vita apostolica nel Redentorista se egli si
estranea dal mondo e dalle sue attese o se si rifugia in uno devozionismo fine a se stesso. È necessario che egli dia
testimonianza: la testimonianza della parola, la testimonianza della speranza
che è in lui, la testimonianza della conversione (il primo chiamato a
convertirsi è proprio lui), testimonianza dello zelo apostolico verso i fedeli…
Questo stile di vita apostolica trova la sua sorgente e il suo culmine nella
liturgia e specialmente nell’Eucaristia: in essa il Redentorista trova
presente, per riviverlo, il mistero di Cristo Salvatore degli uomini e trova
quelle energie necessarie per la solidarietà missionaria che lo spinge verso
i fratelli. Il Redentorista considera l’Eucaristia segno della solidarietà
missionaria e con la preghiera personale e comunitaria accresce lo spirito
missionario.
Lo stile di vita apostolica comporta il vivere e lavorare in comune, una
semplicità di vita e di parola, una semplicità e sincerità di cuore. I Redentoristi svolgono la loro missione nella Chiesa
riuniti in comunità e sono tutti responsabili di questa missione.
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Vocazione -Ω-
di Pietro Sulkowski
Il termine significa letteralmente chiamare, convocare, invitare.
Comunemente con questa parola intendiamo la risposta da parte dell’uomo alla
chiamata di Dio.
Nella Bibbia con questo termine si vuole descrivere una relazione profonda
tra Dio e il suo popolo. La vocazione richiama soprattutto la chiamata alla
vita. È un invito divino a continuare l’opera della creazione. Nell’Antico
Testamento la vocazione indica che un uomo è stato scelto da Dio per un compito
o una missione. Nei Vangeli Gesù chiama i suoi discepoli a seguirlo e a
continuare la sua missione.
Oggi la concezione della vocazione ricorda che tutti sono chiamati ed ognuno
risponde secondo le proprie capacità. La vocazione non è mai un fatto compiuto.
Ogni scelta autentica obbliga la persona ogni giorno a riscoprire i motivi
della scelta e a rimotivarli.
Dal punto di vista teologico si ricorda che la parola vocazione va attribuita
a ogni stile di vita. Ogni persona è oggetto dell’amore personale di Dio che
lo chiama alla santità. L’uomo non solo ha una vocazione, ma è vocazione. Su
tale base il discorso ‘vocazione’ è articolato in maniera diversificata:
• la vocazione alla vita: è la chiamata universale. Ogni uomo è
chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione.
• la vocazione cristiana: la chiamata a realizzare la propria vita in
Cristo e nella Chiesa a livello personale e comunitario.
• le vocazioni specifiche: la chiamata particolare segnata dalla
radicalità della risposta al dono di Dio (sacerdotale o religiosa).
Gli elementi costitutivi della vocazione possono essere così sintetizzati: l’elezione,
la chiamata, la missione, l’assistenza. Quando Dio
chiama realizza un’elezione. Essa si esprime attraverso una parola rivolta
all’uomo. Con la chiamata Dio affida una missione. Questa missione ha bisogno
dell’assistenza divina, che consiste nel venire incontro da parte di Dio ai
dubbi e ai bisogni dell’uomo nel cammino esigente della risposta.
Nel pensiero alfonsiano Dio chiama ogni persona alla
santità e gli conferisce una vocazione specifica, e il modo di realizzarla.
Il Santo invita, quindi, ciascuno a scoprire il progetto di vita che Dio ha
per ogni persona e realizzarlo ascoltando la volontà di Dio. Invita anche a
ringraziare Dio e ad amare la propria vocazione. Secondo Alfonso la vocazione
è la manifestazione della volontà di Dio nella vita dell’uomo e necessita del
dono della perseveranza per realizzarla. Egli ribadisce che il posto
privilegiato spetta alla vocazione religiosa. Lo stato religioso è più
conforme alla vita di Gesù. Per cui chi si sente chiamato e non risponde alla
vocazione compromette la propria salvezza.
La PGVR ricorda che la vocazione non è un qualcosa di esterno all’uomo, ma è
piuttosto qualcosa che spiega alla radice il mistero della sua esistenza. La
nostra vocazione e la nostra felicità consistono nel portare a pienezza
l’amore. La vocazione dell’uomo è definita da tre realtà: Dio che lo chiama
alla vita, la comunità nella quale nasce e la sua stessa persona che è il mezzo
per compiere la vocazione affidatagli da Dio.
