Benedetto Croce ha scritto di S. Alfonso /2
“Riguardo al molto simpatico santo napoletano Alfonso dei Liguori: non gliene vogliamo se esso, dopo aver salvato, alla meglio, l’eredità dei Gesuiti nel periodo seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù, diede l’ultima e ancora vivente forma alla casistica per confessori, che, togliendola da mani peggiori, si adoperò, da napoletano di buon senso e non da fanatico spagnolo, a moderare quanto più poté, non certo a servigio nostro e dell’alta morale, ma a servigio delle occorrenze pratiche della sua Chiesa”.
Quest’artcicolo propone i pro e i contro S. Alfonso secondo la sensibilità del grande critico italiano.
“Pro e contro” S. Alfonso: testimonianze sparse
1.
…Che ce ne fossero di basso animo, è da ammettere, come si ammette per più aborriti, Antonio Escobar, Giovanni Caramuel, Alfonso dei Liguori, erano uomini designissimi, di vita non solo incensurabile ma austera, incapaci di concedere a se stessi una sola delle facilità che accordavano agli altri. Essi erano mossi a quel loro probabilismo o lassismo o equiprobabilismo e simili, cioè alla larghezza e all’indulgenza, da due sentimenti, talvolta disgiunti, più spesso intrecciati tra loro.
Il primo era una tenerezza di cuore (che giustamente il Delerue attribuisce al buon Caramuel, al quale io, in quanto studioso del più barocco Seicento, sono particolarmente affezionato pei suoi zibaldoni di Ritmica e di Metrica), un avvedimento di non far che, col troppo rigore, le creature umane disperassero della salvezza e si abbandonassero al vortice del male, perdendo il paradiso, e, poiché quelle deboli creature sono le più, spopolando il paradiso.
Il secondo era un analogo motivo politico di non sottrarre, con le troppe rigorose esigenze uomini (e specialmente sovrani, principi, ministri, aristocrazia, nobili dame, ecc.) alla forza di cui ha bisogno la Chiesa di Roma per lottare, come potenza politica, con le altre potenze politiche. Certo, per questi stessi fini politici, alla Chiesa di Roma non piacciono gli eccessi, né quelli del rigore né quelli del lassismo; ché, se i primi le toglierebbero uomini, i secondi richiamerebbero nella cerchia della Chiesa turbe indisciplinate e indisciplinabili; e perciò dopo aver esitato e provato, essa prescelse per questa parte, e dichiarò dottore della Chiesa Alfonso dei Liguori, avvocato, gentiluomo, ricco di buon senso e (che non guasta) non fanatico spagnolo, ma giudizioso italiano e napoletano.
Senonché, né il problema del popolamento del paradiso né quello della prosperità della Chiesa di Roma hanno nulla da vedere coi problemi di coscienza o problemi morali, e con la corrispettiva filosofia.
Nemmeno si può dire che la concezione legalitaria della morale fu direttamente causa della morale gesuitica e del lassismo e probabilismo, perché la forma di legge data alla morale consisteva, per sé presa, in un errore logico e non in una cattiva disposizione morale. I probabilioristi, i turzioristi, i rigoristi, i giansenisti commettevano anch’essi quell’errore logico, e nondimeno poco solleciti di popolare il paradiso o poco solleciti degli interessi politici della Chiesa di Roma, lo riempivano di una diversa e opposta disposizione morale. Par quasi che in alcuni di essi, o in alcuni loro momenti, quella forma legalitaria sia per essere rotta e buttata via; ma il fatto non accade mai compiutamente e veramente.
Accadde soltanto nell’etica nuova, sorta in ambiente protestante, dove l’eterogeneità di “coscienza morale” e di “leggi” di libertà interna e di autorità esterna, era continuamente avvertita. Ma, se il protestantesimo fu stimolo a quella critica (stimolo positivo, come l’enormità del probabilismo le fu stimolo negativo), essa, a dir vero, come non è cattolica, non è neppure protestante, perché è semplicemente verità: verità della vita morale.
Che Iddio illumini i Liguoristi o Redentoristi e gli altri casisti, i cui occhi sono ancora chiusi alla luce di questa verità.
(da Conversazioni critiche, serie IV Bari 1932; vol. XXVI, p. 110 ss.)
2.
La morale assunse sempre più forma legalitaria e perciò il suo svolgimento non fu teorico e filosofico ma pratico e casistico, e alla casistica anche gl’italiani contribuirono, sebbene gli autori principali di essa fossero spagnuoli e un eminente trattatista italiano di questa materia si avesse solo nel secolo appresso, quando si procedette a temperarla, Alfonso de Liguori, che è rimasto poi il classico di tutta la scuola.
