S. Alfonso e il secolo dei Lumi

Hanno scritto di S. Alfonso /1
Gabriele De Rosa su S. Alfonso

S. Alfonso e il secolo dei Lumi

C’è un aspetto importante dell’impresa di S. Alfonso a Napoli: egli non si confonde nella povertà e nella miseria dei “lazzari”, non c’è nulla di sociale nei suoi discorsi, non ha né può avere la mentalità di chi organizza comitati e circoli per la difesa di qualcosa, non per opera in funzione diretta della parrocchia per garantire ad essa consensi laicali, non scende al linguaggio dei poveri penitenti, anche se il suo parlare è semplice e costruito per essere compreso, non crea distanza fra lui e chi lo ascolta, non lo sfiora l’idea di terrorizzare.


S. Alfonso resta nel comportamento un signore, un gentiluomo, che si preoccupa di essere capito non solo dal povero penitente, dal Lazzaro e dal tagliaborse, ma anche dai nobili e dai borghesi. Egli è certamente il più grande santo uscito dal mondo dell’alta borghesia napoletana, che della sua cultura non fa qualcosa di diverso, che lo separa dagli altri: tutta la sua preparazione teologica, filosofica ed etica è messa al servizio dei nuovi penitenti, di quei penitenti ai quali fino a quel momento nessuno aveva parlato di un Dio della misericordia, di un figlio di Dio fatto uomo, non in astratto, ma nel concreto della vita di ogni giorno, nella storia di tutte le povertà e miserie di questa terra. (…) 

Attraverso, quindi, la dottrina del Liguori si realizza una rivoluzione copernicana nell’amministrazione dei sacramenti: la confessione dal piedistallo del rigorismo scende al livello del peccatore, si umanizza, per così dire, è un sacramento per gli uomini di un nuovo secolo, di un secolo i cui modi di vita, influenzati dall’estendersi del mondo della fabbrica e dalla crescita delle città, stanno cambiando profondamente, investendo tutti i livelli della società, tanto quelli rurali quanto quelli urbani. È ormai nato un nuovo borghese liberale che reclama “il diritto di esprimere la propria opinione, di scegliere il proprio lavoro e di esercitarlo; di disporre della sua proprietà e perfino di abusarne, di andare e venire senza chiedere permessi e senza render conto delle sue intenzioni e dei suoi passi. È per ognuno il diritto di unirsi con altri individui, sia per ragione dei propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono” (B. Costant). 

I problemi della nuova condizione dell’operaio e della sua famiglia nelle società capitalistiche sollecitano le ipotesi più straordinarie del primo socialismo, quello pre marxistico, da Fourier a Saint Simon a Proudhon, avverso alla civiltà moderna, ritenuta essenzialmente repressiva, e favorevole a nuovi e palingenetici ordinamenti sociali ritenuti più conformi alla natura umana, in cui si oscilla da una difesa della priorità dell’agricoltura sull’industria a una progettazione gerarchica di associazioni produttive per il governo del paese. 

Gabriele De Rosa, uno degli storici più accreditati degli ultimi tempi; esperto soprattutto della storia del Sud dell'Italia. E' stato attivo anche in politica. E' morto a Roma l'8 dicembre 2009. - Grande estimatore della figura e dell'opera di S. Alfonso.

La morale liguorina non sceglie alcun partito, non si accompagna a nessuna ideologia: va bene per il prete ultramontano, per l’ex refrattario, per il seguace della dottrina gallicana, appena si convincono della fragilità e dell’inadattabilità dell’edificio rigorista alla mentalità dei penitenti che vivono in una società complessa, dove tutte le antiche gerarchie sono sconvolte, dove si ha sempre più bisogno di un confessore più umano, più capace di intendere i drammi, le difficoltà e le ansie della vita quotidiana.
Si badi bene che la teologia morale del Liguori, immersa nel clima più fiducioso di certa cultura religiosa napoletana della seconda parte del XVIII seecolo, non è preceduta da nessuna riserva o condanna sui modi di sviluppo della società: la disponibilità della morale liguorina ad aprirsi alla conoscenza antropologica del penitente, con le sue miserie, con i suoi problemi di vita, con le sue paure, è massima. 