Nel suo apostolato la PGVR cerca di far scoprire, ai giovani, che la
vocazione cristiana è l’essere discepolo di Gesù Cristo. La PGVR nel processo
di accompagnamento dei giovani vuole aiutarli affinché essi comprendono
attraverso il discernimento le differenti vocazioni specifiche nelle quali si
concretizza la vocazione cristiana. Dentro questo processo, giunto il
momento, si presterà speciale attenzione alla vocazione specifica
redentorista. Nel porre nella sigla PGVR la “V” di “vocazione”, si
vuole dire che questa è una pastorale che cerca di rispondere alla chiamata e
alla ricerca che nasce dal battesimo cristiano. Difatti, un segno del carisma
redentorista è aiutare a scoprire la vocazione e ad incarnare il vangelo in
un progetto di vita.
In questa linea i Redentoristi sono chiamati da Dio
a compiere la loro opera missionaria. La nostra Regola di vita illustra
dunque il volto del vero Redentorista, la sua vocazione, la sua formazione,
ma anche la sua preoccupazione per aiutare i giovani a discernere la loro
vocazione.
Il Redentorista si pone accanto ai giovani in prospettiva di annuncio, ma
anche di ascolto. Non si dimentica però che il modo migliore per promuovere
le vocazioni è la preghiera, l’esempio della vita e la testimonianza
fraterna. Occorre anche sottolineare il fatto della comune responsabilità per
la promozione delle vocazioni. Potremmo dire che tutti i congregati sono
animatori vocazionali.
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Zelo -Ω-
di Francesco Ansalone
La parola zelo sta ad indicare nel lessico comune entusiasmo, fervore,
ardore che spinge ad adoperarsi per un fine o la diffusione di un ideale.
Nell’ambito cristiano indica lo slancio e l’impegno che spinge una persona o un
gruppo alla glorificazione di Dio attraverso l’annunzio o la propagazione e
diffusione di opere o altro.
Questo sostantivo se inquadrato nell’ambito redentorista si colora di un
accento del tutto particolare, infatti nel corso del XIX secolo, allorché S.
Alfonso venne dichiarato Dottore della Chiesa, gli fu attribuito
l’appellativo di “Dottore Zelantissimo”, indicando con esso ciò che più di
tutto distinse la sua esistenza, ossia l’ansia missionaria, l’annuncio della
buona novella.
Nei suoi scritti questo termine ricorre di sovente in quanto vuole i suoi
missionari sì preparati mo soprattutto zelanti. E alla morte di Clemente XIV
nel 1774, consultato dal cardinale Castelli, sulle qualità che il nuovo
vescovo di Roma dovesse possedere, Alfonso così scriveva: «E perciò bisogna
pregar Gesù Cristo che ci dia un Capo della Chiesa, il quale, più che di
dottrina e di prudenza umana, sia dotato di spirito e di zelo per l’onore di
Dio, sia totalmente distaccato da ogni partito e rispetto umano; perché se
mai, per nostre disgrazia, succedesse un Papa che non ha solamente la gloria
di Dio davanti agli occhi, il Signore poco lo assisterà, e le cose, come
stanno nelle presenti circostanze, andranno di male in peggio» (Lettere, II,
307).
Da questa sua particolarissima sensibilità egli desiderava che il missionario
redentorista consumasse tutte le sue energie intellettuali e fisiche per far
giungere a tutti gli uomini l’annuncio dell’abbondante redenzione donataci da
Cristo.
Le stesse Costituzioni della Congregazione spingono i congregati ad essere
ardenti nello zelo apostolico (n. 20), in quanto «ogni genere di povertà,
materiale, morale e spirituale, deve stimolare il loro zelo apostolico»
(Statuto n. 044).
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Zenone
Kovalyk -Ω-
dal Messale redentorista
Sacerdote, nacque il 18 agosto 1903 a Ivatsciv Horiscnij (Ternopil). Entrato
nella Congregazione del Santissimo Redentore, emise i voti religiosi il 28
agosto 1926. Completati gli studi di filosofia e teologia in Belgio, fu ordinato
sacerdote il 9 agosto 1932. Dal 1932 svolse l’apostolato missionario tra gli
ortodossi in Volynia. Inviato a Lviv,
ricoprì la carica di economo della comunità e della metropolia
di Lviv.
Arrestato dai bolscevichi il 20 dicembre 1940, subì torture e brutali
interrogatori. Quando il 29 giugno 1941 la città di Lviv
fu presa dalle truppe tedesche e furono aperte le prigioni sovietiche, il
beato fu trovato crocifisso alla parete di un corridoio della prigione di Brihidchy.
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