A p. 339: Sono versetti a uso pratico, tradizionali nella Chiesa e quali deve comporne, nel secolo seguente, Alfonso de Liguori, nelle sue “Canzoncine spirituali”, ancora cantate nelle pie adunanze e presso il popolo.
(da Storia della età barocca in Italia, ed. II, Bari 1946, p. 72)
3.
Illustrando Torquato Accetto e un trattatello del medesimo: Della dissimulazione onesta, Croce in una nota osserva: “Basta per tutti rimandare alla posteriore e conclusiva trattazione della Teologia moralis del Liguori (lib. III, n. 171)”.
(da Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, ed. II, Bari 1949, p. 93)
4.
Non solo per questi scandali, (il teatro in provincia), ma per l’antico odio della Chiesa contro i mascheramenti, le recite, e gli “istrioni”, il clero interveniva anch’esso contro le rappresentazioni drammatiche e comiche nelle province. Severissimo fu Alfonso de Liguori nel suo vescovato di S. Agata dei Goti, scacciando i commedianti che vi capitavano, e ottenendo perfino che i galantuomini del luogo rinunziassero a qualche commedia da essi concertata, come la “Contessa di Sperciasepe”.
(da I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo XVIII, ed. IV, Bari 1947, p. 242)
5.
Esso (il popolo) componeva quasi soltanto rozze storie di delitti e di briganti o si sfogava in plebei motti satirici; e, unico segno di elevazione, talvolta uomini pii e gente di Chiesa (come S. Alfonso de Liguori) gli fornivano canzoncine spirituali. Si formò altresì in quel tempo, dall’un capo all’altro d’Italia, una letteratura dialettale, la quale, nonostante le apparenze, non era punto popolare, ma spiccatamente accademica (e solo in pochi casi non artificiale ma artistica), e quasi tutta di intento scherzoso e paradistico, in cui il popolo entrava come oggetto di curiosità pei suoi tratti semplici e goffi.
(da Poesia popolare e poesia d’arte, ed. 11, Bari 1946, p. 45)
6.
Come ho detto in altra occasione, nelle mie ricerche per la storia dell’Italia meridionale mi è piaciuto leggere parecchie dalle moltissime biografie di servi di Dio, beati e santi, che nacquero e vissero in queste regioni. Non sono scritture da cui direttamente e principalmente si traggono ragguagli di storica fuori delle poche che riguardano uomini che operarono più o meno largamente nella vita sociale per gli istituti che fondarono (progressivi o reazionari che fossero rispetto alla civiltà, o reazionari per un verso e progressivi per l’altro), come Camillo de Lellis e Alfonso dei Liguori. Le più sono semplicemente di uomini pii, devoti alla Chiesa cattolica, che a pro della Chiesa dettero esempi di vita edificante e procurarono, con le pratiche di culto e le dolci o le aspre parole, d’indurre altri, come loro meglio riusciva e spesso solo nell’estrinseco, alla loro regola di vita…
Ma circa l’arte di maneggiare e governare la plebe napoletana e le sue condizioni e il costume, oltre la vita di Alfonso de Liguori del Tannoia (da leggere nelle prime edizioni, in cui i personaggi, compreso il santo, parlano in dialetto) ha speciale importanza il volume del padre oratoriano Pietro degli Onofri, di “Elogi storici di alcuni servi di Dio che vissero in questi ultimi tempi e si adoperarono nel bene spirituale e temporale della città di Napoli“, i quali erano il P. Francesco di Girolamo, il p. Giambattista Caracciolo, il p. Francesco M. Pepe e il p. Gregorio Rocco.
(da Varietà di storia letteraria e civile, Bari 1949, p. 105 ss., e 126)
7.
Di un giacobino e martire, Nicola Mazzola di Durazzano, ho incontrato il nome dove meno si aspetterebbe, nella vita di S. Alfonso dei Liguori, scritta dal Tannoia, secondo il quale il santo vecchio gli avrebbe predetto, rimproverandolo del poco cervello e del poco costume, la fine disgraziata che avrebbe incontrata, e che incontrò in effetto, “benché avanzato in età”, per essere entrato in Napoli nel gennaio 1799 in testa alle truppe francesi, per aver piantato in parecchi comuni l’albero della libertà, e per altri atti e consigli repubblicani. Il prete Tannoia pubblicava il suo libro l’anno stesso che il Mazzola mori sul patibolo, e perciò lumeggiava la persona e il caso di lui conforme ai propri fini di panegirico e di edificazione.