Gli sviluppi della sua dottrina sono tutti a livello pastorale, non lasciano prevedere alcun elenco di anatemi contro le ideologie e le filosofie moderne: anche se il suo linguaggio contro le “eresie” e contro Lutero non lascia scampo. Dedicò il suo libro sulle “eresie” a Bernardo Tanucci, con un po’ di scandalo anche fra i suoi, ben sapendo come il geniale ministro di Carlo III fosse la “bestia nera” di tutte le congregazioni, vecchie e nuove. Ma, dando al tempo quel che è del tempo, e i santi vivono nella storia (non avrebbero senso se fossero fuori di questa), quel mettere la pastorale in rapporto con la fragilità umana, quel far dipendere il perdono più della misericordia che dalla legge, quel restituire alla confessione e al confessare il ruolo di un atto di amore, per quel secolo e per noi, fu evento certamente straordinario. 

Da giudice il sacerdote diventa padre: una trasformazione che poteva scaturire in S. Alfonso solo dalla sua ansiosa e generosa pratica evangelica in mezzo ai condannati, agli esclusi, ai fuorilegge, ai poveri, pratica che poco a poco lo liberò dal cupo rigorismo degli anni giovanili, di cui fu pieno tutto il Settecento e parte del XVIII secolo: alla lunga il risultato di questo capovolgimento “copernicano” della teologia morale non sarebbe stato possibile se in S. Alfonso non fosse affiorata la consapevolezza della libertà come fondamento della fede e delle scelte del cristiano, a cui il missionario, vescovo o curato, avrebbe offerto il supporto della carità. 

Che il suo insegnamento sia stato talvolta equivocato, che si sia voluto associare troppo spesso la sua teologia alla cultura dell’ultramontanesimo, che si sia troppo insistito sull’aspetto sociale della predicazione sua e dei redentoristi (la pacificazione delle classi e delle famiglie) nel clima delle alleanze trono altare, ha forse lasciato in ombra la sua rivoluzione pastorale, attuata senza proclami e messaggi, ma in una eccezionale, rarissima simbiosi fra dottrina e pietà. 

Da questo punto di vista la teologia di S. Alfonso è fuori da una stretta periodizzazione storica, proprio per la profonda umanità che l’ispira, per l’unica preoccupazione che la regge e che è quella della salvezza, in ogni circostanza e in ogni condizione, del penitente, del singolo penitente, purché si affidi alla misericordia di Dio. Di lui, comparandolo alla figura di Voltaire, lo storico e teologo luterano Adolph Von Harnack scrisse: “Voltaire e il Liguori, che furono contemporanei, sono stati gli uomini più influenti nella direzione delle anime delle nazioni latine”. 

Gabriele De Rosa
(in Rassegna di Teologia, anno XXVIII,
gennaio febbraio 1987, ed. AVE, Roma pp. 13 31) 

  • Gabriele De Rosa. – Nato a Castellammare di Stabia nel 1917, ex Rettore dell’Università degli Studi di Salerno, è stato professore di storia contemporanea nelle università di Padova e poi Salerno; ha insegnato presso l’Università di Roma. È stato Direttore del Centro Studi per la Storia del Mezzogiorno. I suoi studi sono dedicati prevalentemente alla storia del movimento cattolico dell’Italia dopo l’Unità. Tra le sue opere ricordiamo: Il Partito Popolare italiano (1958), Storia del movimento cattolico (1966), Vescovi, popolo e magia nel Sud (1971), Luigi Sturzo (1972), Le rivoluzioni nell’età contemporanea (1974). E’ morto a Roma, l’8 dicembre 2009.

_______________________

Riportato in
Ermelindo Masone e Alfonso Amarante
S.Alfonso de Liguori e la sua opera
Testimonianze bibliografiche

Valsele Tipografica 1987, pp.208-210.