(da Aneddoti di varia letteratura, vol. 11, Napoli 1942, in nota a p. 4)
8.
Recensendo la traduzione spagnola delle “Canzoncine spirituali” compiuta in collaborazione da Jesus Angel Sanchez Gamena: “San Alfonso poeta, Selecciòn de paginas de San Alfonso M. de Ligorio”, Mexico 1949, in 8, pp. 160, Croce asseriva: “È a un gentile padre redentorista, che venne a visitarmi alcuni mesi or sono, devo il dono di questo grazioso volume, che ravvivato da vedute di Napoli e di cose napoletane, ci presenta una ricca scelta delle canzonette del Liguori, tradotte dal Gamena e dai suoi 4 fratelli, di cui tre altresì redentoristi e il quarto sacerdote. Hanno essi fatto parlare (e quasi se ne scusano) al santo napoletano, “in luogo della dolce lingua italiana il sonoro accento del Cervantes”, ma in ciò a me sembra che i molto umili versi italiani del santo abbiano, nella traduzione, guadagnato alcunché. Il titolo del libro: Sant’Alfonso poeta mi fa tornare in mente il saggio che con lo stesso titolo un sacerdote napoletano, in ultimo vescovo (del quale fui scolaro nel primo studio di Dante), Mario Palladino, pubblicò nel 1887 nel periodico napoletano La carità e l’Orfanello del padre Ludovico da Casoria: saggio nel quale si lamentava che le storie letterarie italiane ignorassero la poesia del Liguori e così non ben ritraessero il corso e il progresso di quel genere letterario religioso.
Ma fu poeta S. Alfonso?
La raccolta delle sue canzonette non va facilmente per le mani, e sebbene se ne abbia una ristampa moderna, credo che sia anch’essa rara, e, comunque, a me la raccolta è nota nel volumetto: Viva Gesù e Maria. Canzoni spirituali del B. Alfonso Maria de Liguori, vescovo di S. Agata dei Goti e fondatore della Congregazione del SS. Redentore, Napoli, De Bonis, 1823, il quale, quando la prima volta io lessi, non mi parve, in verità, che avesse avuto altro intento che di offrire sequele di frasi devote, non splendenti di coerenza né di concisione né di proprietà, ritmate in metri e in rime, perché più facilmente venissero ricordate e scorressero dalle ugole dei fanciulli, delle donne e dei popolani che il Liguori raccoglieva nelle sue “Cappelle serotine”; canzoni che furono poi adattate ad altre adunanze simili. Anche a mettervi tutta la buona volontà non si riesce a cogliere un piccolo moto di poesia in quegli stessi punti, che il mio buon maestro contrassegnava come particolarmente felici: Sai che vogl’io, dolce Maria, speranza mia? Ti voglio amar. Ovvero modificando il metro: La più bella verginella, cara mia Maria, sei tu; creatura così pura come te non mai vi fu. Il tuo viso è un paradiso pien di grazia e purità; più divina e peregrina dopo Dio, non v’è beltà. O ancora, cangiando oggetto: Io mi moro per desio di vederti, o mio Gesù. Già mi annoia, o mio bel Dio, il più vivere quaggiù. È un tormento così amaro ch’io soffrir nol posso più: vivo qui da te diviso, ma a te penso e sempre grido: Paradiso, paradiso.
Non si riesce a far tacere il sospetto che queste parole e questi ritmi siano, senza porvi intenzione, rivolti a mortificare e ad addormentare, o, in ogni caso, a occupare il posto della facoltà di pensare.
Anche la più popolare di coteste canzonette che ci commosse e ci commuove, accompagnata dal suono delle cornamuse dei zampognari del prossimo Natale, e che talvolta anche oggi, se si riode in lontano per qualche istante, ci riporta alle sensazioni della nostra infanzia, non è quell’idillio, che (come diceva il critico di sopra ricordato) “che serba tutta la sua fresca giovinezza”: Tu scendi dalle stelle, o re del cielo, e vieni in una grotta, al freddo, al gelo… È nello stesso stile delle altre canzonette.
O Dio beato, e quanto ti costò l’avermi amato?
Con l’insistenza di considerazioni a eccitare negli animi una commossa gratitudine che non sgorga da sé:
A te che sei del mondo il Creatore mancan panni di lino, o mio Signore! Tu lasci del tuo Padre il divin seno per venir a penar su questo fieno… O Gesù mio,perché tanto patir? Per amor mio!
E vi si propone ancora qualche dubbio, razionale e ragionante, che, rapidamente da parole precipitose, abbiano o no un senso, vien portato via.
Ma se tua hai voluto il tuo patire, perché vuoi piangere poi, perché vagire?… Sposo mio, augusto Dio, mio Gesù, t’intendo sì! Ah mio Signore, tu piangi non per duol, ma per amore.
Con questi accenni non si vuol innovare una insipida polemica anticlericale, quale si usò in una guerra combattuta e vinta nei secoli passati, per sempre, nella sfera intellettuale e morale nella quale era stata condotta.
Anzi, si vuol riconoscere (come nel corso di quella polemica non si soleva) che la Chiesa, dommatica com’è, non può fare se non quel che fa: riconoscimento che dovrebbe essere più rassegnato ora che si vede che i medesimi metodi sono largamente adottati e zelantemente praticati da gente che si vanta anticlericale e materialista, ma che, componendo a suo modo un’ecclesia, e non potendo contare sulla spontanea adesione delle menti e delle coscienze, è astretta ad impiantare fabbriche di devoto fervore, rivolte ai loro pratici fini. Solo noi, amatori, non a parole, di libertà, siamo al contrario, al sempre redire in se ipsum, cioè nella razionalità del vero e del bene, e ci rendiamo conto che se sempre troveremo di fronte, sia pure con cangiate vesti, i medesimi avversari, e, se anche potessimo, non vorremmo sopprimerli perché temeremmo di sopprimere, nello stesso atto, noi stessi, cioè la fede nell’opera nostra.
Ma non divaghiamo dal molto simpatico santo napoletano Alfonso dei Liguori: e non gliene vogliamo se esso, dopo aver salvato, alla meglio, l’eredità dei Gesuiti nel periodo seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù, diede l’ultima e ancora vivente forma alla casistica per confessori, che, togliendola da mani peggiori, si adoperò, da napoletano di buon senso e non da fanatico spagnolo, a moderare quanto più poté, non certo a servigio nostro e dell’alta morale, ma a servigio delle occorrenze pratiche della sua Chiesa.
(da Quaderni della Critica, Bari 1949: ovembre: Rivista bibliografica, p. 108 ss.)
9.
Non privi d’interesse sono i “Contributi biobibliografici” che, col titolo S. Alfonso de Liguori (1696 ‑ 1787), hanno consacrato al loro fondatore i padri Redentoristi Oreste Gregorio, Domenico Capone, Ambrogio Freda e Vincenzo Toglia (Brescia, Morcelliana, s. a., ma 1940). Poiché il de Liguori fu immatricolato all’Università di Napoli dal 1708 al 1710 e pare (giacché la cosa non è certissima) avesse per maestro di teologia il canonico Nicola Torno (v. sopra pp. 187‑189), i compilatori suppongono che sia all’Università sia in casa del Torno, il loro Santo entrasse in rapporti personali col Nostro [Vico].
“Che Alfonso abbia conosciuto il Vico ‑ scrive il Freda (p. 108) ‑ non c’è da dubitarne: innanzi al professore di retorica egli fece il suo esame di grammatica per 1’ammissione alla facoltà di diritto; avrà ascoltata la settima orazione inaugurale “De nostri temporis studiorum ratione“, che il Vico lesse il 18 ottobre 1708, e forse anche la sesta dell’anno innanzi; non poche volte si saranno incontrati nella biblioteca dei Gerolamini”, ecc. ecc.
Tutto ciò è mero frutto di fantasia. Si pensi, per non dire altro che nel 1706, data effettiva della sesta orazione inaugurale (v. sopra p. 10) il de Liguori contava dieci anni! E frutto di fantasia è altresì ciò che scrive il Capone (p. 173) della possibilità che il de Liguori, vedesse sul tavolino del Torno il manoscritto della prima “Scienza nuova” che, per giunta, non sembra che il Torno rivedesse, dal momento che il suo parere si riferisse alla dispersa “Scienza nuova in forma negativa” e assistesse a qualche scambio d’idee tra il nostro e il suo revisore ecclesiastico. Più probabile sembra qualche incontro in casa di Domenico Caravita, che, come informava già il protobiografo del de Liguori, Antonio Tannoia, e conferma il Capone (p. 140), fu, in gioventù, molto frequentata dal Santo. Utili, a ogni modo, i ragguagli bibliografici che si riferiscono del Torno (pp. 168 ‑ 74), del quale si produce anche un ritratto a olio custodito nel Duomo di Napoli.
(da Bibliografia Vichiana, Napoli 1948, pp. 902 ‑ 903)
________________
Riportato in
Ermelindo Masone e Alfonso Amarante
S.Alfonso de Liguori e la sua opera
Testimonianze bibliografiche
Valsele Tipografica 1987, pp.244-250.